I due hanno accolto l’imposizione genitoriale con l’entusiasmo di un eremita costretto ad andare in vacanza a Ibiza, di Biancaneve dopo aver mangiato la mela, di Candy Candy quando scopre che Terence ha scelto una più sfigata di lei. Perchè i quattro della famigliola si sono ritrovati, la domenica mattina, insieme ad altre genti e all’organizzatore Pino, che è un amico del cuore dello sposo, in un luogo del sud suddissimo. Da questo posto qui il mare aveva la lontananza delle cose che sembrano immobili e ti arrivano agli occhi e al cuore, come una meditazione. In questo posto qui, Tizianeda si è sentita felice e placida come non le succedeva da un po’, si è sentiva distante e presente. E mentre camminava immersa nella bellezza allegra del suo sud suddissimo polposo, oltre a giungerle al condotto uditivo l’intermittente brontolio dei due della famigliola, si è sentita pezzo di terra, di cielo, di foglie, di fiore, di corteccia, di nuvola e vento, di roccia e insetto e va bene anche di borbottio che tanto, integrava il paesaggio e non era poi così fastidioso. In questo posto qui ha visto un cielo stupito che le ha regalato l’immagine di una balena volante, ha visto alberi di mandorlo antichi e pieni, ha visto il giallo delle ginestre che la salutavano, riconoscendola, dai cigli delle strade sterrate e dai pendii, ha visto piante dai nomi strani e una distesa di pale eoliche eccitate dal movimento circolare del vento. Ha visto la pioggia arrivare e sparire, ha visto rocce che un tempo hanno conosciuto il mare, potenti come monoliti sacri. E in tutto questo vedere e sentire e toccare, ha assorbito la bellezza sacrale ed esuberante della sua terra. Ha visto anche una quindicenne e un undicenne che a un certo punto le si sono attaccati uno alla sua destra e una sua alla sinistra, proponendole la diserzione dai locali scolastici il giorno dopo, per stress da escursione. Ma Tizianeda, che si sentiva forte e potente come la madre terra, ha negato la grazia ai due, che il lunedì mattina, nonostante lo stress da escursione hanno ricevuto la consueta sveglia scolastica. Hanno borbottato un po’ con i loro arcigni genitori e poi, rassegnati, si sono recati a scuola. Eppure, i due, quando sono ritornati nei 90 mq, dopo le cinque ore di costrizione, sono apparsi sorridenti e sereni. Tizianeda è certa che la madre terra del sud suddissimo, ha operato in gran segreto anche per loro.
Ciao mamma, che ti chiamo a volte madre, come una figlia adolescente e più spesso mamma vecchietta e a volte mamma sul pianerottolo, perché sei sempre lì come un agguato, e mi chiedo come fai a spuntare dalla porta di casa tua, quando arriviamo. E non so perché ora ti scrivo. Sarà colpa della festa della mamma che mi ha fatto fermare sui pensieri di noi, o questi giorni di perdita e assenze, che tu sai. Giorni potenti e affranti, che mi insegnano ancora a lasciare andare. Non è questo che ti dice la vita a ogni passo? Un continuo scivolare di mani. E’ così che fa il nostro ventre quando è abitato. Lascia andare, abbandonandosi al vuoto. E’ generoso il ventre di una donna, accoglie e dona, sa la pienezza e l’improvvisa solitudine.
Ce la siamo cavata noi come madre e figlia, continuiamo a farlo? Tu hai avuto sempre difficoltà a lasciarmi andare, io ad accettarti così diversa da me. E dovevi capirlo che non avresti avuto una figlia sonocometumivuoi. Da subito, dalla prima espulsione, che è stata sbrigativa, senza retorica. Avevo troppa fretta di vita. Un parto senza dolore. Il mio primo atto di distanza dai dogmi, imparati a memoria dentro la casa e le chiese. Sono arrivata, piccola, scura, raggrinzita, che al tuo seno non mi sono voluta attaccare e mi sono concessa la libertà di svenire a ogni pianto eccessivo, a ogni emozione e urto. La concessione di una pausa dal troppo che c’è. Mi fingevo morta per il gusto di resuscitare. Così sono cresciuta, in mezzo ai miei due fratelli cercando lo spazio da abitare. E poi l’adolescenza e la rabbia e la parola “ribelle”, che mi arrivava come un rimprovero. Che fatica, mamma vecchietta, per entrambe, lo so. Che poi così ribelle non sono mai stata, non è mai stato un assoluto allontanarmi dal tuo richiamo, un vero osare che mi dovevo, mamma vecchietta, per crescere con la fatica del tempo giusto. Ma per te, così abituata all’obbedienza e a una visione genitore-centrica, lo so, è stato difficile. Dentro lo scontro abbiamo imparato a comunicare il dissenso. Tu con le tazze di camomilla lasciate sul tavolo della cucina, la scatola con le bustine accanto, a rimproverarmi le notti insonni, io a parlare con occhi distanti. Mi hai sempre evidenziato il talento di cambiare sguardo. Un diavolo improvviso dicevi. E al tuo sei sei sei io rispondevo con il miei molti sono. Abbiamo duellato con le armi del sei e del sono, fino al tempo della reciproca indulgenza, del riconoscerci con tenerezza. Abbiamo resistito, senza arrenderci alla tentazione della distanza irrimediabile. Siamo state brave, in fondo. E non è stata la maturità, il tempo, il pensiero fatto solido. Noi la sappiamo la sintesi del nostro essere tesi e antitesi. E’ stata lei che è arrivata per disegnare l’ellisse che ci fa ruotare armoniche, con qualche concessione di impazienza. E’ stata lei, la quindicenne che ti cerca e ti abbraccia come una madre, piano per paura di sbriciolarti.
Ma chi lo diceva a me, mamma vecchietta, che sarebbe stato il mio dono di ventre, il mio primo imparare a lasciare andare, che ci avrebbe fatto cedere l’una all’altra. Questa visione di insieme che sento e so.
Possiamo finalmente arrenderci. Vi guardo e sorrido.
L’ha riportata, esattamente dopo un anno. Mi aveva chiesto di dargliela, per trovare una soluzione al pasticcio che avevo combinato. Che in un attacco di casalinghitudine avevo deciso di stirarla. Mai stirare una camicetta nuova, quando sei stanca e inadeguata in certe pratiche. Ho bruciato il primo pezzo di stoffa su cui si è poggiato il ferro troppo rovente. All’altezza del cuore, la mia camicetta color rubino si è rappresa, sfrigolando come un dolore improvviso. Così gliel’ho consegnata, dimenticandola, rassegnandomi alla perdita, certa che una soluzione a quel guaio non l’avrebbe trovato. E’ passato un anno e invece la camicetta è rispuntata con quel colore che sa di felicità. Era raggomitolata dentro un sacchetto di plastica. L’ho sfilata, infilando la mano nel suo contenitore provvisorio. Sembravo il mago pronto a far stupire. Ma la magia non sono stata io a crearla, sono state le mani di Olivia, che nel tempo delle attese hanno ricoperto la ferita della camicetta. Una ferita che non si poteva guarire, ma in qualche modo si poteva consolare. L’offesa, era stata coperta da un pezzo di stoffa azzurro, ritagliato a forma di cuore. Un lavoro imperfetto, a dire il vero, proprio come l’amore che non è in grado di cancellare quel che è, ma che sa essere forte presenza, consolazione delicata, inaspettato gioco di prestigio, una toppa all’altezza del cuore.
E’ così che speri anche nella vita, a volte. Che succeda un prodigio, un gesto piccolo e imperfetto, una magia che spunta da un sacchetto anonimo, un fare che avevi smesso di aspettare per dimenticanza o per rassegnazione, o altro, chissà. Una toppa imperfetta all’altezza del cuore, un gesto d’amore che non può annullare le ferite, ma che le sa coprire come una consolazione, come una madre che rimbocca le coperte, anche se fa caldo.
Domani la indosso questa camicetta felice e non la stiro più, ché poi a furia di mettere toppe mi diventa una coperta patchwork. La indosso con il suo cuore bizzarro, all’altezza del mio cuore, la indosso a rimboccare le coperte della tristezza di questi ultimi dolorosi giorni, mannaggia a loro.
p.s.: la nonna santa Gina, la nonna delle polpette al sugo patrimonio dell’umanità, la mamma dello sposo ormai presente e un tempo errante, si è dileguata da noi umani. Volevo dirvelo, perché lei è stata pezzo importante di questo blog e della vita mia e di molti suoi protagonisti. Il fatto che non ci sia più, mi infastidisce un bel po’. Questo post è per lei.
E poi?
E poi è successo che l’ho vista.
Cosa? Hai visto cosa?
Come cosa. Ho visto la poesia.
Ma che dici!
Sì, era sistemata dentro una gruccia che oscillava da un ferro che sporgeva da un balcone.
Non ho capito niente.
Ti spiego. Io stamattina stavo seduta dentro i 90 mq. Esattamente sulla poltrona dove mi posiziono per scrivere. Da lì posso guardare fuori attraverso la porta finestra. E’ un vizio che c’ho, quello di guardare fuori, da quando ero bambina. Guardo il cielo, le nuvole, il mare, le montagne sull’acqua. I palazzi no, perché sono brutti assai, con le antenne, le asimmetrie, le disarmonie, tipo il Castello Errante di Howl ma brutto.
Continuo a non capire. Come fa la poesia a essere dentro una gruccia.
Ti spiego. Insomma ero lì che dovevo scrivere, che lo sai che ho poco tempo, e mi sforzavo ma poi pensavo ad altro ché in questo periodo c’ho sempre altro tra testa e cuore e insomma è un periodo … vabbè lasciamo perdere. Ritorniamo alla gruccia. Ero lì seduta con lo schermo del pc tutto bianco senza una parola e all’improvviso ho alzato gli occhi e ho guardato attraverso la porta finestra.
E…
E l’ho visto bellissimo che oscillava.
Cosa, santo cielo hai visto!
Il k-way verde appeso, tipo la poesia.
Mi stai prendendo in giro?
Ti spiego. In un brutto palazzo con i balconi arrugginiti, le antenne e cavi che scendono dalle terrazze per arrivare non so dove, c’era questa gruccia. La gruccia era fissata a una bacchetta di ferro che sporgeva da una ringhiera di un balcone.
Continua.
Alla gruccia era appeso un K-way verde. Sai quei giubbotti impermeabili che sembrano di plastica. Che addosso sono tristissimi.
Sì, brutti ma pratici.
Ecco lì il K-way verde appeso era bellissimo come le cose inutili, come è la poesia. Bellissima e inutile.
Inutile?
Certo, mica è come il K-way che se lo indossi nei giorni di pioggia non ti fa bagnare, anche se sei brutto come un Teletubbies.
E come sarebbe, invece, questa poesia?
E’ come il K-way verde appeso. Ti spiego. In quella sua indifferente inutilità, mentre il vento lo faceva muovere, tipo burattinaio e le maniche facevano giravolte, inchini e piroette, insomma il K-way verde in tutto quel grigio triste dei palazzi, mi ha fatto vedere tanta bellezza e grazia. Danzava, capisci, il K-way danzava, e a guardarlo mi sentivo così … oh insomma, a guardarlo, hai capito…
E quindi?
E quindi niente, i palazzi brutti sono scomparsi e anche le antenne foruncolose, i cavi, il grigio e i pensieri uggiosi.
E poi?
E poi, siccome di poesia non si campa e si era fatto tardi, ho salutato il K-way verde, l’ho ringraziato per gli attimi di prodigio e sono andata tra le mie tristi carte.
Non è una storia a lieto fine.
Ma quale fine. E’ la vita. E’ tutto qui, è sempre tutto qui, bella mia.
(Questo dialogo è stato tratto dai discorsi inutili di #iomelacantoeiomelasuono)
Guadagno l’unica sedia presente nel corridoio che gira attorno alle aule. Mi siedo. Non mi capacito che nessuno lo abbia fatto prima. Poggio la borsa sulle gambe e assumo la posizione da anziana in sala d’aspetto. Solo che non sono dal medico, ma ai colloqui scolastici della quindicenne, insieme a un centinaio di genitori, tutti in piedi, tutti in fila dietro le porte, tutti rassegnati all’idea che se tutto va bene, prima che il gallo canti saremo di nuovo liberi. Vabbè si fa per dire liberi.
Provo a leggere un libro, nell’attesa, ma le madri parlano e i padri numericamente inferiori parlano pure. Su ogni porta delle aule con dentro i professori, c’è un foglio attaccato, chi arriva segna il proprio nome e si segue l’ordine. Nelle mie quattro porte sparse attorno al corridoio, io sono l’ultima. Meglio così non devo controllare quando è il mio turno. Ne rimarrà soltanto uno alla fine. Io. Gli altri genitori controllano e se sgarri la fila rischi la lapidazione, il pubblico ludibrio, la gogna, l’isolamento sociale, le madri. Perché diciamolo ai colloqui si è tutti un po’ nervosetti, come dal dentista. Si dovrebbe usare il metodo dei numeri che stacchi dalla macchinetta, come nel banco dei salumi al supermercato. Ogni tanto mi alzo dalla mia sedia per controllare i fogli delle porte che sono ai quattro angoli cardinali del corridoio. Sono sempre l’ultima. Forse riuscirò a tornare a casa, a rivedere i miei familiari, dormire nel mio letto e passare le feste con loro. Mentre ritorno alla mia sedia, osservo un padre. Lo ricordo con i capelli tutti rossi rossi in un tempo senza figli e attese a scuola. Ora i capelli sono bianchi e sembra stanco. Una madre stacca un filo di una cucitura, che sporge dalla felpa della figlia. Stack, fa. È un gesto sicuro quello della madre e intimo, che mica tutti possono staccarti i fili che sporgono dai vestiti così, senza preavviso. E’ un gesto da madre, penso, invadente e amorevole. Un ossimoro, come molti gesti nostri. E’ pieno qui di madri e figlie adolescenti che si somigliano e camminano insieme per i corridoi. Ci sono persino mamme giovani in mezzo a noi primipare attempate e mi chiedo a che età avranno avuto questi figli ora liceali. Non avrò risposta, tanto. Devo tornare alla mia sedia. Ci sono madri stanche, padri con la faccia da eroi rassegnati, qualcuno chiacchiera della scuola, dei figli, dei compiti, la maggior parte controlla i fogli e la fila. Qualcuno sembra pronto a scatenare la guerra dei mondi se si sgarra. La mia sedia è nascosta da file di genitori. Mi avvicino però sempre più alla meta. All’unica sedia presente in quel quadrato di corridoio scolastico. Chiedo permesso, permesso. La intravedo. Supero i muri umani. Sono vicina. Bella la mia sedia immobile e solitaria. La sedia c’è, come dio in autostrada.
Ma no! Non è possibile. Lì sulla sedia, c’è seduto un padre. La minoranza, con le scarpe comode, mi ha preso la sedia. Ma perché, padri, perchè dovete venire anche voi, ai colloqui scolastici. Perchè? Le file lasciatele alle madri, ché tanto loro non si siedono mai.
Un giorno di un po’ di tempo fa. Conversazione chat tra amiche, su una difficile decisione da prendere.
E1: Vieni con noi al concerto?
E2: Sì se non muoio …
E1: Bene, stiamo organizzando il pulmino. Guida T
E 2: Ma vero?
T: Sì. Le probabilità di morte sono elevate, confessatevi prima
E1 : Deve guidare la sua macchina nuova, è una prova per lei e noi saremo al suo fianco per sostenerla, se non moriamo
T: Non arrivo con i piedi ai pedali, ma guido tipo étoile, sulle punte. Prendo la Nazionale
E2: Arriveremo a concerto finito
E1: No no in autostrada
T: Ma no, partiamo presto
E2: Se vabbè
T: No da sotto
E1: In autostrada
E2: Così al concerto pure il gard rail ci portiamo
T: Sarà bello fare come Telma e Luise, insieme ci teniamo per mano, pure io vi tengo per mano mentre guido
E2: Io non voglio morire
R: Appuntamento ore 17,00, merenda a sacco
E2: Io vengo con Lirosi (n.d.a.: lineapulman) … io tu e Lirosi
E1: Porto il thermos col caffè
R: Poi ad Archi (n.d.a.: quartiere della città) facciamo la pipì
E2: Io porto le medicine e le salviettine
T: Che cretine
R: A Catona (n.d.r.: paese limitrofo) ci ripassiamo il rossetto, per le 22,00 saremo a Villa
T: E invece supererò il mio limite di velocità e quando arrivo a 50 km orari, morirete di paura
E1: Ma non è meglio che ci portiamo il cambio?
E2: Troviamo chiuso
R: Poi ci accampiamo per il ritorno a Pentimele ( n.d.a.: quartiere della città) e torniamo a casa per le sette del mattino
E2: Sì che almeno andiamo alle bancarelle. Il tempo di tornare ed è di nuovo “Festa di madonna” (n.d.a.: Celebrazione religiosa cittadina che si tiene nel mese di settembre)
T: Non capite un (censured), io sono un’artista della lentezza
E1: Porto un drink così ci rilassiamo prima durante il viaggio
R: Io porto i tramezzini, E2 la musica e lei guida … che emozioni
T: Io pure voglio bere prima
E1: No tu guidi
E2: Sì così ci fai sbattere mura mura (trad: contro i muri)
R: Ti preparo il cartello “NON PARLARE AL CONDUCENTE”
E1: Ma le lattine dietro?
E2: Chi ndi maritammu (trad: con chi ci siamo sposate)? Sarebbe un tocco di classe arrivare così.
T: Meglio le trombette e le bombette, per festeggiare tipo vittoria
R: “Just survivor”
T: “We are the Champion”…
Le quattro donne, sono vive. T. quella sera non ha guidato la sua automobile. T. sostiene di avere una guida creativa, le sue amiche sostengono altro. E non solo loro.
Ogni riferimento a nomi, cose, città e quant’altro, è purtroppo vero.
Tua madre ti fa figlia bambina, con il regalo amorevole di un dolce pasquale a forma di colombella. Per un po’ il mondo è grande e verticale, gli oggetti irraggiungibili, i polpacci oscillano tra le gambe delle sedie e i tavoli, sono rifugio possibile di tristezze, inspiegabili per una piccola somma di anni.
Torni grande poi e con il peso amorevole delle madri, mentre impasti polpette, che non saranno mai come quelle della nonna santa Gina e pazienza, che per ora ci si deve tutti accontentare e tra le dita maneggi il mistero dell’accudimento, che si tramanda senza dirlo.
Di nuovo sei bambina, in questo lunedì monco e un po’ malinconico, e ti fai consolare dalle nespole sbucciate da mani antiche di uno zio, che in questi attimi fermi diventa anche il tuo. E assapori il raccolto mattiniero di un albero piegato dall’allegria della frutta, e ti si appiccica sulle mani la dolcezza arancione di un gesto amorevole.
E poi su una collina ventosa di spighe ti regalano storie, di padri, di madri, di tempi lontani, di amori attesi e desideri affidati alla carta e alle parole. E in questo ascoltare impastato di vento, non sai più se sei madre o figlia. Che importa, in fondo. E’ bello ed è fermo come la malinconia, che tanto poi passa, con qualche piccolo gesto amorevole che arriva, come un prodigio.
“Nel tuo libro c’è un capitolo che si intitola “Donne che amano le donne e quindi se stesse”. Scriverai qualcosa sulle donne che odiano le donne?”
“No penso proprio di no. Magari scriverò sugli uomini, se riesco a capirci qualcosa”
Così ho risposto alla domanda fatta durante la presentazione del mio libro.
Poi ho spiegato perché non potrò mai scrivere nulla contro le donne. Non perché noi donne siamo meritevoli di eterna e imperitura beatificazione, di lodi incontenibili alla perfezione e alla bontà, per l’assenza di zone d’ombra dentro cui, al contrario, ci si può perdere come in un bosco maledetto. No. So bene che sappiamo essere spietate e nemiche le une verso le altre. Ma non ne scriverò, perché come ho spiegato all’attento uomo che mi ha formulato questa domanda, io delle donne ho conosciuto l’accoglienza e la consolazione. Dalle loro mani e carezze, dai loro abbracci, dalle loro confidenze e parole, dalla leggerezza che mi ha fatto ridere anche quando avevo voglia di piangere. Perché dalle donne sono stata generata, dal loro amore e dal loro esserci. Mi hanno partorita mia madre, mia figlia, mia sorella, le mie amiche, le mie nonne, le cugine, le donne del passato con il mio stesso sentire, di cui porto i linguaggi antichi e nascosti dentro di me. Non potrei scrivere un libro contro le donne, anche se so che non siamo dolcemente complicate, perché ogni complicanza è fastidiosa e respingente, ma so che in ogni parto addolorato della vita, le donne stanno. Anche gli uomini, per carità. Tanti insegnamenti anche da loro, tanti padri. Li osservo per il molto che c’è da imparare in questo essere così abili con le operazioni spicciole della vita, mentre noi ci perdiamo dentro labirinti di specchi. Ma le mani conosciute che hanno saputo reggere il peso delle assenze sono femmine. Le donne sanno tracciare attorno, quando arriva il momento, cerchi di protezione. E se so quanto spietate sappiamo essere, ché nella distruzione usiamo la stessa furia con cui generiamo, se riconosco che il cuore è il nostro ventre dentro il quale si nascondono universi e abissi, anche se so bene tutto questo, delle donne non posso che dirne la forza che si rinnova a ogni inciampo e l’amore che chiede parole esatte che non confondono e la tenerezza dei demoni, innocenti nel loro desiderio di essere riconosciuti e la bellezza prepotente degli strappi di silenzio e dimenticanza.
Non scriverò mai delle donne che odiano le donne.
Sarà meglio allora parlare degli uomini, quando mi arrenderò del tutto alla loro semplicità indispensabile.
Intanto osservo il primo uomo generato, i suoi passi, il suo modificarsi, la sua ricerca di tenerezza e abbracci. Il primo uomo di soli undici anni al quale insegnare ad amare le donne, per quella parte di sé femminile che anche lui si porta dentro, da riconoscere e rispettare.
Io intanto lascio che le donne mi prendano per mano e sarò anche io a farlo, per non dimenticare il nostro linguaggio segreto, di sguardi, di parole, risate, silenzi, accorrere, rimproverare, aspettare. Un linguaggio che riveliamo quando sappiamo di non essere ascoltate, dentro stanze tutte per noi.
– Sai Tizianeda, sto invecchiando. Faccio brutte figure con le persone che incontro, perché mi salutano affettuosamente e non le riconosco.
– Ma no, mamma vecchietta. Sei sempre stata così. E anche io ho lo stesso problema. E’ colpa dei geni. Abbiamo quelli rimbambiti.
– Dici?
– Certo. E poi a ottantacinque anni, scusa, che ti importa. Ma lo sai che sei in un’età in cui godi della massima libertà?
– In che senso, Tizianeda?
– Nel senso che puoi fare e dire tutto quello che vuoi, anche le parolacce e mandare a quel paese le genti. Al massimo pensano che sei vecchietta, che hai l’arteriosclerosi e non ti dicono niente.
– Sei proprio pessima, tu…
– Nonna, sei ancora qui?
– Sì nipote.
– Mamma hai notato come la nonna si è ripresa, fino a un mese fa era a letto piena di dolori, poverina.
– E’ vero quindicenne. Mamma ma che sostanze ti ha prescritto il medico, così le prendo anche io…
– Prendo …. e poi … e poi … e poi … e comunque è vero mi sento meglio. Per esempio salgo sulla scala fino in alto e mentre salgo intanto recito l’avemaria.
– Mamma vecchietta, sei matta, è pericoloso! Poi voglio vedere quante avemarie recitiamo noi, se cadi.
– Va bene ho capito me ne vado! E ora tu, nipote, perché ridi?
– Niente nonna, è che sono già quattro volte che dici che vai via e invece sei ancora qui…
– Me ne vado
…
– Quindicenne?
– Sì mamma?
– Ma la nonna è andata via? Non ho sentito la porta di ingresso aprirsi.
– Neanche io mamma. Vado a vedere…
– Nonna!
– Sì?
– Che fai?
– Guardo tra i libri di tua madre se ce ne è qualcuno che posso prendere per leggerlo.
– Mamma che genere vuoi? Introspezione, cerebrale, erotico,sesso, amore, avventura, minimalista, surrealista, intimista, fantasy, horror …
– Dammi un bel libro d’amore, ché gli ultimi che ho letto erano cupi.
– L’amore al tempo del colera?
– Quello è mio e dovresti restituirmelo.
– Non credo che lo farò, mamma vecchietta. Va bene, prendi questo. E’ leggero e frivolo, così ti diverti e non sali sulla scala.
– Va bene. Ora vado via.
– Ciao nonna, fra un poco vengo da te così studiamo il greco.
– Ciao mamma vecchietta. Poi fammi sapere se ti piace e non sostare sul pianerottolo.
– …
Ehi, ehi tu, Sabinella bella bella, stai festeggiando nel posto in cui ora sei? Ballerai? Organizzerai una festa, sorriderai, parlerai tantissimo, manderai scherzando a quel paese tutti? Ti vedo sai. Tu, ci vedi, ci sai e senti? Ci vieni a trovare nei sogni? Nei miei sì, sei arrivata, tempo fa, per benedirmi, senza cazziatoni. Che erano belli i tuoi rimproveri, così amorevoli e indulgenti. Ma tu lo sai che questo, per me, non è periodo di rimproveri, ma di sorridenti benedizioni. Tu sapevi sempre, accidenti a te e ora ancora di più. Sai che faccio oggi, che è il tuo compleanno? Entro in quel luogo, uno di quelli che ormai guardo solo dalla strada. Ho letto che ti ricorderanno e leggeranno tue poesie. Pensa, ti ho anche sognata dentro un libro di poesie. Componimenti e fotografie con dentro te, sorridente. Costava quattro euro, il libro, nel sogno. Quattro, il mio numero preferito e non chiedermi perché, non lo so proprio. Lo compravo, ma lo dimenticavo, come al mio solito. Distratta anche nei sogni. Oggi, in questo posto qui, che non frequento ormai più, vengo ad ascoltarle queste poesie. Le tue che non ho mai letto e che non sapevo componessi. Solo tu potevi farmi rientrare in una chiesa. Tu riuscivi a farmi fare tante cose. Perché eri speciale e indomita, come le anime bizzarre e poco allineate. Spirito libero e inclassificabile, dalle profondità sconosciute.
Mia inclassificabile amica, sai cosa mi manca di te? Cazzo, tutto mi manca. Hai visto l’ho detta. Non ho resistito. La parolaccia intendo. Che belle le parolacce, vero? Quanto ci piaceva dirle, quando chiacchieravamo.
Quanto avrei dovuto esserti più presente in quegli ultimi tuoi tempi. Commettiamo sempre l’errore di pensare di essere infiniti. Mi hai dato l’ultima lezione, andandotene da questo mondo di corpi e materia. Ma tanto lo so, che non smetterai di insegnarmi altro. Troveremo un modo per comunicare ancora. Tu lo hai già trovato. E chi ti ferma a te, amata amica. Chi ti ferma?
Buon compleanno Sabinella bella bella. Ci si incontra oggi, anima luminosa, tra le tue parole.
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