Napoli suona

Napoli mi aspettava. Con le sue voci, per regalarmi lontananza e incanto, troppe volte sottratti in questo tempo di affanni. Pochi giorni, tre, dalla densità degli attimi esatti.
“Napoli suona”, mi ha detto Eleonora, che ha il cuore bambino di chi sa, con ardore semplice, condividere la felicità dei minuti, e ha l’insistenza delicata di chi sente che quello è il momento giusto per dirti di partire. E Napoli ha suonato. Lo fa per chi sa ascoltare. Ti ammalia, con la musica delle voci, gli odori, i vicoli, i panni stesi, le luci di presepe, lo zolfo, il tufo poroso come le ossa dei morti. Napoli è tanta e fantasiosa. Ha lo sguardo del disincanto di chi la strada l’ha raschiata con i piedi e ha la fame della terra nascosta che ribolle. Ho mangiato, visto, camminato con Eleonora e Luca, che a Napoli è nato e vissuto e ha una famiglia che è una conchiglia che ti fa accomodare dentro, con gli occhi commoventi di mamma Annamaria. In tre giorni, ho ascoltato storie di macchinette del caffè che scoppiano nelle case, di acqua e pozzi di un tempo figlio della povertà, di donne e teschi da ripulire e accomodare, per dare dignità ai morti senza nome di una città stratificata nel tufo. E poi il teatro tra strade e palazzi, nei bassi e nei vicoli. Che ogni angolo è uno sgranare di occhi, e un dimenticarsi del mare che ti porta solo nostalgia e la voglia di andartene. E invece a Napoli vorresti restare.
Napoli è stata anche lontananza. E’ stata dormire sola in un B&B. Ma questa è un’altra storia, che mi ha regalato altra gioia, altra pienezza. La gioia dell’abitarsi, la pienezza del bastarsi. Come ancora, su questo treno, che mi sta riportando a casa.

Tizianeda

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