Per amore dell’umano

Quando facevo la prima elementare, in classe c’era un bambino con i capelli ricci e i denti grandi. E c’era un altro bambino alto e magro. Almeno oggi, quando ricordo, li rivedo così. Il bambino alto si divertiva a infastidire l’altro bambino, quello con i denti grandi e i ricci. Qualche volta lo spintonava e lo picchiava. Sembrava che la cosa gli piacesse molto, come piace quello che ci fa sentire potenti. Il bambino alto era bravo a scuola, forse il più bravo e brillante. Il bambino altro, no. Faticava con i numeri e le lettere, così come con gli altri bambini. Quando il bambino alto picchiava il bambino altro, mi scaraventavo addosso. Così a essere picchiati finivamo per essere in due. Poi per la rabbia di quel gesto ingiusto, mi infilavo sotto il banco in preda a un umore buio e a pensieri ingarbugliati. E finiva così, con me torva, il bambino alto che continuava ad andare bene a scuola e il bambino altro dentro la sua noce fragile. Non so che fine abbiano fatto i due bambini, che adulti sono diventati nel frattempo, se la vita e gli incontri, o un bravo analista li ha aggiustati. Se chi maneggiava il male, a dispetto dell’età, si è fatto agnello o ha pagato con la solitudine l’assenza di empatia, e se l’altro a furia di prenderle ha iniziato ad attraversare la vita come se non gli importasse, o se il dolore, al contrario, ha generato grazia. Eppure a volte penso ai due bambini e a me arrabbiata sotto il banco. Penso al male, pronto a germogliare, cucito come un segreto dentro le tasche, ma anche al fuoco di chi non arretra per amore dell’umano, quando i contorni sono inghiottiti da nebbie grigie. A questo penso, aggrappandomi al buono dei gesti degli altri. E pazienza se, alle domande della bambina nascosta sotto il banco e che a tratti devo rassicurare, a volte, non so rispondere.

Tizianeda

Il senso buono

Volevo che al pediatra rimanesse una traccia di loro, un oggetto, bello, da toccare e vedere. Per salutarlo e ringraziarlo di essersi preso cura dei miei figli. Perché allo scoccare del sedicesimo compleanno, ti viene assegnato il nuovo medico, dei figli fatti grandi dal tempo caino che tutto cambia e che non si muove lineare, ma spariglia e disaccomoda. Ma tant’è. Ho scelto una teiera in ceramica e una ciotola con cui sorseggiare bevande lente. Sarà che a lui ho affidato per sedici anni due creazioni, nate dall’impasto di elementi, energia, calore, attesa, trasformazione della materia, corpo che si fa forno per accogliere speranze alchemiche. Un richiamo d’oriente, perché per noi è stato come un Buddha che esortava alla calma e al buon senso. “Buon senso signora”, ha risposto spesso, alle mie domande sul cosa fare, quando non avevo un bugiardino dell’agire, scritto con indicazioni e controindicazioni. Buon senso, ripetendolo due volte, come a ribadire un concetto che invece mi spiazzava. Sono solo un genitore, mi dicevo, destinato ad accudire due tra gli elementi più destabilizzanti dell’esistenza, con l’aggravante dei difetti di fabbricazioni della mia anima e della paura. Che senso è il buon senso? Aspettavo risposte e lui mi indicava una strada dentro cui potevo anche perdermi. Eppure il suo era un richiamo alla misura, all’equilibrio, allo stare, al sentire, al fare, o al non fare. L’invito a trovare qualcosa che non fosse necessariamente dentro il senso comune, spesso mala pianta di pensieri deformi se pur collettivi, ma che andasse oltre per rispondere a un’istanza antica, non solo dell’essere madre, ma che ora la maternità mi sollecitava con urgenza, perché richiamo alla cura, esortazione a riconoscere l’oggetto dello sguardo e ad agire come fanno i giusti. Anche se lo diceva a un ramo torto, come mi sentivo io. Non vale, ovvio, solo per la genitorialità. Il buon senso dovrebbe essere il mantra che ci attraversa di questi tempi qui. Come quello di Gennaro, il padre di “Napoli Milionaria”, che ho sentito l’urgenza di rileggere in questi giorni, Gennaro che tornato dalla guerra vede il suo mondo incattivito e le anime ridotte a macerie, a narrazione drammatica del tutto è perduto. Il padre che non grida, non giudica, non condanna, esercita la cura, accoglie e sa che la ricostruzione non dipende solo da lui che offre, attraverso se stesso, una strada e il dolore calmo dell’attesa, dentro la notte. E ora, come dal pediatra sia arrivata a Eduardo, non lo so. Sarà che siamo legati dall’umano fragile, sarà che le voci buone dicono tutte la stessa cosa, richiamano allo stare, sia che si debbano crescere figli da affidare al mondo, o a cui affidare il mondo con tutte le nostre responsabilità di predecessori, sia che si debba ricostruire una comunità smarrita, pezzo pezzo, con amore, tornando al buono, tornando al buon senso sepolto dalle macerie, scavando dentro questo tempo che non si muove lineare, come piace a noi, ma che arriva, spariglia e disaccomoda.

Tizianeda

Con amore, se possibile

C’è un film americano  che si intitola “Il lato positivo”. I due protagonisti che sono ovviamente bellissimi, hanno un groviglio di problemi dentro la testa. Lui è bipolare, un giorno vede la moglie con un tipo sotto la doccia e il dolore e la malattia lo portano dritto dritto dentro una clinica psichiatrica. Lei, l’altra protagonista, è una “vedova dinamica”, come scrive Netflix, che è un modo discreto di chi cura le trame, per dire che dopo la morte del marito, la poverina, per il troppo dolore, ha avuto una quantità oltremodo considerevole di amplessi occasionali (“data alla promiscuità” secondo Wikipedia). Quando lui esce dalla clinica conosce lei. Tra i loro mondi disconnessi con il reale, si crea un collegamento empatico, al punto che i due bellissimi fanno un patto. Lei aiuterà lui a riconquistare la moglie ormai ex e lui parteciperà con lei a una gara di ballo.  I due, nel ballo, come nella vita, sono un disastro. Fuori ritmo, scoordinati come calzini spaiati,  capricciosi, a volte furenti, arresi, poi gasati, poi di nuovo arresi. I movimenti non sono fluidi,  rovinano  a terra, stanno sull’orlo dell’abisso. Eppure continuano, studiano il ritmo in sincronia con la musica, coordinando i loro passi dislessici dominati da fragilità e perdite. Perché  ci si muove per come è capitata la vita, come se lo scheletro e i muscoli, avessero una memoria inconsapevole che non cancella i fatti accaduti e il dolore che li ha sostenuti. Dei due ci si innamora, così come della loro fatica di stare tra le cose. E in questo sperdimento che la vita offre come una tavola apparecchiata,  nel groviglio di mancanze e sottrazioni, c’è un’attesa vigile e disperata di chi aspetta che la notte passi, che la paura si slabbri perdendo la sua identità mostruosa, che si riuniscano i lembi dell’umanità scucita, imparando a danzare su un bordo stretto e ferito,  non da soli, riconoscendosi, accogliendosi,  con amore,  se  possibile.

Tizianeda

Il coraggio fa novanta

Mia madre nel giorno del suo novantesimo compleanno, ha dichiarato a figli, nipoti, generi e nuore, che ha cambiato idea circa l’opportunità di andare alla casa del Padre, cioè di morire. Ha deciso che il Padre, tanto pervicacemente nascosto nei cieli, può anche aspettarla, giacché lei non soltanto ha ancora voglia di vivere, ma questo permanere le piace, nonostante gli assenti che la esiliano, a tratti, dentro angoli di tristezza. Ha capito, mia madre, nel giorno del suo compleanno, che le piace l’amore che riceve e da par suo restituirlo. Quel giorno, ossia il venti gennaio, sin dalla prima mattina ha risposto alle molte telefonate in cui amici e familiari la salutavano con lo stupore verso chi ha attraversato due secoli e nove decenni, resistendo ai colpi e contraccolpi di un’umanità sballottata tra i viaggi della Storia, crepuscoli siderali ed esistenziali. Un’umanità che oggi appare sul bordo dell’abisso, lo stesso bordo su cui lei sembra passarci sopra, con la stessa levità di Mister Magù. Del resto, come da lei dichiarato, è nata nel medesimo anno della resistente Settimana Enigmistica, rivista che ancora oggi acquista e con cui olea gli ingranaggi sinaptici, anche se non ha più l’amica amata Graziella, con cui si confrontava e gareggiava, spesso, con il settimanale in mano, passeggiando le domeniche nelle ore vuote della città. Mia madre, nel giorno del suo compleanno, ha ricevuto così tanti fiori e piante che l’hanno fatta gioire come una bambina nella notte di Natale. “Minchia mamma, neanche al tuo funerale avrai tutti ‘sti fiori”, le ha detto la figlia di mezzo, suscitando la ilarità della madre, che ormai lasciata l’ansia delle regole e dell’educazione da impartire, si concede la libertà di ridere anche delle sconcezze e di non turbarsi delle parolacce proferite da questa figlia che, in fondo, nel suo essere naif e inquieta, non è poi tanto dissimile dalla madre. Anche se una recita rosari e l’altra sgrana la vita con diversi metodi non sempre contemplativi. Nel giorno del suo compleanno la madre, nonna e zia con il discorso proferito con la semplicità dei longevi, ci ha regalato l’amore per i mattini e la meraviglia dello stare insieme. Perché nelle vertigini di questa giostra – in cui giochiamo a dadi con il dolore e le perdite, con le storture delle nostre anime, in cui la geografia interiore del corpo fa male nei punti sensibili e violati – ci artigliamo alla benedizione degli istanti che ci connettono al lato buono e fragile dell’umano. Ancora di più se a ricordarcelo è una donna accartocciata dalla vecchiaia, nata nello stesso anno e appena tre giorni prima della Settimana Enigmistica.

Tizianeda

Carapace

Mi stiro più che posso, come le tartarughe che allungano il collo attaccato al carapace. Faccio scivolare sulla scrivania di Domenico, il figlio liceale, la spremuta di arance Calabresi. Non dovrei entrare,  è a scuola, anche se la scuola si è trasferita nella sua stanza da due anni. Sto per uscire mentre  noto il suo outfit-dad pigiama inclused e un   calzino nero abbandonato dall’era mesozoica sul pavimento che mi suscita interrogativi filosofico-esistenziali, ma  taccio. Permane il silenzio, come un fioretto da mantenere. È a scuola mi dico, non posso interagire ed esco. Un’altra stanza è occupata da Agnese, l’universitaria. Anche lei fa lezione attraverso il pc. Novanta metri quadri, due dad, due gatte, noi due genitori.  Sembra un Rave, però non puoi cantare, ballare, fare casino, bere e drogarti. Anche le gatte si sono adeguate. Un po’ meno i vicini del piano di sotto, trasferiti da poco, che urlano sempre, come se fossero tutti sordi e penso che se Dio dovesse fare un contest per trovare nuove piaghe per gli umani, tra i vincitori ci sarebbero i vicini  che parlano urlando e dormono poco. Poi penso a questa roba strana che è la vita, che ti sembra che hai tutto sotto controllo e invece all’improvviso la scuola si trasferisce a casa tua, il vocabolario del quotidiano cambia, hai sempre  in faccia mascherine che ti irritano la pelle,  qualcosa di silente  si è insinuato nei pensieri, l’appartamento vuoto del piano di sotto si riempie di The Others urlanti. Non so trovare ancora il volto di questo tempo, che ci ha fatto arretrare dentro carapaci dalla consistenza esistenziale, così come non so se i miei vicini smetteranno di urlare perché saremo noi a chiederglielo. Ci sono  variabili incontrollabili e non previste, con cui devi scendere a patti e trovare strategie. Non  è facile quando la tendenza è alzare il volume della voce che non fa distinguere il senso delle parole.  Perché il rischio è che stiamo diventando un po’ tutti i the others degli altri e non è facile trovare un nuovo lessico della vicinanza, quando la vita progetta  distanze in cui lo spazio vuoto è abitato dalla paura e dalla perdita di  senso.  Forse dobbiamo infilarci dentro questa frattura che delinea un prima e un dopo. Entrarci con tutto il coraggio di cui siamo capaci, come la testa dell’ostetrica tra le cosce di una futura madre e con i guanti insanguinati e la mascherina, sorridere a quel mistero lì, anche se i tuoi vicini di casa urlano e non sai perché.

Tizianeda

Sul bordo

Sono a casa di mia madre, cerco una foto. Le fotografie sono conservate disordinatamente dentro scatole di biscotti di latta, di quelle che si usavano regalare un tempo, quando si andava a visita nelle case degli altri.  Una volta era un andirivieni di scatole di latta piene di dolci industriali,  di buona qualità, per non sfigurare. Quando sul fondo restavano le briciole, i contenitori non si buttavano. Vi si custodivano biglietti, lettere, appunti e fotografie. Guardo i miei genitori giovani, poi di mezza età, poi bambini e poi me e i miei fratelli adolescenti e neonati e i miei nonni sposi,  anziani, vecchi poi ancora giovani,  gli zii nel vigore degli anni, foto di trisavoli,  volti sconosciuti, prozie, le cugine di mia madre, Teresa e Iole, nel fienile, pettinature anni ’50,  capelli raccolti in trecce e code,  vestiti che cambiano a seconda delle mode, osservo il tempo non lineare dei morti e dei vivi che mi sfila rapido tra le dita. La foto che cerco sembra perduta in questo impasto disordinato di facce. C’è una celebrazione strana dentro il miscuglio alchemico di immagini fissate in un fotogramma. Sembriamo, sulla carta lucida,  resistenti all’accadere delle cose, al dopo che è venuto e nessuno di noi sapeva, nei volti e nelle posture che rimandano a una nostalgia di immortalità. Le fotografie familiari sono una geografia di attimi felici, la festa dello stare insieme. Il resto, il banale o l’irraccontabile,  non ci sono.  Afferro la fotografia di una ragazza, i capelli neri e ricci, sorride, l’abito scuro. “Chi è” chiedo a mia madre. “Come chi è. È tua nonna”. Non ci credo. La nonna Bianca non è mai stata giovane, ha avuto sempre i capelli come il latte e una crocchia sulla nuca, era piccola e accartocciata, sorrideva poco, presa come era dagli eventi della vita. “Ha anche le tette, qui” le dico.  Il poi non c’è nella foto da ragazza di mia nonna. Non c’è la guerra, le perdite, le malattie, dodici o tredici fratelli e sorelle a cui badare, il matrimonio quando i sui capelli erano di un grigio precoce. Poi ricordo che sono qui da mia madre per una sola foto, anche se sono stata sommersa da  una straziante bellezza senza parole e suono.  La trovo, alla fine, dopo cento e più volti con cui ci siamo guardati. Luglio 1977. Così è scritto sul retro. Una foto felice, anche questa.  È al mare, c’è una ringhiera a cui noi villeggianti siamo appoggiati, ho un  vestito rosso, non ho più gli incisivi e aspetto quelli nuovi, sorrido a chi ci sta fotografando, il tempo non esiste, le cose non sono accadute. Nessuno di noi – fermi in un gesto qualunque, distratti e fiduciosi, come se quell’attimo fosse eterno – poteva sapere che quell’istante estivo, molti anni dopo, sarebbe stato cercato per il bisogno antico e misterioso  di raccontare  le nostre esistenze. Sul bordo a trattenere abissi, a trattenere amore.

Tizianeda

Mentre osservo

Mia sorella da qualche mese si è trasferita nello stesso palazzo in cui abito io. Che poi è quello dove siamo nate e cresciute e dove vive anche la mamma vecchietta. Ora che è qui, ci scambiamo i vestiti, come quando eravamo ragazze e suoniamo alle porte l’una dell’altra. Io scendo di un piano, mentre lei le scale le percorre salendo. Quando vado giù mi piazzo sul divano o le tengo compagnia in cucina, poi mia sorella prende tutti i pacchi di biscotti che ha e insiste perché li mangi. Io dico sempre di no, solo che vince il desidero e assaggio prima mezzo biscotto, poi un altro mezzo e mezzo alla volta finisco per mangiarmene più di uno. L’altro giorno ha tirato fuori da una vecchia busta, delle lettere anni ’90 scritte da me a lei. Le aveva conservate e le ha trovate per caso tra le carte prese durante il trasloco. Sono lunghe lettere strampalate di auguri, sfoghi amorosi di un’ironia melodrammatica, che mi ha fatto rivalutare la me adolescente, che nella mia memoria attuale è sempre malmostosa e arrabbiata. Ma soprattutto rivelano nel loro essere naif e a tratti folli, l’amore intimo tra sorelle, che incurante delle profonde e incolmabili diversità, si accomoda tra le pieghe dei giorni, offrendo delle possibilità di salvezza da se stessi e dagli eventi, educandoci anche all’idea di una comunità, in questo caso di due persone, di cui prendersi cura e a cui rivolgersi, quando pensi che il mondo e tu con lui, siate perduti.
Mentre osservo in questi mesi l’andamento degli eventi e cerco di capire cosa ha provocato, dentro tutti noi, la frattura ancora aperta di questi ultimi due anni, mi accorgo che mi aggrappo sempre più al piccolo, all’impercettibile, al gesto minuto, o a quelle apparizioni improvvise che si offrono dentro giornate faticose, ma che mi restituiscono il senso di umano che a tratti si sbiadisce perdendo colore. Tutto questo mio sostare è un atto di resistenza all’incomprensibile e alla paura, pensando, forse ottusamente, che il buono dell’esistenza possa essere custodito lì. Come nelle vecchie lettere di un’adolescente sciocca che lascia messaggi alla lei del futuro per poterla rivalutare. O come nel sorriso da Buddha illuminato di un bambino, rivolto a una me sconosciuta che lo guarda. E lo fa mentre attraversa la strada con la madre, così pieno di fiducia e inconsapevole della scintilla che è stato capace di innestare in una donna chiusa in una vettura, a tratti più tentata dal cinismo e dalla disillusione che dalla meraviglia.

Il disegno è di Fabiana Canale (a proposito di meraviglia). Tratto dalla sua pagina Fabiana Canale – Arteterapia e SoulCollage a Firenze

Tizianeda

I giorni dei morti

La morte è un incontro. Alquanto inevitabile, direi. Ché se nascere è una concatenazione casuale di elementi, morire è un fatto certo. La prima volta che l’ho incontrata avevo nove anni. Nel mio caso, quel giorno, trovai mio cugino e non i miei genitori ad attendermi all’uscita di scuola, la mia casa piena di presenze, cibo dentro teglie che non avevo mai visto prima, una lacrima, bloccata dalla peluria, sul volto di mia madre. La nonna Ines non c’era più. La sua assenza aveva modificato traiettorie. Abbiamo molti modi per pronunciare la parole “morte” che tanto ci spaventa, come se fosse una scampagnata, un volo o una funzione meccanica di cui non ci importa nulla. Anche io l’ho fatto ora. Non esserci più, dipartire, trapassare, passare a miglior vita, andare in cielo, scomparire, defungere, spegnersi. Da sempre l’uomo celebra la morte, come con le divinità temute. Ma se lei è il più sensazionale e scontato degli eventi umani, l’amore per chi muore è trama poetica dell’esistenza, in altre parole, mancanza e ricordo. Inventiamo altari per i morti, accendiamo lumi e lasciamo il pane sui ripiani, come le briciole sui davanzali per gli uccelli di passaggio, acquistiamo fiori, mangiamo dolci troppo zuccherati, lasciamo che siano le sedie mancanti attorno alla tavola a farsi presenza immateriale. I morti li sogniamo a volte. Ci raccontiamo che vengono a trovarci per nostalgia, eppure siamo noi che li cerchiamo, specie quando la vita diventa un gioco troppo faticoso per trovare risposte razionali. In fondo i morti, servono ancora ai vivi, che nel guardare nelle proprie profondità, trovano costellazioni per orientarsi. E in fine loro ci osservano, con occhi lontani, dalle fotografie, di cui ancora le case delle madri sono piene, per una devozione antica. E ci piace pensare, per quel bisogno tutto umano, che nel loro giorno, vengano a guardarci mentre dormiamo, per bisbigliare parole dentro le orecchie, per ricordarci di vivere, di amare, di continuare a contemplare tutto questo mistero.

Tizianeda

Prove tecniche

Tutti

Quando ero bambina, faceva prove tecniche di morte e di resurrezione. Mi schiantavo, sentivo dolore , chiudevo gli occhi e sparivo. Neonata piangevo con teatrale parossismo e il mondo si fermava. Andavo altrove, il tempo di riprendermi dal troppo. Negli anni mia madre, aveva acquisito l’impassibilità di Socrate con il bicchiere di cicuta in mano. Rassicurava gli astanti non abituati ai giochi di prestigiazione della mia mente. “Non vi preoccupate, fa sempre così, poi torna”, come se fosse un colpo di tosse. E in effetti non l’ho mai delusa mia madre. Tornavo, sempre. Poi ho perso i super poteri dello svenimento infantile corredato di zucchero al risveglio e invece di tele-trasportami, sognavo, per noia. L’altrove era meglio della sequenza dei giorni. Sogni banali, per una bambina senza grandi talenti, che però trovava ingiusto che si morisse nella vita, o che succedessero le infelicità e altre drammatiche faccende umane, che subiva il fascino tragico delle storie di Buzzati o di signori come lui, che la maestra faceva leggere a scuola. Perché nel libri puoi morire, ma poi ne prendi un altro e vivi un’altra storia.Ora non so perché mi è venuta in mente questa faccenda di morte e resurrezione. Sarà che è settembre, che è il mese inventato dagli umani per avere un pretesto di malinconia. O perché ho scattato una foto alla mia faccia e ho visto il naso di mia madre. Si cresce con dentro i volti dei genitori, che il tempo partorisce su quello di noi figli. O perché penso spesso a quella bambina che aveva trovato il suo modo personale di costruire nidi sugli alberi, per sottrarsi al caos che si muoveva sotto. Quella bambina che ancora oggi, a volte, mi fa dannare e mi invoca dal sottosuolo e che devo tranquillizzare raccontandole storie di meraviglia, di morte e resurrezione. Allora le dico di resistere, almeno per il gusto di vedere, un giorno, non solo i cambiamenti e i colpi di teatro della vita, ma anche il materializzarsi, come un gioco di prestigio, del naso di sua madre sul suo volto.

Tizianeda

Eccomi eccomi vengo

Mia madre parla della morte come se raccontasse una storiella divertente. Per il suo funerale ha scelto la colonna sonora. La canzone d’ingresso in chiesa si intitola: “Eccomi eccomi vengo”. Lo ha scritto su un biglietto custodito in un cassetto. Per lei la vita e la sua fine sono eventi scontati e lineari, come la vecchiaia, il tempo che passa, le belle canzoni, sposarsi, fare figli, imparare le tabelline, i padri che vanno alla guerra, il corpo che cambia, i pidocchi da sfollati, gli amori che iniziano e quelli che finiscono, le malattie, le nascite, il rosario la sera, le paste la domenica, il mare a luglio, il salotto con la porta chiusa a chiave, doppia mandata rafforzativa del concetto. La predica a Don Marco non l’ha scritta, non sta bene dice, anche se io la esorto a farlo ché quel giorno non la può ascoltare. Ridiamo. Non solo della morte, ma anche della vita. Ché io mica l’ho capita la vita e allora se rido con mia madre, mi pacifico di ogni mia mancanza e difetto di nascita. E a volte lei annusa che ho ‘sti dubbi e punti interrogativi nella testa e smarrimenti e mi interroga e io cambio discorso, come i canali della televisione, perché non so come spiegare, perché lei mi sembra da proteggere e basta. Così si parla d’altro, tipo il suo funerale, le sue amiche, il libro che sta leggendo, il corpo che le duole a portarselo sempre appresso e parla, parla tantissimo, che non so dove trova tutte le parole e il fiato per tirarle fuori. L’ascolto, a volte mi assento, a volte mi chiedo che creatura è mia madre. Che creature diventano le madri quando invecchiano e il corpo si accartoccia. Non lo so. Allora sto con lei e giochiamo, siamo due bambine che lanciano dadi sul tavolo. Il tempo diventa un’architettura che capovolge le regole dello spazio. Ridiamo.

Tizianeda