Il giorno di Pasqua mi sveglio con il torcicollo del secolo. Mi alzo, impreco, mi muovo come gli zombie, quelli risorti anche loro, ma male. Chiamo il malcapitato che ho sposato venticinque anni fa. Ha il risveglio con l’immagine di una donna, busto in avanti, braccia penzoloni, occhi fissi. Paleso alle sei del mattino la mia condizione di morta vivente. Il parente sposo mi spalma sul collo un unguento color melma, senza data di scadenza, per la resurrezione del collo. Odoro di Arbre Magique stantio. Decido di drogarmi con un po’ di ibuprofene. Devo preparare le polpette, impastate la sera prima, penso. Ho bisogno di gesti antichi. Mi affido alle antenate. Prendo un mucchietto di impasto, gli do forma e così continuo, in un mantra delle mani, polpetta dopo polpetta. Ci sono loro a sostenermi, a sciogliermi i pensieri, riportandomi a un quotidiano semplice, sottraendomi alla ferocia del mondo, alla fatica di voler capire l’incomprensibile, al pensiero dei piccoli della terra, pensieri che entrano in casa, dalle porte, le finestre, con il vento. Ho al collo il foulard di seta di mia nonna. La cura antica per i nervi intrecciati, per il mal di gola, per il luogo del suono, del fiato fermo in attesa delle parole giuste. Nonna, tu lo vedi come va il mondo?
La terra continua tuttavia a ricalcare la sua traiettoria ellittica, non sbaglia un colpo, non si distrae dal suo compito esatto. Gira e gira con un gesto preciso, come quello delle mani.
Le polpette sono pronte, friggo. So che i tre della casa arriveranno dalle altre stanze attratti dal profumo, ne assaggeranno qualcuna, diranno “buonissime”, io farò finta di arrabbiarmi e di scacciarli. In questa sospensione, in queste braccia aperte che espongono il cuore e i battiti fragili, c’è il tentativo sovversivo di ricostruzione dell’umano, attraverso la memoria ripetuta dell’attenzione e dello sfamare, della cura che vuole il bene, attraverso le mani che trasformano la materia. Anche se il collo duole.
Ciao Tu, ciao Agnese che oggi sono 23. Ciao mia tutta bella, ciao dal nostro primo sguardo, dal tuo arrivare al contrario, come se già sapessi che la vita è un poggiare di piedi sulla terra. Ciao mia carne, che sento quando camminiamo strette senza dire, e mi pacifico con tutto quello che è. Ciao mia silenziosa, mia coraggiosa, mia complessa, in costruzione, con domande nelle tasche, in cerca di risposte, ciao con i numeri sui fogli, ciao che non abbiamo capito subito quanto fosse importante per te quel linguaggio a noi oscuro, ciao che hai resistito, che resisti tutti i giorni a un mondo che si sfalda e allarga la frattura. Ciao ostinata, dall’amare tacito come tacite son le cose profonde, ciao che vorrei soffiarti leggerezza, tu che invece in quel silenzio vorresti salvarci tutti. Ciao che le parole ti feriscono, come le dissonanze dell’agire, ma un giorno sentirai, nel petto sentirai, nel frullare del tuo cuore, che le sfumature fanno parte dell’umano, così come le ombre e che le pietre scagliate si possono scansare anche a passo di valzer. Ciao che mi piaci, e chi se ne frega se sono la tua mamma. Ciao che a 23 anni avrei voluto essere te, come te, così indomabile e coraggiosa, che ora tu mi insegni e io ti guardo.
In studio tra le tristi carte, Alexa decide di farmi ascoltare la canzone di Sting, Every Breath You Take. In un attimo ho quindici anni, sono a Londra, in un college, è estate, sono in classe con altri italiani. Con il prof assegnato stiamo lavorando su questa canzone. Il prof è davvero uno stro~nzo psicopatico, non ama gli italiani, non ama nessuno. Mi sposto con i ricordi, c’è un ragazzo all’ingresso del college, mi dice “you are pretty”, io penso sia un insulto, anche perché io pretty non mi sentivo per niente. Quando capisco non mi capacito, ma sorrido. Sorrido anche ora. Mi sposto ancora con la mente, c’è un pollo con una salsa verde in un piatto e degli spaghetti cucinati dalla cuoca di origine italiane. Nessuno mangia i suoi spaghetti collosi. Valle a spiegare che non basta avere nel DNA geni italiani per cucinare spaghetti al dente. Lei si offende. Mi sposto ancora. C’è un ragazzo dai tratti orientali, davvero davvero carino. Madonna che carino. Lui mi chiama Titiana, viene da Toronto. Una sera cerca di baciarmi e io cretina mi ritraggo. Ho pensato a mille cose in quel momento, tipo che mi potesse contagiare l’AIDS, o chissà, forse ingravidarmi. Oh Titiana mia. Tanto ormai è andata. Mi sposto. Sul muro del corridoio c’è una scritta fatta con una matita nera. Quella che Jack usava per gli occhi. L’ho detto che era carino? C’è scritto, ciao Titiana. L’ha lasciata di notte, fuggendo dal college per non pagare la retta. Neanche un bacio e mi ha salutata. Magari se lo baciavo mi scriveva una poesia. Chissà che vita ha avuto nel futuro Jack, se ha continuato a fuggire per non pagare il conto. Mi sposto. La prima notte, nel college, con ragazzi e ragazze ubriachi che gridano e picchiano forte alle porte. Ho una fifa nera. Penso, sfonderanno la porta e mi uccideranno. Mia sorella, nella stanza con me, dorme e non sente nulla. I ragazzi e le ragazze non hanno sfondato nessuna porta, io non sono stata uccisa, al college ci si ubriacava tutte le sere. La canzone è finita, i ricordi svaniscono insieme alla ragazzina di quindici anni ingenua come Polliana, spaventata e insicura e pretty, anche se non lo sapeva. Le tracce che la vita lascia si perdono, salvo riaffiorare a tratti. Se potessi andare ora in quei giorni lì, direi a Titiana, resisti perché succederanno cose e verrà il giorno in cui non avrai più paura. E per favore, bacia Jack.
Mia madre ha sparigliato le carte del tempo, vive in un iperrealismo magico, la sua mente si muove in un romanzo di Marquez amplificato, dove il passato si mescola con il presente e i vivi e i morti si incontrano, si scambiano i ricordi, partecipano agli avvenimento del futuro, mentre a noi che siamo ancora qui, la memoria ci sposta in stanze antiche. La nonna Bianca c’era al mio matrimonio e mia figlia era presente quando sono nata. È un parteciparsi continuo, un accavallarsi di luoghi, un farci compagnia, come se le vite non finissero mai, si avviluppassero in una festa a più piani e strati. Io non la contraddico, anche quando chiama mio figlio Francesco, che poi, chi è Francesco? Piccola com’è si incazza forte e c’ha pure ragione. Io a volte uso il jolly Padreterno, quando proprio non so che dire o forse penso di non farcela. Il jolly per lei, devota ai rosari e alle chiese. “Ma’ offriglielo al Signore”, le dico e cerco di farmi convinta, ma forse non lo sono abbastanza, perché dura poco l’effetto e ritorna a incazzarsi. Mia madre è un’altra madre con cui io e i miei fratelli ci confrontiamo ogni giorno. La signora che sta con lei è gentile, ma mia madre se potesse, la farebbe sparire con uno sguardo, tipo Goldrake che annienta i nemici con il laser. E la capisco, e la giustifichiamo con la signora come le madri a scuola con i figli inquieti, perché quella presenza è la resa alla vecchiaia, al suo essere ribelle e indipendente, al suo voler tornare al mare, uscire sola, funzionare come prima, ricordare, provare piacere per le cose. “Quanto sei bela e secsi”, mi dice la signora che sta con lei, quando vado da mia madre, e io vorrei dirle che non sono cosi, sono solo stanca e magari è ‘sta stanchezza interiore a darmi un’aria docile. Sono stanca delle cose che cambiano in continuazione e all’improvviso, proprio quando pensi di aver trovato un posto comodo in cui stare, e invece tutto si spariglia, come le madri che invecchiano. Ma poi mi passa e cerco conforto, indosso l’orologio regalato dalla nonna Bianca per la mia prima comunione e che mia sorella ha ritrovato dopo decenni di oblio. C’è un movimento circolare attorno a tutti e tutte noi, penso. L’orologio ha il ticchettio di cuore accelerato dei neonati e le lancette si muovono a modo loro. Misurano il tempo come mia madre, penso e mi placo. Non lo farò aggiustare, mi piace così, scombinato come la vita. Con l’orologio al polso come una protezione vado da lei, mi accomodo con i vivi e con i morti che ci guardano dalle fotografie. Ci raccontiamo storie nuove.
(in questa foto di un paio di anni fa, che amo molto, scattata da mia sorella, Mara in versione “non ce n’è per nessuno”. Oggi incaricata all’acquisto delle sigarette è la cugina Bianca, la nipote che ha cresciuto. È bizzarra e sorprendente la vita)
Tizianeda
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