Il bambino del terzo piano

Il bambino del terzo piano, tutti i giorni versa acqua in un bicchiere e la lancia dal balcone giù nel cortile. Riempie, si affaccia, lancia, poi ricomincia, anche per ore. Lo capiamo dal modo ritmico in cui l’acqua rovina, con il rumore che si sparpaglia sul pavimento. Lui osserva il precipizio, soddisfatto e serio e sembra non saziarsene mai. Il proprietario del cortile una sola volta si è arrabbiato, gli ha gridato, da sotto, di smettere, ma poi ha capito e ora lo lascia fare. Il bambino del piano di sotto, non si chiama Sisifo, però a me fa pensare a lui. Anche se Sisifo spinge un masso da portare in cima alla montagna, che puntualmente precipita giù, nella litania incessante e solitaria dell’inutilità della fatica. Il destino di un condannato alla ripetizione dello sforzo verso la vetta, che ci costringe a interrogarci sull’assurdità dell’esistenza. Il bambino del terzo piano, non spinge massi. Ha un bicchiere, l’acqua e un cortile che non si riempirà mai, che non diventerà una piscina, un lago, il mare, il cielo riflesso. Ho pensato come quella rovina incessante mi rimandasse alla voce di un universo indifferente al richiamo degli umani, fatti d’acqua e di macigni nel petto. Poi è successo che un giorno, il bambino del terzo piano, tra i lanci, si è concesso una pausa da quel rito, voltandosi verso di me che stavo sul balcone accanto e in una sospensione degli accadimenti, mi ha sorriso e io a lui. Pochi secondi di armistizio per entrambi in cui due mondi lontanissimi, in quell’incrocio di occhi, hanno condiviso solitudini e senza saperlo i propri nascosti dolori. E ho pensato che se c’è un cielo sopra di noi indifferente agli sforzi degli umani, in questa esistenza orizzontale, tuttavia, bastano due occhi che si incrociano per un frammento di vita, dentro un alfabeto di silenzio, che ci fa rivolgere proprio a quel cielo, che ha più bisogno di noi umani, così fragili, segnati dai nostri fallimenti e da un incessante bisogno d’amore, di quanto noi di lui.

Tizianeda

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