Quel giorno splendente

È arrivata parlando. Ben truccata, pantaloni in pelle o finta pelle nera, due borse Vuitton, vere o finte, chi lo sa, di diverse dimensioni, un trolley elegante e una grande busta presumibilmente con cibo. È salita sul treno dalla stazione di Salerno. Da quel momento in poi e cioè fino a che non è scesa dal treno scomparendo per sempre, non ha mai smesso di parlare. Ha esordito raccontando a noi pubblico itinerante, mentre sistemava le sue cose sulle alte mensole del vagone, che aveva punti di sutura in pancia e temeva di vomitare. Poi si è seduta accanto a un ragazzo calabrese che dormiva ma che ha svegliato, perché doveva oltrepassarlo. Prima che il ragazzo si riaddormentasse, lei ha iniziato a parlargli. Invece di spazientirsi, lui ha ascoltato il lungo soliloquio della donna, con un’educazione che mi è parsa commovente. Il soliloquio comprendeva dettagliate descrizioni della sua operazione, la spesa di tremila euro per una borsa Vuitton, l’acquisto di altri accessori Vuitton e la precisazione che a lei Vuitton piace, come le pellicce del resto. Ha proseguito con la narrazione di un corteggiatore bello e muscoloso della Guardia di Finanza a cui ha resistito perché figuriamoci ha a sua volta un marito bello e muscoloso, della cifra esatta dello stipendio suo e di suo marito, che tiene case e pellicce e può levarsi tanti “sfizi”, come comprarsi le borse di Vuitton, le pellicce e le case. Poi il ragazzo è arrivato a destinazione, l’ha salutata con gentilezza, così lei ha iniziato a parlare con i signori della fila accanto. Poi anche i signori sono giunti a destinazione, allora ha parlato al telefono con zie a altre donne, essendo ormai circondata da posti vuoti. Quando è arrivato anche per lei il momento di scendere dal treno, si è alzata, si è fatta prendere le valige da un ragazzo e messasi in fila nel corridoio ha parlato con chi ha trovato vicino a lei. Nessuno mai si è spazientito. Erano tutti uomini. Li ho molto ammirati, cosa che non m capita spesso. Poi la donna è scesa dal treno, è scomparsa per sempre e all’improvviso nel vagone il silenzio mi è parso surreale. Allora mi sono chiesta cosa spinga una persona a raccontare fatti privati a sconosciuti. Mi sono chiesta, certo, quanto ci fosse di vero in quelle fantasmagoriche narrazione, se fossero fatte solo per prendere distanze da vuoti e irrisolti che lo sguardo raccontava al posto delle parole, o ancora per un bisogno mai divenuto adulto di essere guardata, di gridare esisto e la mia vita è bellissima. Avevo assistito il giorno prima allo spettacolo che all’aperto Napoli offre e poi a quello dentro un Teatro, dove ci si confrontava con il difficile compito di mettere in scena uno dei testi più significativi per la narrazione dell’assurdo dell’umana esistenza, della sua mancanza di senso. Ma poi lo spettacolo più vero me lo ha offerto il treno, con le vite in movimento, che un attimo prima sgranano pietre e un attimo dopo spariscono con i loro dolori, misteri e tentativi disperati di rivendicare uno spazio di presenza illusoriamente senza tempo, forse per non pensare o non doversi confrontare con la percezione che ogni donna “partorisce a cavallo di una tomba, il giorno splende un istante ed è subito notte”. Anche se so che in quel giorno splendente, a medicare le nostre anime rotte in un tratto fugace e provvisorio, sono i gesti caldi dell’umano per la commozione sentita verso chi è altro da noi e, a volte, la gentilezza degli sconosciuti, che barattano il sonno con un paziente ascolto di storie senza senso.

Tizianeda

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