I giorni dei morti

La morte è un incontro. Alquanto inevitabile, direi. Ché se nascere è una concatenazione casuale di elementi, morire è un fatto certo. La prima volta che l’ho incontrata avevo nove anni. Nel mio caso, quel giorno, trovai mio cugino e non i miei genitori ad attendermi all’uscita di scuola, la mia casa piena di presenze, cibo dentro teglie che non avevo mai visto prima, una lacrima, bloccata dalla peluria, sul volto di mia madre. La nonna Ines non c’era più. La sua assenza aveva modificato traiettorie. Abbiamo molti modi per pronunciare la parole “morte” che tanto ci spaventa, come se fosse una scampagnata, un volo o una funzione meccanica di cui non ci importa nulla. Anche io l’ho fatto ora. Non esserci più, dipartire, trapassare, passare a miglior vita, andare in cielo, scomparire, defungere, spegnersi. Da sempre l’uomo celebra la morte, come con le divinità temute. Ma se lei è il più sensazionale e scontato degli eventi umani, l’amore per chi muore è trama poetica dell’esistenza, in altre parole, mancanza e ricordo. Inventiamo altari per i morti, accendiamo lumi e lasciamo il pane sui ripiani, come le briciole sui davanzali per gli uccelli di passaggio, acquistiamo fiori, mangiamo dolci troppo zuccherati, lasciamo che siano le sedie mancanti attorno alla tavola a farsi presenza immateriale. I morti li sogniamo a volte. Ci raccontiamo che vengono a trovarci per nostalgia, eppure siamo noi che li cerchiamo, specie quando la vita diventa un gioco troppo faticoso per trovare risposte razionali. In fondo i morti, servono ancora ai vivi, che nel guardare nelle proprie profondità, trovano costellazioni per orientarsi. E in fine loro ci osservano, con occhi lontani, dalle fotografie, di cui ancora le case delle madri sono piene, per una devozione antica. E ci piace pensare, per quel bisogno tutto umano, che nel loro giorno, vengano a guardarci mentre dormiamo, per bisbigliare parole dentro le orecchie, per ricordarci di vivere, di amare, di continuare a contemplare tutto questo mistero.

Tizianeda

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