Un suono di campane lontano

Quando ero bambina nel tempo in cui ero attraversata dal fervore religioso, la sera recitavo preghiere che mi sembravano tanto più efficaci quanto più interminabili. Iniziavo al tramonto e finivo nell’ora dello sfinimento. Per prima cosa chiedevo a Gesù e alla Madonna di non far morire i miei genitori, poi di non far morire me nel sonno e anche di non far morire i miei fratelli. Per i nonni non chiedevo, perché appariva una pretesa che avrebbe messo in imbarazzo la volta celeste, avendo già affrontato certe dipartite, attraverso i miei compagni di scuola, come evento inevitabile. Crescendo, posati i rosari e accantonati i padrenostro e le avemaria, ho utilizzato i libri. La letteratura, nelle notti di insonnia adolescenziale, mi consolava dall’idea di me stessa. Se leggevo non pensavo, o meglio entravo in altri labirinti, uscivo dalla mancanza d’aria e così mi addormentavo pensando ad amori infelici, a città invisibili, a ragazzini ribelli sugli alberi, alla coscienza di uomini tabagisti e ai mille intrecci e incontri che io non avrei mai vissuto, ma che mi apparivano, tra le pagine, come i sogni che al risveglio ti lasciano i dettagli. Solo scrivendo ho ricominciato a respirare, a fermare il tempo, a non pensare alla morte. Anche se quando scrivi con lei ci conversi. Persino nelle storie allegre c’è questo dialogo.
Anche mia madre con la morte ci parla, ma lei continua a farlo con i rosari e le messe. Non ha paura, anzi si chiede perché il suo corpo che le rimanda dolori resista ancora. Poiché non ha risposta, nel frattempo va al mare ché il sole fa bene alle ossa e per affrontare l’inverno nella sua casa ghiaccio, bisogna essere preparate. Non le ho mai chiesto se anche lei da bambina facesse le stesse mie richieste a Gesù e alla Madonna e non lo farò, perché evidenzierebbe con disappunto la mia mancanza di Dio. Anche se poi si finisce sempre per rivolgersi in qualche modo, verso qualcosa o qualcuno, solo che lo sguardo guarda l’orizzonte. Basta pronunciare un nome, pensare a questo nostro stare al mondo, questo cercarci incessante, anche quando andiamo via, anche quando la vita ci sembra solo un tiro di dadi. Succede quando le parole diventano rosario da sgranare con attenzione, quando stiamo in silenzio a sentire le voci della terra, la compassione per la carne degli sconosciuti, o semplicemente quando siamo attraversati dalla grazia di altre vite che in qualche modo illuminano le nostre e noi, come un riflesso inconsapevole, illuminiamo le loro in uno scambio reciproco di preghiere.

(nella foto scattata forse da mia sorella, guardavo il futuro, o semplicemente fingevo noncuranza. Avevo in faccia i miei figli, ma nessuno poteva immaginarlo)

Tizianeda

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