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Al cinema eravamo in cinque. Io, l’amica Santa che ho incontrato per caso in sala, due signore che, incerte su quale spettacolo vedere, ho convinto a seguirmi e un uomo, che è arrivato e si è seduto all’ultima fila. Poi Women talking è cominciato. A narrare la storia, che la regista definisce, all’inizio della pellicola, “un atto di immaginazione femminile”, è una bambina della comunità religiosa isolata dal resto del mondo e da ogni possibile orizzonte. Le donne giovani, tutte analfabete come le madri e le nonne, che all’interno della comunità figliano e sgobbano in casa, la mattina si svegliano doloranti, con lividi sulle gambe e sangue. Un giorno scoprono che quei segni non sono frutto del maligno o di prove divine, ma di stupri sistematici fatti, sotto l’effetto di droghe per ingravidarle, dagli uomini della comunità. Sono mariti, padri, fratelli. Da questa rivelazione e dalla presa di coscienza di essere “doloranti e terrorizzate”, inizia la loro ribellione interiore. Alcune di loro si riuniscono in un fienile per decidere per la prima volta, sul futuro delle donne della comunità: non fare niente, restare e combattere, andare via. Con loro un solo uomo, il maestro dei bambini, ritornato dopo molti anni, figlio di una donna scacciata perché non allineata. A lui, al cui interno ci sono le semine buone di una educazione illuminata, il compito di verbalizzare per lasciare una testimonianza. È l’unico uomo che si vedrà nel film, oltre ai bambini. Gli altri sono dei punti lontanissimi o solo evocati nella violenza. Il maschile tossico è raccontato o mostrato con i segni sul corpo delle donne. Ma le immagini indietreggiano davanti alle parole, tante, delle donne di più generazioni e di fronte ai loro interrogativi sul bene e il male, sulle responsabilità, sul perdono, sull’importanza della conoscenza, dell’istruzione, di quanto una cultura violenta attraversi le generazioni facendo credere normale l’abuso e l’orrore o trovando giustificazioni per accomodarsi senza doverli affrontare, di quanto anche gli uomini siano vittime di una cultura che nega la libertà e la tenerezza e la consapevolezza che “ogni cosa si insegna con l’amore, non con l’incomprensione, la disputa o il conflitto”. Le loro parole diventano una mappa stellare in quel buio, in quella tessitura di dubbi dove anche nelle fratture l’abbraccio dell’altra è un chiarore nella notte, una tregua dal male. In quel fienile le donne vengono al mondo. E anche noi, seduti e sedute, ci poniamo in ascolto di un possibile fremito di rinascita mentre esercitiamo “il potere immaginativo” che ci porta verso l’orizzonte da percorrere, nonostante la paura dell’ignoto. In questo percorso, nelle risate delle donne così simili a un pianto dolente, in quel loro parlarsi senza menzogna, nel toccarsi e consolarsi c’è il mistero di un film potente e lineare. È una narrazione che riconosciamo perché da sempre si srotola silente in ciascuna di noi, nel racconto sommerso iniziato dalle antenate e arrotolato nel nostro DNA in una oralità tramandata di storie, di separazione e coraggio, di violenza e ribellione, di dolore e rinascita, di segni sul corpo e danni nell’anima, ma anche di bellezza e fierezza perché tutto questo un giorno possa essere consegnato ai bambini e alle bambine, perché non smettano mai di parlare e scegliere.
Finito il film, l’unico uomo in sala, quello seduto nell’ultima fila, è scivolato via al buio e con i titoli di coda che scorrevano veloci. Noi donne siamo rimaste ancora un po’, in una sedimentazione silenziosa, mentre aspettavamo che si accendessero le luci.