Torcicollo e polpette

Il giorno di Pasqua mi sveglio con il torcicollo del secolo. Mi alzo, impreco, mi muovo come gli zombie, quelli risorti anche loro, ma male. Chiamo il malcapitato che ho sposato venticinque anni fa. Ha il risveglio con l’immagine di una donna, busto in avanti, braccia penzoloni, occhi fissi. Paleso alle sei del mattino la mia condizione di morta vivente. Il parente sposo mi spalma sul collo un unguento color melma, senza data di scadenza, per la resurrezione del collo. Odoro di Arbre Magique stantio. Decido di drogarmi con un po’ di ibuprofene. Devo preparare le polpette, impastate la sera prima, penso. Ho bisogno di gesti antichi. Mi affido alle antenate. Prendo un mucchietto di impasto, gli do forma e così continuo, in un mantra delle mani, polpetta dopo polpetta. Ci sono loro a sostenermi, a sciogliermi i pensieri, riportandomi a un quotidiano semplice, sottraendomi alla ferocia del mondo, alla fatica di voler capire l’incomprensibile, al pensiero dei piccoli della terra, pensieri che entrano in casa, dalle porte, le finestre, con il vento. Ho al collo il foulard di seta di mia nonna. La cura antica per i nervi intrecciati, per il mal di gola, per il luogo del suono, del fiato fermo in attesa delle parole giuste.
Nonna, tu lo vedi come va il mondo?

La terra continua tuttavia a ricalcare la sua traiettoria ellittica, non sbaglia un colpo, non si distrae dal suo compito esatto. Gira e gira con un gesto preciso, come quello delle mani.

Le polpette sono pronte, friggo. So che i tre della casa arriveranno dalle altre stanze attratti dal profumo, ne assaggeranno qualcuna, diranno “buonissime”, io farò finta di arrabbiarmi e di scacciarli.
In questa sospensione, in queste braccia aperte che espongono il cuore e i battiti fragili, c’è il tentativo sovversivo di ricostruzione dell’umano, attraverso la memoria ripetuta dell’attenzione e dello sfamare, della cura che vuole il bene, attraverso le mani che trasformano la materia.
Anche se il collo duole.

📸 Ursula Costa

Tizianeda

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