Guardo le piante della signora Pina appassire. Le guardo dalla finestra dello studio, che si affaccia a piano terra su una stradina privata. Sembra di stare in un paese. Di fronte c’è un palazzo liberty. Al piano di sopra operai di tutte le nazioni ristrutturano un appartamento. Ci sono affreschi alle pareti. Anche sul tetto c’erano, ma sono stati coperti. Ho sentito un dolore. Al primo piano abita la signora Pina che non vedo da settimane. Un giorno, mentre stavo affacciata cercando tregua in quell’angolo, nascosto al disordine della città, ho visto il figlio uscire dal palazzo. O almeno ho capito fosse lui. Aveva l’aria gentile e quel modo lontano di muoversi di chi in città non abita più da molti anni ormai. Gli ho chiesto di sua madre, gli ho mostrato i vasi sul mio davanzale, regalate da lei, la mia vicina colorata come un unicorno, con gli occhi di un furetto e il corpo accartocciato come quello di mia madre, ma con ancora più anni vissuti. È in una struttura la signora Pina, sta male, ha bisogno di cure, loro, i figli, sono lontani e preoccupati. Lo avevo capito dalle piante, che vedo, ogni giorno, sempre più prosciugarsi, cambiare colore, farsi piccole. Come la signora Pina, penso. Ogni giorno mi dico: scriverò ai figli, per chiedere se posso occuparmi delle piante. C’è una fontana sulla strada e dei contenitori di detersivi riutilizzate per l’acqua. Ci sono le calle e i nastrini e altre piante di cui non ricordo il nome. Mi guardano dalla parte opposta della strada. La signora Pina, una volta, una calla la lasciò sul mio davanzale, perché la trovassi il giorno dopo. È fiorita quando è nata Vittoria, la figlia di un’amica che aspettavamo come le novità delle stagioni. Lo sentivo che sarebbe nata nel giorno della fioritura. L’ho detto a Pina. Questa calla è di Vittoria ora. Lei ha confezionato il vaso con una carta che sembrava dell’uovo di Pasqua o un vestito da unicorno, come lei. Intanto – in questo girotondo delle vite, in questo affaccio dalla finestra alta di luce, con la sua fila ordinata di nastrini sul davanzale, che mi ricordano i giorni di un’infanzia consolata dallo sguardo magico dei pochi anni, che mi ricordano la mia nonna, il suo balcone e il paese da cui veniva – guardo le piante della signora Pina appassire e sento un dolore. Oggi scrivo al figlio.
ATTENZIONE QUESTO POST CONTIENE SPOILER ED ESEGESI INATTENDIBILE SUL FILM “ALIEN” *
“Mamma hanno portato “Alien” al cinema, se vuoi possiamo andare insieme a vederlo” Questo mi ha chiesto Domenico, il figlio diciassettenne. Questo la mia mente ha elaborato: figliolo, la tua richiesta mi commuove, ma come tu ben sai, questo film del 1979 – bellissimo e ancora così moderno, con quella gran figa della Weaver che oltremodo ammiro anche per il suo notevole sviluppo osseo che la natura peripatetica a me ha negato, bloccandomi per sempre nel mio metro e qualcosa – mi suscita una certa ansia. Specie per il momento biochetasi con il tipo dell’equipaggio, che prima mangia cibo coreano filamentoso e poi partorisce, tra schizzi di sangue, il feto extraterrestre che fugge, esclamando nel linguaggio universale del corpo: sucamoriretetutti. E anche se sappiamo che non verranno catturati né la Weaver né il gatto presente sulla nave spaziale, che fa tutto ciò che i gatti domestici usano fare per sopravvivere: un’emerita minchia, declino ugualmente il tuo cortese invito e resto a casa a vedermi un film in cui non muore nessuno, si ride tanto e l’amore trionfa, anche se non ci sono gatti. Questo è quanto invece gli ho risposto: ok andiamo, figo. Questo è quanto è successo e ho pensato mentre ero lì: nella sala eravamo un numero inaspettato di umani: nove. Durante il parto splatter ho chiuso gli occhi. Mio figlio mi ha guardato e ha sorriso. La Weaver in mutandine e canottiera bianche è di una bellezza commovente e ipnotica e mi ha suscitato l’annosa domanda senza risposta: perché certe persone crescono così tanto e altre no? Quando il film è arrivato nelle sale, ero una bambina. Non avrei mai potuto immaginare, allora, che un giorno, lo avrei visto con mio figlio che è uscito anche lui da un taglio nella mia pancia, come Alien, ma io ho sofferto di più, e che molti anni dopo, il suo invito inaspettato, mi avrebbe regalato la grazia fugace di una felicità perfetta. Alien è l’anagramma di linea, quella linea che tortuosa e silente come il futuro, ti conduce dove non credi e questo inatteso, a volte, modifica le percezione del viaggio. E infine, ho pensato, commuovendomi per la profondità e sagacia della mia analisi – guardando l’Alieno sparire nello spazio fino a diventare un puntino insignificante, sconfitto dalla donna, Cassandra inascoltata, reso inoffensivo dalla vastità di tenebra del creato verso cui lei riesce a farlo schizzare con rabbia, come un parto liberatorio – che chi di suca ferisce, a volte, di suca perisce.
Mia sorella l’abbraccia, come non ha mai fatto con me quando eravamo ragazze. È la sua prima nipote del resto, anche se ora ha ventuno anni. Lei si lascia andare. Le piace prendere il caffè dalla zia, dopo pranzo, quando è qui. Ci ritroviamo in cucina. È sabato. Il giorno dopo sarà Pasqua. La zia apre le ante della dispensa. Tira fuori biscotti e cioccolata. “Mamma perché noi non abbiamo tutti questi dolci a casa?” “Perché ce li mangeremmo in un giorno”, le dico staccando pezzi di cioccolata uno dopo l’altro da una barretta. Mentre mia sorella prepara la macchinetta del caffè, arriva sua figlia, di quasi diciotto anni. Apre il frigo e prende altra cioccolata. “Ma come minchia fate a essere tutti magri in questa casa?”. Mia sorella ride. Devo avere un metabolismo di seconda mano. Beviamo caffè e chiacchieriamo. Agnese, mia figlia, racconta, ha i suoi rimestii dell’anima. Sa cosa le diremo, ma le parole benevoli, come l’amore, hanno bisogno di ripetizione. Sofia ascolta, poi notiamo le sue unghie con lo smalto nuovo. Sono belle le diciamo io e Agnese, molto belle. È un respirare felice. Una tregua senza l’interferenza del male, dei giorni, della fatica, di ogni incomprensibile che stanca, delle cose da decidere o incastrare o lasciare che siano. Il tempo è fermo. La stanza profuma di cioccolato e caffè, ci sono le voci della ragazze, è un affaccio di grazia. Anche le antenate sono nella stanza, fanno cerchio attorno a noi. Bianca e Ines, le nonne, ci sorridono vicine, le prozie Lena e Lulù sono sedute sulle sedie vuote, annodano coperte con l’uncinetto. C’è la bisnonna Teresa, silenziosa e tutte le altre che non sappiamo. Ci ascoltano. La stanza gira, le risate si confondono, ci intrecciamo, facciamo una coperta di parole, vorticose ci solleviamo in un girotondo. Il mondo è ben poca cosa da quella stanza dove si accomoda la luce del giorno. Poi tutto ritorna come prima. Dobbiamo andare. Le antenate si dileguano. Sofia si avvia verso la sua stanza, noi alla porta di ingresso. Mia sorella abbraccia ancora Agnese, lei si abbandona. Ha il pigiama di suo fratello addosso. Le chiedo di abbracciare anche me, rivendico il mio ruolo di sorella minore che è stata bambina. Lo fa. Se non risorgo nella notte Pasquale, almeno so che c’è la cucina di mia sorella dove tornare.
Mia madre ha un’amica che all’improvviso è scomparsa. È un’amica che ha conosciuto
al mare anni fa. Per lavoro la donna aggiusta i volti delle persone, è alta e possente, è più giovane di mia madre che di anni ne ha novantuno e un corpo piccolo. La sua amica vive a Parigi anche se è nata in un paese dell’Est dell’Europa e ama le coste
calabresi e la loro luce. Questa estate è andata a salutare mia madre, come sempre, le ha detto che sarebbe tornata presto, ma non lo ha fatto. Mia madre si è molto preoccupata per questa assenza e questo inverno le ha scritto una lettera, in francese e a mano come si faceva un tempo. Per la prima volta l’amica non le ha risposto.
Ma madre, che è ostinata come i suoi anni, ha composto il numero di telefono
della clinica parigina dove lavora e ha chiamato. Ha parlato in francese nella sua quasi sordità. Nessuno ha assistito a questo miracolo della tenacia e della sfrontatezza o del menefottismo che la vecchiaia a un certo punto ti regala. Non avendo tuttavia
compreso cosa il suo interlocutore le abbia potuto dire, ha composto un altro numero,
questa volta di un italiano indigeno, comune conoscente. L’indigeno le ha dato un
indirizzo mail. Lei è venuta da me, io le ho spiegato cosa fosse una mail, come
funzionasse e che “chiocciola” non si scrive con le lettere ma con un segno. Lei mi ha
guardato come ti osserva chi è nata al tempo dei telegrafi. Io l’ho rassicurata che una volta chiuso il pc la mail non si sarebbe auto distrutta, lei ha fatto fatica a credermi,
ma ha deciso di fidarsi non avendo altra scelta. I primi giorni mi chiedeva
ripetutamente se la sua amica le avesse scritto. La mia risposta, tuttavia, è sempre
stata negativa. Sono passate settimane e le richieste di mia madre si sono fatte
sempre più rade fino a scomparire.
Mi dispiace per mia madre e per la sua delusione, mi spiace per la sua tenacia che
meritava una ricompensa, mi spiace per l’amicizia affettuosa che ora non sa dove
riporre e perché quando non hai risposte ti rimangono le ipotesi che sono come
oggetti inutili. Ed è difficile spiegare a chi ha vissuto in una geometria esatta, almeno
nel pensiero, che spesso la vita fa come cazzo gli pare, devia, si inabissa o prende altre traiettorie, anche se ci spendiamo fino al midollo perché ogni cosa si componga
secondo i nostri desideri e che le relazioni umane sono fatte anche di stanze buie e di improvvise assenze. Allora scherzo, le prospetto scenari assurdi o parossistici. Lei mi guarda, sorride appena, poi scuote la testa e torna alle sue cose.
Al cinema eravamo in cinque. Io, l’amica Santa che ho incontrato per caso in sala, due signore che, incerte su quale spettacolo vedere, ho convinto a seguirmi e un uomo, che è arrivato e si è seduto all’ultima fila. Poi Women talking è cominciato. A narrare la storia, che la regista definisce, all’inizio della pellicola, “un atto di immaginazione femminile”, è una bambina della comunità religiosa isolata dal resto del mondo e da ogni possibile orizzonte. Le donne giovani, tutte analfabete come le madri e le nonne, che all’interno della comunità figliano e sgobbano in casa, la mattina si svegliano doloranti, con lividi sulle gambe e sangue. Un giorno scoprono che quei segni non sono frutto del maligno o di prove divine, ma di stupri sistematici fatti, sotto l’effetto di droghe per ingravidarle, dagli uomini della comunità. Sono mariti, padri, fratelli. Da questa rivelazione e dalla presa di coscienza di essere “doloranti e terrorizzate”, inizia la loro ribellione interiore. Alcune di loro si riuniscono in un fienile per decidere per la prima volta, sul futuro delle donne della comunità: non fare niente, restare e combattere, andare via. Con loro un solo uomo, il maestro dei bambini, ritornato dopo molti anni, figlio di una donna scacciata perché non allineata. A lui, al cui interno ci sono le semine buone di una educazione illuminata, il compito di verbalizzare per lasciare una testimonianza. È l’unico uomo che si vedrà nel film, oltre ai bambini. Gli altri sono dei punti lontanissimi o solo evocati nella violenza. Il maschile tossico è raccontato o mostrato con i segni sul corpo delle donne. Ma le immagini indietreggiano davanti alle parole, tante, delle donne di più generazioni e di fronte ai loro interrogativi sul bene e il male, sulle responsabilità, sul perdono, sull’importanza della conoscenza, dell’istruzione, di quanto una cultura violenta attraversi le generazioni facendo credere normale l’abuso e l’orrore o trovando giustificazioni per accomodarsi senza doverli affrontare, di quanto anche gli uomini siano vittime di una cultura che nega la libertà e la tenerezza e la consapevolezza che “ogni cosa si insegna con l’amore, non con l’incomprensione, la disputa o il conflitto”. Le loro parole diventano una mappa stellare in quel buio, in quella tessitura di dubbi dove anche nelle fratture l’abbraccio dell’altra è un chiarore nella notte, una tregua dal male. In quel fienile le donne vengono al mondo. E anche noi, seduti e sedute, ci poniamo in ascolto di un possibile fremito di rinascita mentre esercitiamo “il potere immaginativo” che ci porta verso l’orizzonte da percorrere, nonostante la paura dell’ignoto. In questo percorso, nelle risate delle donne così simili a un pianto dolente, in quel loro parlarsi senza menzogna, nel toccarsi e consolarsi c’è il mistero di un film potente e lineare. È una narrazione che riconosciamo perché da sempre si srotola silente in ciascuna di noi, nel racconto sommerso iniziato dalle antenate e arrotolato nel nostro DNA in una oralità tramandata di storie, di separazione e coraggio, di violenza e ribellione, di dolore e rinascita, di segni sul corpo e danni nell’anima, ma anche di bellezza e fierezza perché tutto questo un giorno possa essere consegnato ai bambini e alle bambine, perché non smettano mai di parlare e scegliere. Finito il film, l’unico uomo in sala, quello seduto nell’ultima fila, è scivolato via al buio e con i titoli di coda che scorrevano veloci. Noi donne siamo rimaste ancora un po’, in una sedimentazione silenziosa, mentre aspettavamo che si accendessero le luci.
È arrivata parlando. Ben truccata, pantaloni in pelle o finta pelle nera, due borse Vuitton, vere o finte, chi lo sa, di diverse dimensioni, un trolley elegante e una grande busta presumibilmente con cibo. È salita sul treno dalla stazione di Salerno. Da quel momento in poi e cioè fino a che non è scesa dal treno scomparendo per sempre, non ha mai smesso di parlare. Ha esordito raccontando a noi pubblico itinerante, mentre sistemava le sue cose sulle alte mensole del vagone, che aveva punti di sutura in pancia e temeva di vomitare. Poi si è seduta accanto a un ragazzo calabrese che dormiva ma che ha svegliato, perché doveva oltrepassarlo. Prima che il ragazzo si riaddormentasse, lei ha iniziato a parlargli. Invece di spazientirsi, lui ha ascoltato il lungo soliloquio della donna, con un’educazione che mi è parsa commovente. Il soliloquio comprendeva dettagliate descrizioni della sua operazione, la spesa di tremila euro per una borsa Vuitton, l’acquisto di altri accessori Vuitton e la precisazione che a lei Vuitton piace, come le pellicce del resto. Ha proseguito con la narrazione di un corteggiatore bello e muscoloso della Guardia di Finanza a cui ha resistito perché figuriamoci ha a sua volta un marito bello e muscoloso, della cifra esatta dello stipendio suo e di suo marito, che tiene case e pellicce e può levarsi tanti “sfizi”, come comprarsi le borse di Vuitton, le pellicce e le case. Poi il ragazzo è arrivato a destinazione, l’ha salutata con gentilezza, così lei ha iniziato a parlare con i signori della fila accanto. Poi anche i signori sono giunti a destinazione, allora ha parlato al telefono con zie a altre donne, essendo ormai circondata da posti vuoti. Quando è arrivato anche per lei il momento di scendere dal treno, si è alzata, si è fatta prendere le valige da un ragazzo e messasi in fila nel corridoio ha parlato con chi ha trovato vicino a lei. Nessuno mai si è spazientito. Erano tutti uomini. Li ho molto ammirati, cosa che non m capita spesso. Poi la donna è scesa dal treno, è scomparsa per sempre e all’improvviso nel vagone il silenzio mi è parso surreale. Allora mi sono chiesta cosa spinga una persona a raccontare fatti privati a sconosciuti. Mi sono chiesta, certo, quanto ci fosse di vero in quelle fantasmagoriche narrazione, se fossero fatte solo per prendere distanze da vuoti e irrisolti che lo sguardo raccontava al posto delle parole, o ancora per un bisogno mai divenuto adulto di essere guardata, di gridare esisto e la mia vita è bellissima. Avevo assistito il giorno prima allo spettacolo che all’aperto Napoli offre e poi a quello dentro un Teatro, dove ci si confrontava con il difficile compito di mettere in scena uno dei testi più significativi per la narrazione dell’assurdo dell’umana esistenza, della sua mancanza di senso. Ma poi lo spettacolo più vero me lo ha offerto il treno, con le vite in movimento, che un attimo prima sgranano pietre e un attimo dopo spariscono con i loro dolori, misteri e tentativi disperati di rivendicare uno spazio di presenza illusoriamente senza tempo, forse per non pensare o non doversi confrontare con la percezione che ogni donna “partorisce a cavallo di una tomba, il giorno splende un istante ed è subito notte”. Anche se so che in quel giorno splendente, a medicare le nostre anime rotte in un tratto fugace e provvisorio, sono i gesti caldi dell’umano per la commozione sentita verso chi è altro da noi e, a volte, la gentilezza degli sconosciuti, che barattano il sonno con un paziente ascolto di storie senza senso.
Quando ero bambina e il mondo che mi entrava dentro lo decodificavo con strumenti primitivi e una intuizione istintiva, restavo bloccata davanti all’incomprensibile. Ancor più se quell’incomprensibile si sfamava di logiche e architetture che in qualche modo provocavano ferite, dentro comportamenti di cui non capivo il senso. La crudeltà da chiunque provenisse era un canto stonato. Non ne capivo la genesi e inciampavo davanti all’incapacità di alcuni, di vedere lo specchio di noi che l’altro ci offriva. Mi chiedevo, crescendo, cosa interrompesse quel flusso tra noi e l’altro, quali moti interiori avviassero quel processo di scarnificazione dell’umano. Come quando si disidrata un cibo, si toglie l’acqua, anima di ogni cosa vivente. Così l’orrore si manifestava dentro codici e alfabeti che lo assolvevano e non mi capacitavo per le parole pronunciate, non allineate con la gravità dei fatti.
Ho pensato a tutto questo e a molto altro in questi giorni, in cui alla ferita delle morti in mare davanti le coste di Cutro, si è aggiunta l’offesa di chi governa questo paese con cecità, come quella descritta da Saramago nel suo libro. Ho osservato la postura, lo sguardo, i toni del ministro dell’interno, che dalla certezza dei suoi pensieri espressi nell’educazione borghese di un abito ben cucito, rimproverava i genitori che si erano avventurati con i figli in quel viaggio pericoloso, la loro irresponsabilità, utilizzando la retorica della colpa e censurando il dramma reale dietro quel fuggire. Sono tornata, nell’ascoltarlo, bambina ferma davanti all’incomprensibile, alla disumanizzazione del verbo e del sentire, con la percezione che in quelle parole, vi sia la tragica visione di chi, dentro una vita appianata, non usa lo sforzo di superare le proprie linee di confine, anche se, ciò che accade oltre, urla a tal punto che non ascoltarlo è criminale. Oppure c’è una logica politica drammatica, di dissuasione dell’umano, di cancellazione di ogni tentazione di misericordia, perché un popolo senza il sentimento della pietà e della realtà, deraglia verso la rabbia per nemici costruiti in laboratorio, mentre il mare offre il suo olocausto su cui è meglio chiudere gli occhi. O è solo un rimbalzo di disumano tra chi ci governa e chi non si sofferma, in uno sfamarsi canceroso reciproco. Non lo so, davvero non lo so, ma so che, in questi giorni, ho sentito quel dolore al costato, quello spezzarsi di ossa, di chi, ancora una volta, guarda il volto dei giusti coperto da un sudario bianco.
Tu mi sei e io ti sono, oggi più mi sei nella parola avvicinata, allacciata, ché tu sei nella carne e corpo, femmina tu, di grazia giovane. Tu mi sei nei tuoi ventuno appena compiuti, indagatrice di vita che si apre. Si apra a te la vita, mia bella tutta bella. Agnese a me nel cercarci, a volte scontrarci, parlarci fitto di domande e di rimbalzi. Tu mi sei e io ti sono in un amore savio, articolato di preposizioni, di danze nei labirinti e cicli di costellazioni, di antenate nella linea riposta ora nel tuo sangue che scorre, gomitolo di lana da tenere in tasca. Tu mi sei nel tempo che ti ha nutrita, quando ancora la vita fuori non ti aveva separata dal corpo piccolo di madre, il mio. Ora muoviti in questo strappare, perché l’esistere e il suo mistero sono un continuo lasciare, lasciarci, divenire e crescere. Tu mi sei e io ti sono nella paura e anche nel dolore, strada che cerca nei vuoti cieli, per disegnare il tuo personale codice d’amore. Nella resistenza cocciuta e disordinata, nei tentativi di te da partorire. Non fronteggiare l’incontrollabile, poggia i passi, guarda la tua vita come il primo uomo sulla Luna. Dall’alto, da lontano, con lo stupore di chi vede la Terra per la prima volta, nella sua narrazione di bellezza, nel desiderio del ritorno. Ritornati sempre, abitati, guardati con tenerezza e con l’indulgenza necessaria per accogliere il mondo che arriva, un po’ come fa, in questa fotografia, tua nonna da cui vi separano settanta anni di cose accadute. Accogline il dono, sei la continuazione, che ogni volta si risolve in qualche modo, di un intreccio di storie. Sorridi, Agnese. Auguri amore mio, auguri mia tutta bella.
Hanno suonato e cantato al Cartoline Club per quasi due ore, mentre noi presenti ascoltavamo ammaliati per la bravura e i virtuosismi. Sono carini, garbati, sembrano due ragazzi anche se non lo sono, forse per il sorriso, la magrezza e i tanti capelli, hanno bevuto tutta la sera solo acqua, vengono dall’America, da un posto situato in culonia tipo la Calabria, dove i laghi si ghiacciano, ci si diverte pescando, si guarda in tv il football, si beve tanta birra, si mangia poco e leggero e nei giorni scorsi hanno subito gli effetti, destabilizzanti per stomaci poco avvezzi, dei nostri cibi. Però sono sopravvissuti e l’olio di oliva extra vergine, che qui abbonda in cielo in terra e ogni dove, non ha compromesso la loro performance. Dopo il concerto e il discorso divertente e caloroso del musicista calabro tirrenico Vincenzo, che li avevi proposti al Cartoline, si sono educatamente seduti in un tavolino senza disturbare. Poi la più coraggiosa della nostra tavolata e l’unica che parlava inglese senza dover incorrere a mirabolanti acrobazie linguistico-creative, si è avvicinata ai musicisti e li ha invitati a unirsi a quel microcosmo curioso dell’Italia del sud. E così ci siamo ritrovati a chiacchierare tutte e tutti miracolosamente in americano o in qualcosa di simile, per quel meccanismo alchemico creato dall’atmosfera del luogo e da una certa attitudine all’umano. E dopo esserci preoccupati che si sfamassero a sufficienza, perché non si nasce in Calabria per caso, abbiamo scoperto con chi interagivano con i loro cellulari, dopo il concerto. Perché Hayward e Brooks, avevano un motivo antico e molto rock di nostalgia, i figli, tre il primo (benedica), due il secondo, che non vedono da più di dieci giorni. E il consesso potenzialmente alcolico, si è trasformato in una riunione di genitori. Mentre loro mostravano a noi le foto dei loro bambini conservate nei cellulari, noi , per l’impulso irrazionale dell’appartenenza e della comunanza, cercavamo quelle dei nostri figli ormai grandi. Dai figli siamo passati ai cani e ai gatti,ché dopo l’ostensione delle prole, si era creata una certa confidenza. E poi si è parlato di altro, essendo saggio porre un limite anche al romanticismo. E così la serata è trascorsa, veloce, leggera, dentro un luogo accogliente, dimentichi per un po’ del mondo fuori, con la musica che girava intorno e dentro di noi, accorciando le distanze tra micro-cosmi apparentemente lontanissimi, e nonostante le differenti latitudini, concordi nel sentirci inconsapevolmente accomunati dalla ricerca di senso e bellezza e di istanti di tregua.
Alla nonna Ines, a volte, apparivano i santi, quelli importanti. Lo facevano quando aveva molta paura per qualcosa o qualcuno e tutto sembrava perduto. A volte i santi la rassicuravano, altre volte invece le spiegavano che per quella cosa lì, non potevano farci niente. Come a confessare un’impotenza loro davanti alla vita. La nonna Ines toglieva il malocchio, con una formula magica, un piatto pieno d’acqua e l’olio. E faceva come i santi. A volte ci riusciva e a volte no. Come se il disegno che si formava sull’acqua avesse a che fare con il caso e l’incontrollabile, una metafora acquatica e perimetrata della vita, insomma. La nonna Ines cucinava torte e aveva il diabete, le piaceva vivere e sentirsi felice, ma quando è arrivato il momento di andare lo ha capito, e senza troppe storie ha benedetto i figli, il marito e i nipoti e ha chiuso gli occhi. Così ha iniziato ad abitare i sogni dei vivi, perché se sei maga devi saperle fare queste cose. Dopo la sua sparizione dalla terra, è venuta a trovarmi, avevo nove anni. Mi fece uno strano segno sul petto e mi disse che mi avrebbe protetta sempre. Io le ho creduto, perché i sogni mi piacevano anche allora e mi raccontavano le cose non ancora accadute. A un certo punto, però, ho pensato che mi avesse imbrogliato e sono stata, per molti anni, arrabbiata con lei. Poi un giorno, ho pensato che i morti non possono parlare come i vivi e non mentono e non ingannano, ma dicono il vero, secondo lo sguardo diverso che la morte offre. E allora ho capito che come i santi in cui lei credeva, non poteva impedire inciampi e dolori, precipizi e ferite, attimi di sperdimento e di incomprensibile, di quelli che fanno sentire il rumore delle ossa. Mi ha detto altro, il nostro segreto futuro, e quando, molti anni dopo, l’ho capito, mi sono sentita forte come i sopravvissuti. Poco prima della pandemia, sono andata in visita da zia Maria, che ora abita i miei sogni insieme agli altri, con un’agenda e una penna in borsa. Le ho chiesto se mi dettava la formula magica di sua madre, la nonna Ines. Non era Natale, come si conviene per queste tradizioni tramandate, ma un giorno qualsiasi. Non mi importava. Mi interessava avere le parole di mia nonna e delle sue e mie antenate, perché dei morti quello che ci resta sono le parole e io non avevo abbastanza anni per accumularne tante quando è andata via. La zia Maria mi ha dettato il rito magico, che custodisco nella mia agenda rossa, come se la nonna Ines lo avesse lasciato proprio a me, al mio amore per la vita e anche ai miei disastri interiori. Ovunque proteggi, nonna, le dico, quando mi sembra di osservare un cielo senza rotta. Oppure leggo la sua formula, immaginando la sua voce che amava la vita, di cui ha accolto l’incontrollabile, proprio come ha chiesto a me di fare, quando avevo nove anni e ancora non sapevo le cose accadute.
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