Ott
Ott
“Magari ci incrociamo” le ho scritto, quando il pullman si dirigeva verso Cosenza, mentre in macchina tornavo a casa, dopo essere stata tre giorni altrove. Ho iniziato a guardare la corsia che procedeva in senso opposto al nostro, con la concentrazione di quando, da bambini, fissavamo un oggetto, sperando che il pensiero lo facesse levitare fino a noi. Cosa che, credo, non è mai accaduta. Poi è successo un piccolo miracolo, come ne avvengono, a volte, nella vita, di cui non sempre ci avvediamo, presi come siamo a guardare altrove. La macchina e l’autobus si sono incrociati nel punto più vicino possibile, lungo una deviazione che costringeva al senso doppio di marcia. Ed è stato come la scena di Matrix in cui il mondo rallenta, dentro un paradosso spazio temporale numinoso e ti senti un rimestio in cui pensi che deve essere quella la felicità. È un attimo che riconosci e afferri, il granello che si perde nella vastità e ugualmente la contiene. Così l’autobus su cui viaggiava Agnese, la figlia ventenne, è passato accanto all’auto, e anche se non siamo riuscite a vederci osservare la strada per indovinarci, sapevo che era lì e mi bastava. Un istante, spezzato dalle corse in direzioni opposta, in cui ci siamo incastrate, come quando, neonata lei, minuscola io, dormivamo raggomitolate l’una all’altra. E so che in questo combaciare c’è già lo strappo e la separazione che ci commuove e confonde. Ché la vita è una roba assurda e senza senso, in cui a volte guardi la strada come un’adolescente innamorata, le stagioni continuano ad alternarsi e tutto gira e gira nel gioco del cerchio, come le cantavo mentre, nascendo, si separava per la prima volta dal mio corpo, rimanendomi dentro.
