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The quiet girl è una bambina, ha nove anni, non parla quasi mai, ha uno sguardo altrove e un corpo che lascia, durante la notte, tracce di dolore sul materasso. Vive in una famiglia povera affollata di fratelli e sorelle, di quelle che non ci vorresti mai capitare. Il padre conosce solo il linguaggio dell’umiliazione, la madre cammina piegata dal peso dei sogni infranti, sostituiti da un ventre buono a figliare e basta. The Quiet Girl è il titolo di un film irlandese, che ho visto su Raiplay, in cui Cait, la bambina silenziosa dallo sguardo altrove, durante l’estate viene affidata a parenti della madre, due coniugi non più giovani, che hanno una fattoria a tre ore di macchina da casa sua. Viene lasciata lì dal padre, come un pacco di cui sbarazzarsi in fretta. I coniugi che la ospitano e che hanno un dolore muto, di quelli profondi e taglienti, che tuttavia non ha corrotto il nucleo di bontà che li abita, si prendono cura di lei. Lo fanno con la semplicità dei gesti e delle parole, con una vita geometrica e l’attenzione di chi sa di maneggiare qualcosa di fragile e misterioso, come sono i bambini rotti, con dentro l’urgenza della fioritura e il linguaggio del silenzio, perché hanno conosciuto precocemente l’offesa delle parole. The Quiet Girl è un film senza retorica, in cui anche il dolore è sussurrato, diventando sottofondo della umana condizione di tutti i personaggi che lo attraversano. Eppure ci rivela la forza sovversiva dei gesti gentili e amorevoli, che curano nella loro ripetizione, offrendo a una bambina abitata da mancanze e solitudini, la possibilità di un altro sguardo, di un’altra direzione verso la quale correre, con il cuore e le gambe diventati forti, e una parola rinnovata, soffiata in un abbraccio, perché non più suono ostile.
Tizianeda