Al cinema eravamo in cinque. Io, l’amica Santa che ho incontrato per caso in sala, due signore che, incerte su quale spettacolo vedere, ho convinto a seguirmi e un uomo, che è arrivato e si è seduto all’ultima fila. Poi Women talking è cominciato. A narrare la storia, che la regista definisce, all’inizio della pellicola, “un atto di immaginazione femminile”, è una bambina della comunità religiosa isolata dal resto del mondo e da ogni possibile orizzonte. Le donne giovani, tutte analfabete come le madri e le nonne, che all’interno della comunità figliano e sgobbano in casa, la mattina si svegliano doloranti, con lividi sulle gambe e sangue. Un giorno scoprono che quei segni non sono frutto del maligno o di prove divine, ma di stupri sistematici fatti, sotto l’effetto di droghe per ingravidarle, dagli uomini della comunità. Sono mariti, padri, fratelli. Da questa rivelazione e dalla presa di coscienza di essere “doloranti e terrorizzate”, inizia la loro ribellione interiore. Alcune di loro si riuniscono in un fienile per decidere per la prima volta, sul futuro delle donne della comunità: non fare niente, restare e combattere, andare via. Con loro un solo uomo, il maestro dei bambini, ritornato dopo molti anni, figlio di una donna scacciata perché non allineata. A lui, al cui interno ci sono le semine buone di una educazione illuminata, il compito di verbalizzare per lasciare una testimonianza. È l’unico uomo che si vedrà nel film, oltre ai bambini. Gli altri sono dei punti lontanissimi o solo evocati nella violenza. Il maschile tossico è raccontato o mostrato con i segni sul corpo delle donne. Ma le immagini indietreggiano davanti alle parole, tante, delle donne di più generazioni e di fronte ai loro interrogativi sul bene e il male, sulle responsabilità, sul perdono, sull’importanza della conoscenza, dell’istruzione, di quanto una cultura violenta attraversi le generazioni facendo credere normale l’abuso e l’orrore o trovando giustificazioni per accomodarsi senza doverli affrontare, di quanto anche gli uomini siano vittime di una cultura che nega la libertà e la tenerezza e la consapevolezza che “ogni cosa si insegna con l’amore, non con l’incomprensione, la disputa o il conflitto”. Le loro parole diventano una mappa stellare in quel buio, in quella tessitura di dubbi dove anche nelle fratture l’abbraccio dell’altra è un chiarore nella notte, una tregua dal male. In quel fienile le donne vengono al mondo. E anche noi, seduti e sedute, ci poniamo in ascolto di un possibile fremito di rinascita mentre esercitiamo “il potere immaginativo” che ci porta verso l’orizzonte da percorrere, nonostante la paura dell’ignoto. In questo percorso, nelle risate delle donne così simili a un pianto dolente, in quel loro parlarsi senza menzogna, nel toccarsi e consolarsi c’è il mistero di un film potente e lineare. È una narrazione che riconosciamo perché da sempre si srotola silente in ciascuna di noi, nel racconto sommerso iniziato dalle antenate e arrotolato nel nostro DNA in una oralità tramandata di storie, di separazione e coraggio, di violenza e ribellione, di dolore e rinascita, di segni sul corpo e danni nell’anima, ma anche di bellezza e fierezza perché tutto questo un giorno possa essere consegnato ai bambini e alle bambine, perché non smettano mai di parlare e scegliere. Finito il film, l’unico uomo in sala, quello seduto nell’ultima fila, è scivolato via al buio e con i titoli di coda che scorrevano veloci. Noi donne siamo rimaste ancora un po’, in una sedimentazione silenziosa, mentre aspettavamo che si accendessero le luci.
È arrivata parlando. Ben truccata, pantaloni in pelle o finta pelle nera, due borse Vuitton, vere o finte, chi lo sa, di diverse dimensioni, un trolley elegante e una grande busta presumibilmente con cibo. È salita sul treno dalla stazione di Salerno. Da quel momento in poi e cioè fino a che non è scesa dal treno scomparendo per sempre, non ha mai smesso di parlare. Ha esordito raccontando a noi pubblico itinerante, mentre sistemava le sue cose sulle alte mensole del vagone, che aveva punti di sutura in pancia e temeva di vomitare. Poi si è seduta accanto a un ragazzo calabrese che dormiva ma che ha svegliato, perché doveva oltrepassarlo. Prima che il ragazzo si riaddormentasse, lei ha iniziato a parlargli. Invece di spazientirsi, lui ha ascoltato il lungo soliloquio della donna, con un’educazione che mi è parsa commovente. Il soliloquio comprendeva dettagliate descrizioni della sua operazione, la spesa di tremila euro per una borsa Vuitton, l’acquisto di altri accessori Vuitton e la precisazione che a lei Vuitton piace, come le pellicce del resto. Ha proseguito con la narrazione di un corteggiatore bello e muscoloso della Guardia di Finanza a cui ha resistito perché figuriamoci ha a sua volta un marito bello e muscoloso, della cifra esatta dello stipendio suo e di suo marito, che tiene case e pellicce e può levarsi tanti “sfizi”, come comprarsi le borse di Vuitton, le pellicce e le case. Poi il ragazzo è arrivato a destinazione, l’ha salutata con gentilezza, così lei ha iniziato a parlare con i signori della fila accanto. Poi anche i signori sono giunti a destinazione, allora ha parlato al telefono con zie a altre donne, essendo ormai circondata da posti vuoti. Quando è arrivato anche per lei il momento di scendere dal treno, si è alzata, si è fatta prendere le valige da un ragazzo e messasi in fila nel corridoio ha parlato con chi ha trovato vicino a lei. Nessuno mai si è spazientito. Erano tutti uomini. Li ho molto ammirati, cosa che non m capita spesso. Poi la donna è scesa dal treno, è scomparsa per sempre e all’improvviso nel vagone il silenzio mi è parso surreale. Allora mi sono chiesta cosa spinga una persona a raccontare fatti privati a sconosciuti. Mi sono chiesta, certo, quanto ci fosse di vero in quelle fantasmagoriche narrazione, se fossero fatte solo per prendere distanze da vuoti e irrisolti che lo sguardo raccontava al posto delle parole, o ancora per un bisogno mai divenuto adulto di essere guardata, di gridare esisto e la mia vita è bellissima. Avevo assistito il giorno prima allo spettacolo che all’aperto Napoli offre e poi a quello dentro un Teatro, dove ci si confrontava con il difficile compito di mettere in scena uno dei testi più significativi per la narrazione dell’assurdo dell’umana esistenza, della sua mancanza di senso. Ma poi lo spettacolo più vero me lo ha offerto il treno, con le vite in movimento, che un attimo prima sgranano pietre e un attimo dopo spariscono con i loro dolori, misteri e tentativi disperati di rivendicare uno spazio di presenza illusoriamente senza tempo, forse per non pensare o non doversi confrontare con la percezione che ogni donna “partorisce a cavallo di una tomba, il giorno splende un istante ed è subito notte”. Anche se so che in quel giorno splendente, a medicare le nostre anime rotte in un tratto fugace e provvisorio, sono i gesti caldi dell’umano per la commozione sentita verso chi è altro da noi e, a volte, la gentilezza degli sconosciuti, che barattano il sonno con un paziente ascolto di storie senza senso.
Quando ero bambina e il mondo che mi entrava dentro lo decodificavo con strumenti primitivi e una intuizione istintiva, restavo bloccata davanti all’incomprensibile. Ancor più se quell’incomprensibile si sfamava di logiche e architetture che in qualche modo provocavano ferite, dentro comportamenti di cui non capivo il senso. La crudeltà da chiunque provenisse era un canto stonato. Non ne capivo la genesi e inciampavo davanti all’incapacità di alcuni, di vedere lo specchio di noi che l’altro ci offriva. Mi chiedevo, crescendo, cosa interrompesse quel flusso tra noi e l’altro, quali moti interiori avviassero quel processo di scarnificazione dell’umano. Come quando si disidrata un cibo, si toglie l’acqua, anima di ogni cosa vivente. Così l’orrore si manifestava dentro codici e alfabeti che lo assolvevano e non mi capacitavo per le parole pronunciate, non allineate con la gravità dei fatti.
Ho pensato a tutto questo e a molto altro in questi giorni, in cui alla ferita delle morti in mare davanti le coste di Cutro, si è aggiunta l’offesa di chi governa questo paese con cecità, come quella descritta da Saramago nel suo libro. Ho osservato la postura, lo sguardo, i toni del ministro dell’interno, che dalla certezza dei suoi pensieri espressi nell’educazione borghese di un abito ben cucito, rimproverava i genitori che si erano avventurati con i figli in quel viaggio pericoloso, la loro irresponsabilità, utilizzando la retorica della colpa e censurando il dramma reale dietro quel fuggire. Sono tornata, nell’ascoltarlo, bambina ferma davanti all’incomprensibile, alla disumanizzazione del verbo e del sentire, con la percezione che in quelle parole, vi sia la tragica visione di chi, dentro una vita appianata, non usa lo sforzo di superare le proprie linee di confine, anche se, ciò che accade oltre, urla a tal punto che non ascoltarlo è criminale. Oppure c’è una logica politica drammatica, di dissuasione dell’umano, di cancellazione di ogni tentazione di misericordia, perché un popolo senza il sentimento della pietà e della realtà, deraglia verso la rabbia per nemici costruiti in laboratorio, mentre il mare offre il suo olocausto su cui è meglio chiudere gli occhi. O è solo un rimbalzo di disumano tra chi ci governa e chi non si sofferma, in uno sfamarsi canceroso reciproco. Non lo so, davvero non lo so, ma so che, in questi giorni, ho sentito quel dolore al costato, quello spezzarsi di ossa, di chi, ancora una volta, guarda il volto dei giusti coperto da un sudario bianco.
Tu mi sei e io ti sono, oggi più mi sei nella parola avvicinata, allacciata, ché tu sei nella carne e corpo, femmina tu, di grazia giovane. Tu mi sei nei tuoi ventuno appena compiuti, indagatrice di vita che si apre. Si apra a te la vita, mia bella tutta bella. Agnese a me nel cercarci, a volte scontrarci, parlarci fitto di domande e di rimbalzi. Tu mi sei e io ti sono in un amore savio, articolato di preposizioni, di danze nei labirinti e cicli di costellazioni, di antenate nella linea riposta ora nel tuo sangue che scorre, gomitolo di lana da tenere in tasca. Tu mi sei nel tempo che ti ha nutrita, quando ancora la vita fuori non ti aveva separata dal corpo piccolo di madre, il mio. Ora muoviti in questo strappare, perché l’esistere e il suo mistero sono un continuo lasciare, lasciarci, divenire e crescere. Tu mi sei e io ti sono nella paura e anche nel dolore, strada che cerca nei vuoti cieli, per disegnare il tuo personale codice d’amore. Nella resistenza cocciuta e disordinata, nei tentativi di te da partorire. Non fronteggiare l’incontrollabile, poggia i passi, guarda la tua vita come il primo uomo sulla Luna. Dall’alto, da lontano, con lo stupore di chi vede la Terra per la prima volta, nella sua narrazione di bellezza, nel desiderio del ritorno. Ritornati sempre, abitati, guardati con tenerezza e con l’indulgenza necessaria per accogliere il mondo che arriva, un po’ come fa, in questa fotografia, tua nonna da cui vi separano settanta anni di cose accadute. Accogline il dono, sei la continuazione, che ogni volta si risolve in qualche modo, di un intreccio di storie. Sorridi, Agnese. Auguri amore mio, auguri mia tutta bella.
Hanno suonato e cantato al Cartoline Club per quasi due ore, mentre noi presenti ascoltavamo ammaliati per la bravura e i virtuosismi. Sono carini, garbati, sembrano due ragazzi anche se non lo sono, forse per il sorriso, la magrezza e i tanti capelli, hanno bevuto tutta la sera solo acqua, vengono dall’America, da un posto situato in culonia tipo la Calabria, dove i laghi si ghiacciano, ci si diverte pescando, si guarda in tv il football, si beve tanta birra, si mangia poco e leggero e nei giorni scorsi hanno subito gli effetti, destabilizzanti per stomaci poco avvezzi, dei nostri cibi. Però sono sopravvissuti e l’olio di oliva extra vergine, che qui abbonda in cielo in terra e ogni dove, non ha compromesso la loro performance. Dopo il concerto e il discorso divertente e caloroso del musicista calabro tirrenico Vincenzo, che li avevi proposti al Cartoline, si sono educatamente seduti in un tavolino senza disturbare. Poi la più coraggiosa della nostra tavolata e l’unica che parlava inglese senza dover incorrere a mirabolanti acrobazie linguistico-creative, si è avvicinata ai musicisti e li ha invitati a unirsi a quel microcosmo curioso dell’Italia del sud. E così ci siamo ritrovati a chiacchierare tutte e tutti miracolosamente in americano o in qualcosa di simile, per quel meccanismo alchemico creato dall’atmosfera del luogo e da una certa attitudine all’umano. E dopo esserci preoccupati che si sfamassero a sufficienza, perché non si nasce in Calabria per caso, abbiamo scoperto con chi interagivano con i loro cellulari, dopo il concerto. Perché Hayward e Brooks, avevano un motivo antico e molto rock di nostalgia, i figli, tre il primo (benedica), due il secondo, che non vedono da più di dieci giorni. E il consesso potenzialmente alcolico, si è trasformato in una riunione di genitori. Mentre loro mostravano a noi le foto dei loro bambini conservate nei cellulari, noi , per l’impulso irrazionale dell’appartenenza e della comunanza, cercavamo quelle dei nostri figli ormai grandi. Dai figli siamo passati ai cani e ai gatti,ché dopo l’ostensione delle prole, si era creata una certa confidenza. E poi si è parlato di altro, essendo saggio porre un limite anche al romanticismo. E così la serata è trascorsa, veloce, leggera, dentro un luogo accogliente, dimentichi per un po’ del mondo fuori, con la musica che girava intorno e dentro di noi, accorciando le distanze tra micro-cosmi apparentemente lontanissimi, e nonostante le differenti latitudini, concordi nel sentirci inconsapevolmente accomunati dalla ricerca di senso e bellezza e di istanti di tregua.
Alla nonna Ines, a volte, apparivano i santi, quelli importanti. Lo facevano quando aveva molta paura per qualcosa o qualcuno e tutto sembrava perduto. A volte i santi la rassicuravano, altre volte invece le spiegavano che per quella cosa lì, non potevano farci niente. Come a confessare un’impotenza loro davanti alla vita. La nonna Ines toglieva il malocchio, con una formula magica, un piatto pieno d’acqua e l’olio. E faceva come i santi. A volte ci riusciva e a volte no. Come se il disegno che si formava sull’acqua avesse a che fare con il caso e l’incontrollabile, una metafora acquatica e perimetrata della vita, insomma. La nonna Ines cucinava torte e aveva il diabete, le piaceva vivere e sentirsi felice, ma quando è arrivato il momento di andare lo ha capito, e senza troppe storie ha benedetto i figli, il marito e i nipoti e ha chiuso gli occhi. Così ha iniziato ad abitare i sogni dei vivi, perché se sei maga devi saperle fare queste cose. Dopo la sua sparizione dalla terra, è venuta a trovarmi, avevo nove anni. Mi fece uno strano segno sul petto e mi disse che mi avrebbe protetta sempre. Io le ho creduto, perché i sogni mi piacevano anche allora e mi raccontavano le cose non ancora accadute. A un certo punto, però, ho pensato che mi avesse imbrogliato e sono stata, per molti anni, arrabbiata con lei. Poi un giorno, ho pensato che i morti non possono parlare come i vivi e non mentono e non ingannano, ma dicono il vero, secondo lo sguardo diverso che la morte offre. E allora ho capito che come i santi in cui lei credeva, non poteva impedire inciampi e dolori, precipizi e ferite, attimi di sperdimento e di incomprensibile, di quelli che fanno sentire il rumore delle ossa. Mi ha detto altro, il nostro segreto futuro, e quando, molti anni dopo, l’ho capito, mi sono sentita forte come i sopravvissuti. Poco prima della pandemia, sono andata in visita da zia Maria, che ora abita i miei sogni insieme agli altri, con un’agenda e una penna in borsa. Le ho chiesto se mi dettava la formula magica di sua madre, la nonna Ines. Non era Natale, come si conviene per queste tradizioni tramandate, ma un giorno qualsiasi. Non mi importava. Mi interessava avere le parole di mia nonna e delle sue e mie antenate, perché dei morti quello che ci resta sono le parole e io non avevo abbastanza anni per accumularne tante quando è andata via. La zia Maria mi ha dettato il rito magico, che custodisco nella mia agenda rossa, come se la nonna Ines lo avesse lasciato proprio a me, al mio amore per la vita e anche ai miei disastri interiori. Ovunque proteggi, nonna, le dico, quando mi sembra di osservare un cielo senza rotta. Oppure leggo la sua formula, immaginando la sua voce che amava la vita, di cui ha accolto l’incontrollabile, proprio come ha chiesto a me di fare, quando avevo nove anni e ancora non sapevo le cose accadute.
Qualsiasi cosa la donna faccia, come diceva Gaber, sbaglia. Sbaglia se e come prova dolore, sbaglia se e come gode, sbaglia quando partorisce, o peggio quando si lamenta poco, troppo, su, giù e bla bla bla. Eppure l’esistenza e chi la attraversa sono multistrato, multiforme, complessi. I dolori mestruali, per esempio. Il mondo femminino si muove dentro le tumultuose diversità tra i due estremi di chi ne soffre al massimo dei decibel e chi no. Tra chi, anche in quei giorni lì, può gettarsi da un aereo con un paracadute, fare bungee-jumping, triathlon, la traversata dello Stretto, il discorso della vita, la gara di braccio di ferro, la spaccata, tuffarsi nei mari ghiacciati del nord e chi con le budella attorcigliate, vorrebbe attingere a tutto il repertorio delle imprecazioni, ma non gli esce il fiato, perché dentro l’utero ha l’occhio di Sauron infuocato che balla la Macarena. Io morivo una volta al mese, mia sorella no, perché nella distribuzione della dismenorrea, parola inopportuna per quanto è brutta, il padreterno fa un po’ come gli pare. Però a scuola ci andavo uguale, a meno che non entravo in uno stato di pre-morte e, tra una interrogazione di greco e una lezione di filosofia, l’estrema unzione non è cosa buona e giusta. Non ci si poteva lamentare più di tanto, e si cresceva con l’idea che la donna essendo progettata per il dolore, non poteva stare lì a menarsela troppo e se lo faceva era una rompicoglioni. Anche sul fronte del piacere non stavamo messe benissimo. Per gli uomini il climax sembrava un fatto così lineare, ordinario, uni-narrativo. Noi nei secoli ce lo siamo dovuto conquistare e una volta conquistato abbiamo iniziato a ragionare e una volta iniziato a ragionare ci hanno ossessionate con la ricerca del Grande Punto, come fosse la raccolta per le tazze del Mulino Bianco. L’apoteosi giunge con il parto, il tempo dei consigli non richiesti e della irraggiungibile figura mitologica di cui si parla negli ospedali, Miss Puerpera dell’Anno, quella che dopo aver sgravato, si alza, torna in stanza sorridendo, salutando e benedicendo e senza neanche un accenno di emorroidi. E anche qui il padreterno… Dei miei due parti non ho ricordi memorabili o originali. Le solite cose: dolore, sangue, le troppe visite e tanta stanchezza. Affrontato emotivamente male il primo, buona invece la seconda, perché ero ormai pronta e sgamata e la stanchezza si era cronicizzata da più di tre anni. Oggi se vedo donne partorire in tv piango senza ritegno, mi sale un’emozione di chi quella roba l’ha vissuta e le si è sedimentata dentro. Sarà che allora non c’era il tempo per fermarsi ed elaborare, o sarà che come la morte, la testa che sbuca tra cosce insanguinate è il grande mistero dell’esistenza, o sarà stato l’amore nel frattempo. Anche se si nasce e si muore dalle origini, o forse proprio per questo. In fondo, continuiamo a essere i viandanti che cercano le costellazioni per orientarsi e in certi momenti ci sentiamo soli e tutto ciò di cui abbiamo bisogno è di essere ascoltati e visti, come in un cambio di prospettiva celeste. Come quando succede il dolore e il piacere e tutto il resto.
Quando da bambini, Agnese e Domenico, i miei figli, mangiavano le polpette al sugo di nonna Gina, sperticandosi in complimenti iperbolici per quel sovraffollamento di ingredienti e sapori, credevo che entrambi un giorno, ritrovandoli o semplicemente ricordandoli, sarebbero ritornati a un qui e ora felice, carburante necessario, nel tempo in cui, abbandonata l’infanzia, ci si deve districare nei labirinti della vita.
Mai avrei pensato tuttavia, che Agnese, oggi ventenne, avrebbe lei cucinato le polpette, il giorno di Natale, per un solo commensale. Che lo avrebbe fatto in una geografia lontana i cui abitanti sono dediti alla sobrietà culinaria, cosa alquanto difficile da comprendere per chi viene da una Nazione basata prima ancora che sul lavoro, sul cibo. Se in Italia mangiare a Natale (e non solo) è un mantra, in Olanda, dove si trova in questi giorni Agnese, mangiare durante la vigilia di Natale è sì un rito esistente, ma sobrio e indolore, che inizia alle sei del pomeriggio, alle otto sono tutti a casa e lì ci restano anche il 25. Così Agnese – che pare abbia preso un po’ troppo sul serio l’invito genitoriale di sentirsi cittadina del mondo, fidanzandosi con un ragazzo metà olandese e metà caraibico – il 25 dicembre ha preparato una pietanza con dentro il desiderio di riportare dal passato, come in una seduta spiritica, un ricordo felice, per poterlo condividere con chi in quella parte di vita non c’era, né nei giorni né nei pensieri. Lui dal par suo le cucina cibi speziati ed esotici, che gli ricordano l’infanzia delle isole che, sebbene lontane, sono intrecciate alla sua memoria.
Agnese ci ha scritto che le polpette erano quasi uguali a quelle della nonna ed era felice, lasciando a quel “quasi” ogni possibilità di miglioramento, ma anche identitaria e personale, mostrandoci in un video il prequel di una pentola sul fuoco e macchie di pomodoro sparse per il fornelli, a rinforzare la gioia caotica e disordinata di un amore giovane.
Quanto a me che ho i pensieri iperattivi e il bisogno di collegare i punti dell’esistenza, per non lasciare che mancanze, lontananze, tempi perduti e improvvise malinconie mi sovrastino, osservo la continuità di una narrazione partita da lontano come una linea verticale, che da una cucina anni ‘60, minuscola Itaca familiare, all’improvviso si espande, rivolgendosi a una vita da esplorare e assaggiare, da contaminare e da cui farsi contaminare. E pazienza se lì, in Olanda, il cielo è nuvoloso e grigio e qui l’azzurro è antico e l’aria ha una luce che ti avvinghia e se la vita, come le polpette, si muove in quel “quasi”, in quel raggiungimento che lascia spazio alla possibilità della trasformazione e del coraggio e si affida alla pazienza di più vite.
E mentre penso ad Agnese lontana e a cosa l’anno che verrà potrà raccontarci, preparo la carne alla Genovese, che non appartiene alla tradizione familiare, non arriva da ricette lontane, ma semplicemente mi piace e piace a tutti. Nel prepararla penso a un qui e ora sereno, che chissà, forse un giorno qualcuno proverà a riprodurre confrontandosi con il coraggio e la trasformazione del quasi.
E che quest’anno sia buono o quasi per tutti e tutte noi 💫
(Nella foto Olanda 2016. La ragazza sul ponte è Agnese)
“Dove la poggio?” “Vieni” dice mia madre, invitandomi a seguirla, mentre tengo tra le mani una piccola pianta fiorita che sembra un cespuglio, con tonalità rosa tramonto sullo Stretto di Messina. La seguo. Lei mi porta dal balcone, sul cui davanzale la pianta era riposta per la notte, in bagno, quello piccolo con la lavatrice. Sopra la lavatrice c’è una foto di Padre Pio. “Non l’ho messo qui per declassarlo” mi dice “ma perché lui è un santo potente e il bagno è un luogo importante per tutti”. Vorrei scherzare, ma per timore, sia di Padre Pio che di mia madre, creature mitologiche, taccio. Le rispondo: “Sì lo so”, e le faccio notare che in casa, Padre Pio è ovunque. Nel soggiorno, nel salotto, in camera da letto, nella stanza con il divano arancione e quella con la libreria anni ’70, in cucina e all’ingresso. Padre Pio in cielo, in terra e in tutte le stanze. Sembra di essere a Pietralcina. In realtà non c’è solo lui nella casa di mia madre, anche se è l’azionista di maggioranza, seguito, secondo una stima approssimativa, dalla Madonna. Ci sono anche Gesù, Sant’Antonio, Don Orione, Santa Maria Goretti, Sant’Agnese, San Giuseppe. A casa di mia madre, comunque ti muova, il cattolicesimo ti osserva con immaginette, dipinti, calendari e cartoline. Non ricordo se era così anche quando eravamo bambini io e i miei fratelli, se anche allora il Paradiso ci osservava da ogni angolo attraverso la sua iconografia casalinga. Era presente nei riti che si ripetevano, dalle preghiere serali e del mattino, alla messa, persino nell’acquisto delle paste domenicali, anche quello, sacro atto di devozione. Nel pacchetto si trovava Inferno e morte, se pur temperata quest’ultima dalla certezza della resurrezione. Poi sono cresciuta ed è cambiato lo sguardo, non quello di mia madre ultima delle sentinelle tra i mondi, che riempie le stanze di immagini di assenti, con il loro diritto alla fioritura delle piante, come se vita e morte da sempre esercitassero la reciproca attrazione e potessero convivere nello stesso istante, sfiorandosi e chiedendoci il rinnovo del rito, come quello del Natale. E in questo susseguirsi di generazioni, mentre assenti e santi ci osservano dalla distanza nostalgica di fotografie e cartoline, le piante fioriscono sulle lavatrici, in silenzio, imitando nei colori, il tramonto antico dello Stretto di Messina che ci guarda da una fissità surreale, rinnovando insieme un qualcosa, che non sappiamo dire.
Il Progressive Rock, i Manga, gli Anime, l’attrazione per un mondo lontanissimo, la tavoletta grafica, i tutorial per imparare a disegnare, la tua ostinazione, la gabbia della perfezione, tu e le mani da riprodurre sul foglio, tu che ridi e ridi leggendo Aspettando Godot, tu che mi ascolti parlare di questi amori e domandi e non dici ma so che rifletti, io che penso la felicità è ora, tu e tua sorella Agnese che ha ceduto alla commozione di avere un fratello, voi che vi proteggete, io che so che hai un posto sicuro dove andare all’occorrenza, tu e le polpette al sugo di nonna Gina e i sapori che mi chiedi di riprodurre, io che ci provo, tu disordinato, io a rimproverare, tu e le guance che pungono sui miei baci che ti do come un agguato, tu che ti scansi con gentilezza, tu che sorridi, tu che sei serio e magro, io che ti guardo di nascosto perché l’amore non sia intralcio, ma, un giorno, restituzione in ogni altrove, tu che parli inglese meglio dell’italiano e fai crasi assurde e involontarie di parole, tu e i tuoi amici dentro un pc sparsi per il mondo, tu riservato e silenzioso, sempre misurato, io che ti faccio il circo attorno, tu e le tue stanze che a tratti riveli all’improvviso, io e tuo padre che ci chiediamo quando tutto questo, quando questo nuovo spazio arredato e fiorito, tu che non esibisci e fai, io che mi preoccupo per il mondo fuori così poco per bene, tu che sembri non accorgerti del male, tu che i pianeti dovevano essere allineati come si deve quando sei nato, sorridendo più che piangendo, che non hai perso per strada quel centro che ancora mi spaventa e mi stupisce, io e questo sentire che non so dove riporre e a chi dire, tu che oggi sono diciassette che è un numero ossuto proprio come te che ti fai intuire. Io che sono qui a guardarti e a benedire.
Auguri Domenico, auguri tu che sei bello e non lo sai.
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