La città è chiara di luci nelle strade principali e nelle piazze. Da dietro le finestre si vedono le intermittenze luminose degli addobbi. Non mi ero accorta che il Natale stesse arrivando, mi sono distratta. A casa non montiamo più l’albero, da quando gatta Tàlia mangiandosi pezzi sintetici ci ha fatto prendere uno schianto al cuore. Ora avvolgiamo fili di luci attorno alle cose. Li piazziamo in alto, per evitare gatte folgorate o con in pancia addobbi luminosi. Non mi dispiace che ci siano loro al posto dell’albero sintetico da smontare con noia dopo l’epifania. Non mi dispiace che i figli siano cresciuti e che siano loro la mia natività rinnovata nella fatica dei giorni e ringrazio, anche se non so bene chi o cosa se non una sorte clemente, che siano dentro giorni sicuri e non esposti all’orrore, che vivano dentro una città chiara di luci a richiamare stupore e dietro le finestre osservino intermittenze luminose e innocue. Non so cosa sia accaduto questo Natale, quale dimenticanza del racconto di un bambino povero e in fuga dall’odio. Un profugo, protetto dal coraggio e dalla disperazione di due fuggitivi. O forse non c’è mai stata nessuna dimenticanza, perché questa storia è qui e ora ed è da sempre. La città è chiara di luci nelle strade principali e nelle piazze. Da dietro le finestre si vedono le intermittenze luminose dei missili. I bambini non nascono, i bambini sono uccisi dalle bombe. C’è da aver voglia di pregare davanti alla distruzione della speranza. Ma a quale dio rivolgersi? Penso a questo, mentre preparo la cena per la vigilia. Verranno i miei fratelli con le famiglie. Sono felice quando stiamo insieme, mi hanno protetto dalle mie bombe interiori quando ero ragazza. Anche i miei figli sono così tra di loro. Si guardano a vicenda. Posso riposarmi ora. Accendo le luci messe in alto per proteggere le gatte. Dietro le finestre delle altre case ci sono intermittenze luminose. Non fanno rumore, sono una moltitudine, sembrano una preghiera.
Ciao tu, ciao ragazzo che sono diciotto, e scorrere di sangue e ossa e muscoli dentro lo scricchiolio del crescere. Tu corpo appuntito a cui non mi abituo mai abbastanza e che guardo mentre, in silenzio, per non disturbare, il respiro fa capriole. Ciao che ogni tuo nuovo danzare è un passo più lontano dalla soglia. Non ti fermare. Ciao tu, ciao ragazzo, proteggi il bambino arancione dalla musica stonata, dai passi duri del banale. Porta con te il nucleo caldo di desiderio e passioni e gioco e non ti spaventare. Sorridi che il mondo si compone. Ciao che a tratti ti racconti, come una concessione del giorno e io sto lì ad ascoltare e mi dico ma quando è successo che sei tu, quando il linguaggio, quando il pensiero, cosa hai visto e sentito per essere questa moltiplicazione. Ciao non mancare la tua vita, cerca suoni e immagini e ritmo del cuore e frullare di note. Ciao che impari a poco a poco a essere più morbido, più indulgente con te stesso. Arriverà il momento che ti lascerai andare. Ciao che sono diciotto in un balzo di tempo che non so davvero quando.
Continua ad amare le ore e i giorni e le domande e il nucleo buono delle cose. Non smettere di cercare la tua andatura, è solo l’inizio. C’è ancora il bambino arancione da qualche parte, guarda e sorride, ha i capelli lunghi, continua a volare, perché gli alberi crescono da qualche parte, a contrastare di bellezza e luce le dissonanze e la banalità del male.
Mia madre ha una comitiva. Si incontrano il pomeriggio in piazza. Così ora non va soltanto in parrocchia. Alterna. Un po’ in parrocchia e un po’ in piazza. Nella comitiva hanno tutti e tutte superato gli ottant’anni. Molti per camminare usano il bastone, qualcuno a volte viene accompagnato da una badante o da un figlio o una figlia. Il più grande ha novantasette anni ed è un medico a cui mia madre chiede consulenze sui dolori del corpo e lui risponde sempre con pazienza. Nella comitiva ci sono anche due fidanzati. Lui sembra molto più vecchio, tutto curvo com’è, lei più forte, come chi ha sempre sorretto e curato. Si tengono per mano, le dita intrecciate, a volte si scambiano baci sulle guance e quando si sorridono guardandosi, viene a entrambi una luce dentro gli occhi, come quando si è giovani e innamorati e non si pensa al tempo che passerà veloce prendendosi le cose e le persone. Mia madre in piazza va con l’amica che ha gli occhi azzurri, un corpo snello e nervoso, una voce forte che senti da lontano. La sua amica anche se ha avuto tanti dolori, a vederla ti fa credere che la vita porti in grembo un certo mistero luminoso. Mia madre, invece, è piccola e accartocciata, ha novantuno anni, il passo svelto e da quando frequenta la piazza sembra più contenta. Insieme parlano dei figli, dei coniugi morti, forse di Dio, chissà.
Penso spesso alla comitiva di mia madre e mi appaiono le immagini di questi uomini e donne che non hanno smarrito il desiderio dell’incontro, di raccontarsi, di tenersi per mano, di darsi baci con stupore e gratitudine. Penso al nucleo di bellezza e ostinazione, ancora di più in queste moltitudini di ore in cui la morte si annuncia a più latitudini, con squilli striduli che spaccano il cuore. È strano che siano dei vecchi a parlarmi di futuro, creando cerchi di luce tremula dentro la notte. È strano. O forse non lo è.
“Tiziana cosa ti sei fatta al ginocchio?” “Sono caduta, mamma” “Ma perché, tu ancora cadi?” Sì mamma, ancora cado, mi sbuccio le ginocchia, sento male dove c’è la ferita, non piango, mi tiro su a fatica, c’è una mano che si tende, so chiedere aiuto, faccio la spavalda tuttavia, mi disinfetto sola, con circospezione, anche perché la memoria dell’alcol strofinato dalle madri, non si cancella più. Non lo so se il dolore si sopporta meglio alla mia età, se cambia solo la postura interiore, se si sta dritti sul male sentito, per educazione dell’anima o boh. Non c’è più nessuno che soffia sopra la carne aperta e sanguinante, l’ho fatto anche io con i miei figli, come un gesto tramandato. Era caldo e riposante quel soffio, era principio di cura. I cerotti li uso ancora, ma poi li tolgo, le ferite se si coprono troppo non si rimarginano. Resta il segno, pigmenti più chiari, atolli disabitati in mezzo alla mia pelle d’acqua. Zoppico dopo la caduta, non subito, ci vuole la notte in mezzo. Continuerà a far male a distanza di molti anni, lo so, quando cambierà il tempo. La caviglia rivela le stagioni, è la statuina tamarra e glitterata, venduta sui camioncini agli angoli di strada, che cambia colore se arriva la tempesta. Ho la copia de La Pietà di Michelangelo o Il David di Donatello in versione stroboscopica, tra la tibia e il perone. Certo che cado ancora mamma, non c’è un’età per non cadere, per non ricordare come l’equilibrio ha i connotati dell’imperfezione. Stando a terra il mondo si rivela, è l’altezza dei bambini, quando ancora non sai quanto il nostro fare adulto sia delirante e il male è solo un ginocchio sbucciato. In fondo si sta bene lì seduti sull’asfalto che ti ha scartavetrato la pelle. Vien voglia di riposarsi, anche di arrendersi. È uno stare sulla soglia, non come il tempo degli indecisi, ma come il tempo di chi è stanco. Poi mi sono alzata però, mamma. Altrimenti che fai. Cammini con il ginocchio che sanguina, dando il braccio a chi ti è accanto, fai due battute idiote, rallenti a rivendicare un momento solo tuo. Ti resta addosso ancora per un po’ quel senso vago di improvviso, di imprevisto che accade inaspettato, mentre guardi altrove o sorridi o chiacchieri. E allora sì, mamma ancora cado. Lo vedi da questo grumo rappreso di sangue, mentre sotto, le cellule, in silenzio, si riorganizzano ricomponendo la memoria della carne. Perché ancora cado, mamma, ancora mi rialzo.
{La foto di Fabio Orlando è uno scatto di qualche anno fa. Mi piace perché sto in bilico, ma qui non cado. E poi faccio la cretina, come al solito}
Quest’anno in montagna Agnese e Domenico, i figli, non son venuti. Il ragazzo ha dormito una notte con i suoi amici, che hanno piantato le tende in giardino. Lei mai, per quell’amore misterico e protettivo per le gatte e perché non le andava. Va bene abbiamo detto, ma abbiate cura della casa, non vorremmo trovare Cernobyl al rientro. In montagna andiamo in agosto, ormai da più di dieci anni. Stiamo in una casa con un ampio giardino e gli alberi alti che ti fanno respirare. Erano piccoli il primo anno, noi più giovani. Non mi dispiace che non siano venuti, mi interessa che sappiano abitarsi dove decidano di stare e poi ho cucinato molto meno. Quando torno lo so cosa faccio, li annuso come sempre e li fisso di nascosto sentendo la nostalgia di quando andranno loro via da casa e non noi per i giorni di vacanza. Finché li so tra le stanze di sempre, quelle in cui sono arrivati minuscoli e con gli alfabeti da imparare, non sento lo strappo necessario. Che tanto la vita è tutto un separarsi, ma non ti abitui mai del tutto. Anche dalla montagna mi separo quando vado via, per la necessità dei giorni a venire. Peccato che non si possa stare a lungo in un luogo che ti fa venire gli occhi grandi, amare il silenzio e abitare con disinvoltura la solitudine. Peccato che ci sia sempre un richiamo di altrove. Oppure è proprio questa la grandezza, questa possibile oscillazione tra i mondi, questo pulsare di cieli stellati sotto pelle, mentre navighiamo in cerca di senso. Quando andrò via da questo posto di lontananza saluterò gli alberi, li annuserò come faccio con i miei figli, come con tutto quello che cresce nello scricchiolio di ossa, ne sentirò la nostalgia. Poi toccherà ai giorni, assolvendo al compito assegnato, riprendersi la loro rivincita nella spartizione del tempo. Spero mi restino gli occhi grandi.
{Nella foto autoscatto con acconciatura montanara sopra di me e menefottismo estetico dentro di me}
Quando ero bambina nel tempo in cui ero attraversata dal fervore religioso, la sera recitavo preghiere che mi sembravano tanto più efficaci quanto più interminabili. Iniziavo al tramonto e finivo nell’ora dello sfinimento. Per prima cosa chiedevo a Gesù e alla Madonna di non far morire i miei genitori, poi di non far morire me nel sonno e anche di non far morire i miei fratelli. Per i nonni non chiedevo, perché appariva una pretesa che avrebbe messo in imbarazzo la volta celeste, avendo già affrontato certe dipartite, attraverso i miei compagni di scuola, come evento inevitabile. Crescendo, posati i rosari e accantonati i padrenostro e le avemaria, ho utilizzato i libri. La letteratura, nelle notti di insonnia adolescenziale, mi consolava dall’idea di me stessa. Se leggevo non pensavo, o meglio entravo in altri labirinti, uscivo dalla mancanza d’aria e così mi addormentavo pensando ad amori infelici, a città invisibili, a ragazzini ribelli sugli alberi, alla coscienza di uomini tabagisti e ai mille intrecci e incontri che io non avrei mai vissuto, ma che mi apparivano, tra le pagine, come i sogni che al risveglio ti lasciano i dettagli. Solo scrivendo ho ricominciato a respirare, a fermare il tempo, a non pensare alla morte. Anche se quando scrivi con lei ci conversi. Persino nelle storie allegre c’è questo dialogo. Anche mia madre con la morte ci parla, ma lei continua a farlo con i rosari e le messe. Non ha paura, anzi si chiede perché il suo corpo che le rimanda dolori resista ancora. Poiché non ha risposta, nel frattempo va al mare ché il sole fa bene alle ossa e per affrontare l’inverno nella sua casa ghiaccio, bisogna essere preparate. Non le ho mai chiesto se anche lei da bambina facesse le stesse mie richieste a Gesù e alla Madonna e non lo farò, perché evidenzierebbe con disappunto la mia mancanza di Dio. Anche se poi si finisce sempre per rivolgersi in qualche modo, verso qualcosa o qualcuno, solo che lo sguardo guarda l’orizzonte. Basta pronunciare un nome, pensare a questo nostro stare al mondo, questo cercarci incessante, anche quando andiamo via, anche quando la vita ci sembra solo un tiro di dadi. Succede quando le parole diventano rosario da sgranare con attenzione, quando stiamo in silenzio a sentire le voci della terra, la compassione per la carne degli sconosciuti, o semplicemente quando siamo attraversati dalla grazia di altre vite che in qualche modo illuminano le nostre e noi, come un riflesso inconsapevole, illuminiamo le loro in uno scambio reciproco di preghiere.
(nella foto scattata forse da mia sorella, guardavo il futuro, o semplicemente fingevo noncuranza. Avevo in faccia i miei figli, ma nessuno poteva immaginarlo)
In vacanza partivamo con la 127 verde, l’auto di ferro con i sedili ricoperti di stoffa sintetica che arroventava le cosce. A luglio dalla città seguivamo la costa Jonica, dove il clima era africano, lungo una strada immutabile che sembra allungarsi per la torsione della luce. Sul tetto della 127 verde mio padre agganciava il porta-bagagli. Sul porta-bagagli stavano le valige, trattenute da cinghie elastiche, che contenevano la casa. Sull’auto mio fratello si sedeva nel mezzo, tra noi due sorelle, per la legge del più piccolo che subisce. Appena iniziato il viaggio verso la casa al mare in affitto, giocavamo e sudavamo, perché dietro non c’erano i finestrini se non una fessurina inutile sempre chiusa, per imposizione di mia madre, con la fobia delle correnti d’aria che fanno ammalare, anche se poi rischiavamo l’asfissia. Ad agosto, dopo un mese di mare che mi innestava malinconie, si andava a Fiuggi per curare le pietre di nostro padre. Partivamo alle 5 per evitare il caldo, con sveglia alle 4 che ti precipitava nella vaghezza del disagio esistenziale. Sulla vettura, alle 7, il caldo si accomodava tra di noi e i finestrini chiusi.
A Fiuggi alloggiavamo in una pensione dove si mangiava bene e i proprietari avevano tre figlie femmine.
A volte i proprietari, marito e moglie, litigavano, fino a che un giorno il marito ha fatto le valigie ed è andato via per sempre. La vita della pensione è continuata con gli stessi ritmi di prima, anche se la cucina Siciliana di lui mancava a tutti, ma nessuno osava dirlo. Negli anni a venire, a Fiuggi io e i miei fratelli non ci siamo andati più, e i miei partivano soli. Fiuggi nei ricordi è un luogo verde e lontano, come certe storie che appaiono nei sogni e i personaggi si affacciano all’improvviso da uno spazio opaco. Il mare d’estate continua a rendermi inquieta, come quando ero bambina e dopo dieci giorni di troppa spiaggia e sole, sentivo che mi doleva l’anima. Oggi nel mese di agosto vado in montagna per distanziarmi dalle dissonanze dell’anno trascorso, provare a conciliarmi con la parte di me più umana e insopportabile e poi lì, così in alto, non sudo.
Non c’è più da un pezzo la 127 verde e non c’è più quel mondo a cui penso a tratti, ma senza nostalgia. Oggi l’auto con cui viaggiamo è bianca, ha i finestrini e se fa caldo c’è il sistema di areazione. I figli quest’anno non verranno in montagna, e li capisco. Intanto li sogno ogni notte, sono piccoli, nel tempo in cui non mi dovevo ancora confrontare con la vastità del mondo che li aspetta. Ma i miei sogni sono ugualmente abitati da paura, precipizi e animali. Anche per questo vado in montagna, perché da lì il mondo mi sembra raccolto e poi c’è silenzio. È una tregua per prepararmi al ritorno, al richiamo fortissimo dei giorni, alla inadeguatezza per i passi di valzer falsamente facili che la vita ti chiede, per prepararmi al questo e al quello delle mie moltitudini e renderle simpatiche persino a me stessa.
Ciao voi due, ciao che è un po’ che non vi parlo da qui, dal perimetro frastagliato di questo cuore, dal mio respiro imperfetto. Ciao voi due che a volte vi penso bambini, ma poi la smetto, che troppo è il sentire del tempo che si srotola e espande. Ciao che vi guardo, di nascosto, piano, senza rumore, anche se vi è toccata in sorte questa madre chiassosa di vita, mamma clown e ballerina. Ciao che siete le tacche sulla porta dei giorni, che vi guardo e mi sostengo, boa che non affonda finché c’è il mare a farla galleggiare. Ciao che ho paura a volte, e so che è questa l’esistenza e vi devo lasciare andare che è da sempre che ci prepariamo, dal vostro primo dire alla vita, da quel taglio ricucito, archeologia nascosta. Ciao, c’è un immenso lì fuori che mi trasuda e ve lo devo consegnare, stando sulla soglia con questo allaccio di cellule, da custodire, perché possiate superare questi bordi, allontanarvi, abitarvi, annusare questa vastità, stare in ascolto della voce antica, di ogni lingua sconosciuta che arriva. Ciao voi due, domani è ancora lunedì, rinnovate l’impronta sulla Luna, senza il peso della gravità, la terra è bellissima da lì, non fa paura, sembra innocente. Sorridete come i naviganti curiosi, unite i punti delle stelle con le capriole dei numeri, che non capisco, ma che a voi sanno confidare l’andatura, su questo filo che tengo stretto da un lato e dall’altro nessuno sa.
Guardo le piante della signora Pina appassire. Le guardo dalla finestra dello studio, che si affaccia a piano terra su una stradina privata. Sembra di stare in un paese. Di fronte c’è un palazzo liberty. Al piano di sopra operai di tutte le nazioni ristrutturano un appartamento. Ci sono affreschi alle pareti. Anche sul tetto c’erano, ma sono stati coperti. Ho sentito un dolore. Al primo piano abita la signora Pina che non vedo da settimane. Un giorno, mentre stavo affacciata cercando tregua in quell’angolo, nascosto al disordine della città, ho visto il figlio uscire dal palazzo. O almeno ho capito fosse lui. Aveva l’aria gentile e quel modo lontano di muoversi di chi in città non abita più da molti anni ormai. Gli ho chiesto di sua madre, gli ho mostrato i vasi sul mio davanzale, regalate da lei, la mia vicina colorata come un unicorno, con gli occhi di un furetto e il corpo accartocciato come quello di mia madre, ma con ancora più anni vissuti. È in una struttura la signora Pina, sta male, ha bisogno di cure, loro, i figli, sono lontani e preoccupati. Lo avevo capito dalle piante, che vedo, ogni giorno, sempre più prosciugarsi, cambiare colore, farsi piccole. Come la signora Pina, penso. Ogni giorno mi dico: scriverò ai figli, per chiedere se posso occuparmi delle piante. C’è una fontana sulla strada e dei contenitori di detersivi riutilizzate per l’acqua. Ci sono le calle e i nastrini e altre piante di cui non ricordo il nome. Mi guardano dalla parte opposta della strada. La signora Pina, una volta, una calla la lasciò sul mio davanzale, perché la trovassi il giorno dopo. È fiorita quando è nata Vittoria, la figlia di un’amica che aspettavamo come le novità delle stagioni. Lo sentivo che sarebbe nata nel giorno della fioritura. L’ho detto a Pina. Questa calla è di Vittoria ora. Lei ha confezionato il vaso con una carta che sembrava dell’uovo di Pasqua o un vestito da unicorno, come lei. Intanto – in questo girotondo delle vite, in questo affaccio dalla finestra alta di luce, con la sua fila ordinata di nastrini sul davanzale, che mi ricordano i giorni di un’infanzia consolata dallo sguardo magico dei pochi anni, che mi ricordano la mia nonna, il suo balcone e il paese da cui veniva – guardo le piante della signora Pina appassire e sento un dolore. Oggi scrivo al figlio.
ATTENZIONE QUESTO POST CONTIENE SPOILER ED ESEGESI INATTENDIBILE SUL FILM “ALIEN” *
“Mamma hanno portato “Alien” al cinema, se vuoi possiamo andare insieme a vederlo” Questo mi ha chiesto Domenico, il figlio diciassettenne. Questo la mia mente ha elaborato: figliolo, la tua richiesta mi commuove, ma come tu ben sai, questo film del 1979 – bellissimo e ancora così moderno, con quella gran figa della Weaver che oltremodo ammiro anche per il suo notevole sviluppo osseo che la natura peripatetica a me ha negato, bloccandomi per sempre nel mio metro e qualcosa – mi suscita una certa ansia. Specie per il momento biochetasi con il tipo dell’equipaggio, che prima mangia cibo coreano filamentoso e poi partorisce, tra schizzi di sangue, il feto extraterrestre che fugge, esclamando nel linguaggio universale del corpo: sucamoriretetutti. E anche se sappiamo che non verranno catturati né la Weaver né il gatto presente sulla nave spaziale, che fa tutto ciò che i gatti domestici usano fare per sopravvivere: un’emerita minchia, declino ugualmente il tuo cortese invito e resto a casa a vedermi un film in cui non muore nessuno, si ride tanto e l’amore trionfa, anche se non ci sono gatti. Questo è quanto invece gli ho risposto: ok andiamo, figo. Questo è quanto è successo e ho pensato mentre ero lì: nella sala eravamo un numero inaspettato di umani: nove. Durante il parto splatter ho chiuso gli occhi. Mio figlio mi ha guardato e ha sorriso. La Weaver in mutandine e canottiera bianche è di una bellezza commovente e ipnotica e mi ha suscitato l’annosa domanda senza risposta: perché certe persone crescono così tanto e altre no? Quando il film è arrivato nelle sale, ero una bambina. Non avrei mai potuto immaginare, allora, che un giorno, lo avrei visto con mio figlio che è uscito anche lui da un taglio nella mia pancia, come Alien, ma io ho sofferto di più, e che molti anni dopo, il suo invito inaspettato, mi avrebbe regalato la grazia fugace di una felicità perfetta. Alien è l’anagramma di linea, quella linea che tortuosa e silente come il futuro, ti conduce dove non credi e questo inatteso, a volte, modifica le percezione del viaggio. E infine, ho pensato, commuovendomi per la profondità e sagacia della mia analisi – guardando l’Alieno sparire nello spazio fino a diventare un puntino insignificante, sconfitto dalla donna, Cassandra inascoltata, reso inoffensivo dalla vastità di tenebra del creato verso cui lei riesce a farlo schizzare con rabbia, come un parto liberatorio – che chi di suca ferisce, a volte, di suca perisce.
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