Anche se non c’è luce

Guardo i nastrini poggiati sul davanzale della finestra dello studio. Anche la nonna Bianca li curava sul suo balcone. Non posso lavorare per qualche ora. Non c’è la corrente elettrica. Il quartiere è stato tappezzato di volantini. Ci avevano avvertito. Non c’è luce, penso. Tra i nastrini c’è una pianta diversa, sembra erba cipollina anche se non lo è. A settembre sulla punta degli steli verdi, spuntano piccoli fiori bianchi. È una fioritura breve. Bisogna che gli occhi ne assorbano la bellezza fragile. Poi si insedierà un’attesa di 355 giorni per 10 giorni di grazia. Mi affaticano le attese. Meglio non pensarci. C’è sempre un rimbalzo simbolico tra ciò che osserviamo e noi. Potrebbe rivelarci con ferocia le nostre esistenze in bilico, nella ricerca di tregua e distrazione, mentre siamo braccati dall’incomprensibile, dai rimandi di orrore che ci bruciano gli occhi. Guardo le foglie delle piante che sventolano, come una bandiera bianca rivolta verso il giorno. Anche se le mie piante non sanno in che precipizio sta cadendo il mondo, in quale resa di umano. Non c’è luce, mi ripeto da stamattina, come un mantra di tenebra. Non c’è luce a Gaza, non c’è luce ogni volta che le voci sono inghiottite in un buco nero, diventano interruttori rotti, senza contorni e possibile dolcezza di suono e le strade tombe sottratte alle risate dei bambini.
Eppure sto qui davanti la finestra a guardare i nastrini e a credere nella fioritura breve della pianta senza nome, come l’attesa di una concessione di bontà e di gentilezza, nonostante la banda sguaiata degli umani e il richiamo del disincanto. Sto qui, penso, anche se non c’è luce.

Tizianeda

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