La gente sta male. Per comprendere il tasso di disagio esistenziale e di civiltà di un popolo, non occorre scomodare analisti, filosofi, esperti di economia, politologi, raffinati letterati, teologi, lettori dei fondi di caffè, sensitivi e guru di ultima generazione, guaritori di anime a favore del proprio conto corrente. È sufficiente salire sulla propria autovettura e guidare in città. La guida smette di essere un gesto meccanico di pedali pigiati e marce da cambiare a leva leva: prima seconda terza quarta quinta. A Reggio Calabria, per esempio, guidare è un’esperienza di sopravvivenza, è una prova di resistenza del proprio sistema nervoso, di controllo del turpiloquio, della propria devozione al divino. È repressione del desiderio di scendere dalla macchina con una mazza pesante da baseball. Anche perché se arrivi a malapena al metro e cinquanta, la mazza è più pesante di te e poi chi si tiene nel cofano una mazza da baseball. Se volete diventare maestri zen ed evolvervi in questa vita , non richiudetevi in conventi né sottoponetevi a estenuanti esercizi metafisici. Non è necessario. Venite a guidare a Reggio Calabria. Se poi non amate guidare, o siete affetti da quella sindrome genetica di cui non avete alcuna colpa, quella che vi ha costretti appena maggiorenni a fare lezioni aggiuntive, tutte inutili, di scuola guida, avrete una maggiore percezione della realtà veicolare che vi sta attorno. Per il semplice fatto che il guidatoredimerdacronico consapevole, per compensare i propri deficit, è rispettoso di tutte le regole. Va piano, aziona le frecce, non parcheggia mai in doppia fila, non suona il clacson per sfogare le varie impotenze fisiche ed esistenziali, rispetta semafori, stop, precedenze, glorifica le strisce pedonali, quando accede a una rotatoria usa la prudenza di un artificiere e si affida alla madonna, sa che motorini e pedoni sono il male. Ma il guidatore rispettoso si muove in città come un povero Marcovaldo circondato da malessere, frustrazioni e indifferenza nei confronti degli altri, assunti a entità ectoplasmica e quindi inesistenti. E nell’accorgerti che ognuno preso dai propri disagi, dal male di vivere, dalla fatica, dalla rabbia, dalla mancanza di strumenti cognitivi e culturali, dalla perdita di attenzione e di senso della collettività, sei presa da uno sconforto profondo, sentendoti prigioniera dentro una bolla, in cui l’inferno dei vivi sembra aver avuto il sopravvento. E ti verrebbe voglia di raggiungere distanze siderali per non assistere allo spettacolo brutto che ti si mostra davanti, scappare in Aspromonte dove tutto è silenzio e natura. Poi però pensi che questo fine settimana si vota e tu andrai al seggio perché non riesci davvero a essere indifferente, anche se assisti ogni giorno alla morte della ragione e del sacro e, a ben vedere, anche tu non ti senti molto bene.
Le amiche, gli algoritmi e la ginecologa, sono le grandi compagne dei cambiamenti interiori di una donna. A vent’anni la dottoressa ti consiglia anticoncezionali e ti parla di malattie veneree. In sostanza di sesso. Le amiche, quelle “avanti”, raccontano fantasmagoriche avventure, con il tatto di un lanciatore di martello, nell’intento di iniziarti, ovviamente, al sesso. Gli algoritmi invece non dicono niente perché i ventenni facebook lo schifano. A trenta ci sono le amiche sposate e con figli che vedi solo se ti invitano a cena, quelle single che vedi solo se sei single anche tu, mentre la ginecologa esplora la tua pancia per vedere se sei pronta per la grande avventura della maternità a cui magari non pensi, perché non hai un euro neanche per piangere, o semplicemente non ti va. A quaranta si esce con le amiche e l’alcol, su fb, messanger pullula di messaggi di playboy-emoticonaddicted: cuore, tulipano, bacio, mentre le ginecologhe ti fanno i complimenti per una vagina che può darti ancora tante soddisfazioni. A cinquanta le amiche si scambiano le vitamine da pre-menopausa o da menopausa conclamata, facendo a gara su quale sia la più risolutiva dell’umore torvo e della pancia gonfia, facebook ti invita a comprare oggetti falloidali e prodotti all’aloe vera che ti prospettano più miracoli della ayahuasca. Intanto la ginecologa esplora la tua vagina come fosse l’occhio di Sauron, mentre agguanta l’aggeggio per l’ecografia interna, che in altri contesti potrebbe incuriosirti, ma lì messa sul lettino come una peccatrice sottoposta alla Santa Inquisizione, ti fa venire una crisi vagale e svieni. Anzi non svieni, perché tanto le gambe le hai già messe in alto, quindi ti senti solo morire. La dottoressa in questione mentre gioca a pac-man dentro il tuo utero, ti avverte che “attenzione, attenzione!”, hai un’ovaia rincoglionita, mentre l’altra sembra rivivere una seconda adolescenza. E in questo delirio schizofrenico, te ne torni a casa nervosa, chiedendoti se è colpa del joystick esplorativo, della sindrome premestruale, della pre-menopausa confusa, di un’esistenza attraversata da continui cambiamenti a cui pare ci si debba adattare sorridenti e baldanzose, o semplicemente perché sei nata donna e hai secoli e secoli di rottura di ovaie addosso. E allora cerchi le tue amiche, chiudi i social, la tua ginecologa vivadio la rivedrai tra un anno e pensi che in fondo il mondo in cui vivi non ti piace granché, preso com’è a importi una felicità artificiale, in cui devi essere performativa e brillante come un cocainomane di mezza età su un panfilo pieno di ragazze. E allora ti aggrappi alla legge morale dentro di te e al cielo stellato sopra di te, che a ben vedere tutti quei puntini, ti sembrano milioni di ovaie che pulsano, ricordandoti le leggi primordiali dell’esistenza e sorridi davanti a tanta inspiegabile bellezza e in qualche modo del tutto misterioso, sei felice di farne parte, insieme alle tue sorelle.
Il bambino del terzo piano, tutti i giorni versa acqua in un bicchiere e la lancia dal balcone giù nel cortile. Riempie, si affaccia, lancia, poi ricomincia, anche per ore. Lo capiamo dal modo ritmico in cui l’acqua rovina, con il rumore che si sparpaglia sul pavimento. Lui osserva il precipizio, soddisfatto e serio e sembra non saziarsene mai. Il proprietario del cortile una sola volta si è arrabbiato, gli ha gridato, da sotto, di smettere, ma poi ha capito e ora lo lascia fare. Il bambino del piano di sotto, non si chiama Sisifo, però a me fa pensare a lui. Anche se Sisifo spinge un masso da portare in cima alla montagna, che puntualmente precipita giù, nella litania incessante e solitaria dell’inutilità della fatica. Il destino di un condannato alla ripetizione dello sforzo verso la vetta, che ci costringe a interrogarci sull’assurdità dell’esistenza. Il bambino del terzo piano, non spinge massi. Ha un bicchiere, l’acqua e un cortile che non si riempirà mai, che non diventerà una piscina, un lago, il mare, il cielo riflesso. Ho pensato come quella rovina incessante mi rimandasse alla voce di un universo indifferente al richiamo degli umani, fatti d’acqua e di macigni nel petto. Poi è successo che un giorno, il bambino del terzo piano, tra i lanci, si è concesso una pausa da quel rito, voltandosi verso di me che stavo sul balcone accanto e in una sospensione degli accadimenti, mi ha sorriso e io a lui. Pochi secondi di armistizio per entrambi in cui due mondi lontanissimi, in quell’incrocio di occhi, hanno condiviso solitudini e senza saperlo i propri nascosti dolori. E ho pensato che se c’è un cielo sopra di noi indifferente agli sforzi degli umani, in questa esistenza orizzontale, tuttavia, bastano due occhi che si incrociano per un frammento di vita, dentro un alfabeto di silenzio, che ci fa rivolgere proprio a quel cielo, che ha più bisogno di noi umani, così fragili, segnati dai nostri fallimenti e da un incessante bisogno d’amore, di quanto noi di lui.
Fatto sta che precisamente, oggi proprio oggi, sono esattamente, compiutamente, tignamente dieci, dico dieci annetti di questo bloghettino che è iniziato tutto carino, bellino, garbatino. Che c’avevo dieci anni in meno e ora dieci vite in più, una per ogni anno aggiunto che mi pare che tanto tantissimo fu in questi tempi scapestrati, a volte bistrattati, ma minchia belli se belli e minchia difficili se difficili. Ma forse più difficile è stato il prima del blog, che non lo sapevo e parecchio non lo sapevo, che il prima lo capisci giusto appunto dopo e a volte molto dopo. Ed è questa la vita nostra umana e disumana, che non ti capaciti che cambi, che cambia, che cambiamo in questa coniugazione esistenziale. E che stupidore bello iniziare questo gioco, che ve lo scrivo come viene, tutto sgrammaticato, per questo scoppio di troppa vita extrasistolica. E c’è qui in questo bloghettino, il raccontato che si attorciglia, tutto si attorciglia come l’edera al cuore, con il bisogno spaccato di annaffiare i buchi neri con la luce. E grazie grazie grazie amici e amiche. Abbaiate coraggio, come i cani la notte abbaiatelo il coraggio, meglio se non soli, ma con uno o più accanto che se cadi con il male di buccia di pelle assanguata, c’hai l’accanto che non ti inciampa e continui di anno in anno e i figli crescono e le mamme imbiancano e i padri non lo dice la canzone, ma siamo qui come lumi accesi alle finestre a cercare di capire questa strada trafficata, di incroci e semafori rotti e automobilisti confusi e strisce pedonali scolorite. E questo è il quanto di una delle tante particelle di vita. Una minuscola è racchiusa in questo blogghettino. E ora soffio su questa prova di resistenza, con le penne colorate accucciate nei buchi neri a consolarli per ogni tradimento di luce. Spegniamole ‘ste dieci candeline soffiamo come il vento sotto le gonne, soffiamo come le madri e i padri sui cibi bollenti dei bambini. Restituiamo aria all’aria, perché non sia mancanza, ma sfamare e ringraziare.
Quando la nonna Bianca venne “prosciolta dall’obbligo dell’istruzione elementare” della scuola del Comune di Melicuccà, era il 1905. Prosciolta, come se l’istruzione fosse un’accusa di cui finalmente liberarsi. Era brava la nonna a scuola, specie in matematica con quel dieci svettante sugli altri voti, più che nei lavori donneschi, cui si dedicò comunque, una volta uscita dalle aule. Ché a continuare gli studi fino alla laurea, tanto, ci pensavano i fratelli. E sì che lei veniva da una famiglia che i libri, come il pane, non mancavano, affezionato com’era, il padre Carlo, alle parole, che nutrivano il pensiero e la malinconia. Ma il destino delle donne, anche in una casa illuminata, quello restava. Dentro le stanze, a lasciare che i fratelli studiassero, partissero, vivessero la vita, quando non interrotta dal padreterno o dal bisogno di altri uomini di sconvolgere i confini delle Nazioni, facendo della gioventù carne fresca per le bare e pianto per le madri. La nonna Bianca aveva delle sorelle, prosciolte anche loro dalla scuola, ma non dai doveri delle donne, che creavano un solco largo abbastanza, da dividere i destini tra maschi e femmine, tra la vita fuori e quella dentro. La nonna Bianca non l’ho mai vista giovane, se non molti anni dopo la sua morte, in una foto nascosta in una scatola di latta, tra i ricordi degli assenti. Da vecchia sorrideva poco e leggeva molto seduta nella penombra accanto all’anta della porta-finestra semi aperta. Mi piaceva la nonna e io piacevo a lei, spaventata com’era che mi potessi sgretolare nel vedermi fragile e vinta dai sussulti dell’anima. Non so se ha mai pensato a un destino diverso per noi nipoti femmine, un destino riversato nella vita, che in parte si era costruita la figlia, mia madre, con l’ostinazione dello studio e con lei le sue cugine. Parlava poco mia nonna e ci intratteneva con i suoi giochi di bambina, di quando stava attorno al braciere con le sue sorelle e fratelli e il mondo ancora, non era stato frantumato dalle vicende della natura e degli uomini. Ci guardava come chi ama, con il pensiero del nostro futuro addosso. Ci guardava come ora guardo la sua pagella del 1905, in un rimbalzo palindromo del tempo, con la pronipote Valentina. Penso a mia nonna, penso alle donne prima di noi, che chissà cosa avrebbero voluto e non hanno potuto. Guardo Valentina che la nonna Bianca l’ha conosciuta attraverso i nostri racconti. Ci capiamo e sorridiamo.
Il giorno di Pasqua si partiva, genitori e fratelli, con la Fiat 127 verde, per attraversare quella roba esistenziale che è l’autostrada Salerno – Reggio Calabria. Un’estensione atemporale della geografia calabra, per intenderci. Se c’era nebbia, cosa che accadeva spesso, esploravi tutta la tua religiosità, raccomandandoti a santi, madonne, Dio, Gesù e a quant’altro immaginavi in cielo, anche se con la nebbia il cielo non lo vedevi. Poi si arrivava a Melicuccà, per un miracolo del destino. Si arrivava nel paese delle prozie Lena e Lulù, le sorelle della nonna Bianca, il paese appoggiato sull’acqua, che la senti scorrere, ma non la vedi, ché la malinconia non è solo roba degli uomini, ma anche dei paesi. Melicuccà che ha la voce degli oliveti ripiegati, che l’assediano. Il paese di Lorenzo Calogero, bloccato e senza tempo tra le anse degli alberi, anche se l’olivo non è un albero, ma un essere trascendente, proprio come lo sono i poeti. Appena arrivati, scendevamo per le scale di pietra, attraversavamo il giardino e entravamo nella casa voluta, un tempo, dall’ ostinazione del bisnonno, con le chiavi nella toppa ad aspettarci, la tavola apparecchiata nella sala da pranzo, il braciere rimestato, il profumo di carne e strutto, gli occhi dei morti a vegliare in tutte le stanze, gli affacci sul campanile, l’umidità spappola ossa, Bettina e le zie governanti della cucina, delle stanze e delle storie che scricchiolavano sotto i piedi e si nascondevano nei cigolii delle porte, nei materassi di lana, nel palmento, nelle volte esagonali, nei panni appesi alle canne di bambù, nella soffitta che non ci potevi salire perché era pericoloso. Poi le storie apparivano, attorno al braciere, dopo il pranzo pasquale, con la coperta e il tepore condivisi. Nella stanza, uno alla volta, arrivavano i morti. Ritornavano, con la resurrezione orale della memoria, di cui le zie erano custodi. Noi stavamo lì al caldo, e le ascoltavamo, come al cinematografo, con gli avi che riempivano uno a uno la stanza, sfuggiti ancora una volta alla dimenticanza. Tutti in silenzio, vivi e morti, nella preghiera dell’ascolto. Oggi la casa è ancora lì. Sembra solo più stanca e una stanza ha la porta chiusa a chiave, ché il pavimento è sfinito ormai e non regge i pesi. L’acqua scorre e lava ché si muore e si rinasce, sempre. Le zie non ci sono più da un po’. Ci hanno lasciato i morti in attesa, che ci guardano da ogni angolo. Guardano noi, che rispetto al passato siamo la storia presente, la seconda storia, a guardare quello che loro non hanno visto, a fare quello che loro non hanno potuto, soprattutto le donne. Ci ammoniscono, chiedendoci di credere nelle possibilità di rinascita, nella memoria e nel tempo presente. Per i morti e per i vivi.
Quando facevo la prima elementare, in classe c’era un bambino con i capelli ricci e i denti grandi. E c’era un altro bambino alto e magro. Almeno oggi, quando ricordo, li rivedo così. Il bambino alto si divertiva a infastidire l’altro bambino, quello con i denti grandi e i ricci. Qualche volta lo spintonava e lo picchiava. Sembrava che la cosa gli piacesse molto, come piace quello che ci fa sentire potenti. Il bambino alto era bravo a scuola, forse il più bravo e brillante. Il bambino altro, no. Faticava con i numeri e le lettere, così come con gli altri bambini. Quando il bambino alto picchiava il bambino altro, mi scaraventavo addosso. Così a essere picchiati finivamo per essere in due. Poi per la rabbia di quel gesto ingiusto, mi infilavo sotto il banco in preda a un umore buio e a pensieri ingarbugliati. E finiva così, con me torva, il bambino alto che continuava ad andare bene a scuola e il bambino altro dentro la sua noce fragile. Non so che fine abbiano fatto i due bambini, che adulti sono diventati nel frattempo, se la vita e gli incontri, o un bravo analista li ha aggiustati. Se chi maneggiava il male, a dispetto dell’età, si è fatto agnello o ha pagato con la solitudine l’assenza di empatia, e se l’altro a furia di prenderle ha iniziato ad attraversare la vita come se non gli importasse, o se il dolore, al contrario, ha generato grazia. Eppure a volte penso ai due bambini e a me arrabbiata sotto il banco. Penso al male, pronto a germogliare, cucito come un segreto dentro le tasche, ma anche al fuoco di chi non arretra per amore dell’umano, quando i contorni sono inghiottiti da nebbie grigie. A questo penso, aggrappandomi al buono dei gesti degli altri. E pazienza se, alle domande della bambina nascosta sotto il banco e che a tratti devo rassicurare, a volte, non so rispondere.
Volevo che al pediatra rimanesse una traccia di loro, un oggetto, bello, da toccare e vedere. Per salutarlo e ringraziarlo di essersi preso cura dei miei figli. Perché allo scoccare del sedicesimo compleanno, ti viene assegnato il nuovo medico, dei figli fatti grandi dal tempo caino che tutto cambia e che non si muove lineare, ma spariglia e disaccomoda. Ma tant’è. Ho scelto una teiera in ceramica e una ciotola con cui sorseggiare bevande lente. Sarà che a lui ho affidato per sedici anni due creazioni, nate dall’impasto di elementi, energia, calore, attesa, trasformazione della materia, corpo che si fa forno per accogliere speranze alchemiche. Un richiamo d’oriente, perché per noi è stato come un Buddha che esortava alla calma e al buon senso. “Buon senso signora”, ha risposto spesso, alle mie domande sul cosa fare, quando non avevo un bugiardino dell’agire, scritto con indicazioni e controindicazioni. Buon senso, ripetendolo due volte, come a ribadire un concetto che invece mi spiazzava. Sono solo un genitore, mi dicevo, destinato ad accudire due tra gli elementi più destabilizzanti dell’esistenza, con l’aggravante dei difetti di fabbricazioni della mia anima e della paura. Che senso è il buon senso? Aspettavo risposte e lui mi indicava una strada dentro cui potevo anche perdermi. Eppure il suo era un richiamo alla misura, all’equilibrio, allo stare, al sentire, al fare, o al non fare. L’invito a trovare qualcosa che non fosse necessariamente dentro il senso comune, spesso mala pianta di pensieri deformi se pur collettivi, ma che andasse oltre per rispondere a un’istanza antica, non solo dell’essere madre, ma che ora la maternità mi sollecitava con urgenza, perché richiamo alla cura, esortazione a riconoscere l’oggetto dello sguardo e ad agire come fanno i giusti. Anche se lo diceva a un ramo torto, come mi sentivo io. Non vale, ovvio, solo per la genitorialità. Il buon senso dovrebbe essere il mantra che ci attraversa di questi tempi qui. Come quello di Gennaro, il padre di “Napoli Milionaria”, che ho sentito l’urgenza di rileggere in questi giorni, Gennaro che tornato dalla guerra vede il suo mondo incattivito e le anime ridotte a macerie, a narrazione drammatica del tutto è perduto. Il padre che non grida, non giudica, non condanna, esercita la cura, accoglie e sa che la ricostruzione non dipende solo da lui che offre, attraverso se stesso, una strada e il dolore calmo dell’attesa, dentro la notte. E ora, come dal pediatra sia arrivata a Eduardo, non lo so. Sarà che siamo legati dall’umano fragile, sarà che le voci buone dicono tutte la stessa cosa, richiamano allo stare, sia che si debbano crescere figli da affidare al mondo, o a cui affidare il mondo con tutte le nostre responsabilità di predecessori, sia che si debba ricostruire una comunità smarrita, pezzo pezzo, con amore, tornando al buono, tornando al buon senso sepolto dalle macerie, scavando dentro questo tempo che non si muove lineare, come piace a noi, ma che arriva, spariglia e disaccomoda.
C’è un film americano che si intitola “Il lato positivo”. I due protagonisti che sono ovviamente bellissimi, hanno un groviglio di problemi dentro la testa. Lui è bipolare, un giorno vede la moglie con un tipo sotto la doccia e il dolore e la malattia lo portano dritto dritto dentro una clinica psichiatrica. Lei, l’altra protagonista, è una “vedova dinamica”, come scrive Netflix, che è un modo discreto di chi cura le trame, per dire che dopo la morte del marito, la poverina, per il troppo dolore, ha avuto una quantità oltremodo considerevole di amplessi occasionali (“data alla promiscuità” secondo Wikipedia). Quando lui esce dalla clinica conosce lei. Tra i loro mondi disconnessi con il reale, si crea un collegamento empatico, al punto che i due bellissimi fanno un patto. Lei aiuterà lui a riconquistare la moglie ormai ex e lui parteciperà con lei a una gara di ballo. I due, nel ballo, come nella vita, sono un disastro. Fuori ritmo, scoordinati come calzini spaiati, capricciosi, a volte furenti, arresi, poi gasati, poi di nuovo arresi. I movimenti non sono fluidi, rovinano a terra, stanno sull’orlo dell’abisso. Eppure continuano, studiano il ritmo in sincronia con la musica, coordinando i loro passi dislessici dominati da fragilità e perdite. Perché ci si muove per come è capitata la vita, come se lo scheletro e i muscoli, avessero una memoria inconsapevole che non cancella i fatti accaduti e il dolore che li ha sostenuti. Dei due ci si innamora, così come della loro fatica di stare tra le cose. E in questo sperdimento che la vita offre come una tavola apparecchiata, nel groviglio di mancanze e sottrazioni, c’è un’attesa vigile e disperata di chi aspetta che la notte passi, che la paura si slabbri perdendo la sua identità mostruosa, che si riuniscano i lembi dell’umanità scucita, imparando a danzare su un bordo stretto e ferito, non da soli, riconoscendosi, accogliendosi, con amore, se possibile.
Mia madre nel giorno del suo novantesimo compleanno, ha dichiarato a figli, nipoti, generi e nuore, che ha cambiato idea circa l’opportunità di andare alla casa del Padre, cioè di morire. Ha deciso che il Padre, tanto pervicacemente nascosto nei cieli, può anche aspettarla, giacché lei non soltanto ha ancora voglia di vivere, ma questo permanere le piace, nonostante gli assenti che la esiliano, a tratti, dentro angoli di tristezza. Ha capito, mia madre, nel giorno del suo compleanno, che le piace l’amore che riceve e da par suo restituirlo. Quel giorno, ossia il venti gennaio, sin dalla prima mattina ha risposto alle molte telefonate in cui amici e familiari la salutavano con lo stupore verso chi ha attraversato due secoli e nove decenni, resistendo ai colpi e contraccolpi di un’umanità sballottata tra i viaggi della Storia, crepuscoli siderali ed esistenziali. Un’umanità che oggi appare sul bordo dell’abisso, lo stesso bordo su cui lei sembra passarci sopra, con la stessa levità di Mister Magù. Del resto, come da lei dichiarato, è nata nel medesimo anno della resistente Settimana Enigmistica, rivista che ancora oggi acquista e con cui olea gli ingranaggi sinaptici, anche se non ha più l’amica amata Graziella, con cui si confrontava e gareggiava, spesso, con il settimanale in mano, passeggiando le domeniche nelle ore vuote della città. Mia madre, nel giorno del suo compleanno, ha ricevuto così tanti fiori e piante che l’hanno fatta gioire come una bambina nella notte di Natale. “Minchia mamma, neanche al tuo funerale avrai tutti ‘sti fiori”, le ha detto la figlia di mezzo, suscitando la ilarità della madre, che ormai lasciata l’ansia delle regole e dell’educazione da impartire, si concede la libertà di ridere anche delle sconcezze e di non turbarsi delle parolacce proferite da questa figlia che, in fondo, nel suo essere naif e inquieta, non è poi tanto dissimile dalla madre. Anche se una recita rosari e l’altra sgrana la vita con diversi metodi non sempre contemplativi. Nel giorno del suo compleanno la madre, nonna e zia con il discorso proferito con la semplicità dei longevi, ci ha regalato l’amore per i mattini e la meraviglia dello stare insieme. Perché nelle vertigini di questa giostra – in cui giochiamo a dadi con il dolore e le perdite, con le storture delle nostre anime, in cui la geografia interiore del corpo fa male nei punti sensibili e violati – ci artigliamo alla benedizione degli istanti che ci connettono al lato buono e fragile dell’umano. Ancora di più se a ricordarcelo è una donna accartocciata dalla vecchiaia, nata nello stesso anno e appena tre giorni prima della Settimana Enigmistica.
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