Il bambino del terzo piano

Il bambino del terzo piano, tutti i giorni versa acqua in un bicchiere e la lancia dal balcone giù nel cortile. Riempie, si affaccia, lancia, poi ricomincia, anche per ore. Lo capiamo dal modo ritmico in cui l’acqua rovina, con il rumore che si sparpaglia sul pavimento. Lui osserva il precipizio, soddisfatto e serio e sembra non saziarsene mai. Il proprietario del cortile una sola volta si è arrabbiato, gli ha gridato, da sotto, di smettere, ma poi ha capito e ora lo lascia fare. Il bambino del piano di sotto, non si chiama Sisifo, però a me fa pensare a lui. Anche se Sisifo spinge un masso da portare in cima alla montagna, che puntualmente precipita giù, nella litania incessante e solitaria dell’inutilità della fatica. Il destino di un condannato alla ripetizione dello sforzo verso la vetta, che ci costringe a interrogarci sull’assurdità dell’esistenza. Il bambino del terzo piano, non spinge massi. Ha un bicchiere, l’acqua e un cortile che non si riempirà mai, che non diventerà una piscina, un lago, il mare, il cielo riflesso. Ho pensato come quella rovina incessante mi rimandasse alla voce di un universo indifferente al richiamo degli umani, fatti d’acqua e di macigni nel petto. Poi è successo che un giorno, il bambino del terzo piano, tra i lanci, si è concesso una pausa da quel rito, voltandosi verso di me che stavo sul balcone accanto e in una sospensione degli accadimenti, mi ha sorriso e io a lui. Pochi secondi di armistizio per entrambi in cui due mondi lontanissimi, in quell’incrocio di occhi, hanno condiviso solitudini e senza saperlo i propri nascosti dolori. E ho pensato che se c’è un cielo sopra di noi indifferente agli sforzi degli umani, in questa esistenza orizzontale, tuttavia, bastano due occhi che si incrociano per un frammento di vita, dentro un alfabeto di silenzio, che ci fa rivolgere proprio a quel cielo, che ha più bisogno di noi umani, così fragili, segnati dai nostri fallimenti e da un incessante bisogno d’amore, di quanto noi di lui.

Tizianeda

Dieci anni di me e di te

Fatto sta che precisamente, oggi proprio oggi, sono esattamente, compiutamente, tignamente dieci, dico dieci annetti di questo bloghettino che è iniziato tutto carino, bellino, garbatino. Che c’avevo dieci anni in meno e ora dieci vite in più, una per ogni anno aggiunto che mi pare che tanto tantissimo fu in questi tempi scapestrati, a volte bistrattati, ma minchia belli se belli e minchia difficili se difficili. Ma forse più difficile è stato il prima del blog, che non lo sapevo e parecchio non lo sapevo, che il prima lo capisci giusto appunto dopo e a volte molto dopo. Ed è questa la vita nostra umana e disumana, che non ti capaciti che cambi, che cambia, che cambiamo in questa coniugazione esistenziale. E che stupidore bello iniziare questo gioco, che ve lo scrivo come viene, tutto sgrammaticato, per questo scoppio di troppa vita extrasistolica. E c’è qui in questo bloghettino, il raccontato che si attorciglia, tutto si attorciglia come l’edera al cuore, con il bisogno spaccato di annaffiare i buchi neri con la luce. E grazie grazie grazie amici e amiche. Abbaiate coraggio, come i cani la notte abbaiatelo il coraggio, meglio se non soli, ma con uno o più accanto che se cadi con il male di buccia di pelle assanguata, c’hai l’accanto che non ti inciampa e continui di anno in anno e i figli crescono e le mamme imbiancano e i padri non lo dice la canzone, ma siamo qui come lumi accesi alle finestre a cercare di capire questa strada trafficata, di incroci e semafori rotti e automobilisti confusi e strisce pedonali scolorite. E questo è il quanto di una delle tante particelle di vita. Una minuscola è racchiusa in questo blogghettino. E ora soffio su questa prova di resistenza, con le penne colorate accucciate nei buchi neri a consolarli per ogni tradimento di luce. Spegniamole ‘ste dieci candeline soffiamo come il vento sotto le gonne, soffiamo come le madri e i padri sui cibi bollenti dei bambini. Restituiamo aria all’aria, perché non sia mancanza, ma sfamare e ringraziare.

Tizianeda

Prosciolte

Quando la nonna Bianca venne “prosciolta dall’obbligo dell’istruzione elementare” della scuola del Comune di Melicuccà, era il 1905. Prosciolta, come se l’istruzione fosse un’accusa di cui finalmente liberarsi. Era brava la nonna a scuola, specie in matematica con quel dieci svettante sugli altri voti, più che nei lavori donneschi, cui si dedicò comunque, una volta uscita dalle aule. Ché a continuare gli studi fino alla laurea, tanto, ci pensavano i fratelli. E sì che lei veniva da una famiglia che i libri, come il pane, non mancavano, affezionato com’era, il padre Carlo, alle parole, che nutrivano il pensiero e la malinconia. Ma il destino delle donne, anche in una casa illuminata, quello restava. Dentro le stanze, a lasciare che i fratelli studiassero, partissero, vivessero la vita, quando non interrotta dal padreterno o dal bisogno di altri uomini di sconvolgere i confini delle Nazioni, facendo della gioventù carne fresca per le bare e pianto per le madri. La nonna Bianca aveva delle sorelle, prosciolte anche loro dalla scuola, ma non dai doveri delle donne, che creavano un solco largo abbastanza, da dividere i destini tra maschi e femmine, tra la vita fuori e quella dentro.
La nonna Bianca non l’ho mai vista giovane, se non molti anni dopo la sua morte, in una foto nascosta in una scatola di latta, tra i ricordi degli assenti. Da vecchia sorrideva poco e leggeva molto seduta nella penombra accanto all’anta della porta-finestra semi aperta. Mi piaceva la nonna e io piacevo a lei, spaventata com’era che mi potessi sgretolare nel vedermi fragile e vinta dai sussulti dell’anima. Non so se ha mai pensato a un destino diverso per noi nipoti femmine, un destino riversato nella vita, che in parte si era costruita la figlia, mia madre, con l’ostinazione dello studio e con lei le sue cugine. Parlava poco mia nonna e ci intratteneva con i suoi giochi di bambina, di quando stava attorno al braciere con le sue sorelle e fratelli e il mondo ancora, non era stato frantumato dalle vicende della natura e degli uomini. Ci guardava come chi ama, con il pensiero del nostro futuro addosso. Ci guardava come ora guardo la sua pagella del 1905, in un rimbalzo palindromo del tempo, con la pronipote Valentina. Penso a mia nonna, penso alle donne prima di noi, che chissà cosa avrebbero voluto e non hanno potuto. Guardo Valentina che la nonna Bianca l’ha conosciuta attraverso i nostri racconti. Ci capiamo e sorridiamo.

Tizianeda

Geografie temporali

Il giorno di Pasqua si partiva, genitori e fratelli, con la Fiat 127 verde, per attraversare quella roba esistenziale che è l’autostrada Salerno – Reggio Calabria. Un’estensione atemporale della geografia calabra, per intenderci. Se c’era nebbia, cosa che accadeva spesso, esploravi tutta la tua religiosità, raccomandandoti a santi, madonne, Dio, Gesù e a quant’altro immaginavi in cielo, anche se con la nebbia il cielo non lo vedevi. Poi si arrivava a Melicuccà, per un miracolo del destino. Si arrivava nel paese delle prozie Lena e Lulù, le sorelle della nonna Bianca, il paese appoggiato sull’acqua, che la senti scorrere, ma non la vedi, ché la malinconia non è solo roba degli uomini, ma anche dei paesi. Melicuccà che ha la voce degli oliveti ripiegati, che l’assediano. Il paese di Lorenzo Calogero, bloccato e senza tempo tra le anse degli alberi, anche se l’olivo non è un albero, ma un essere trascendente, proprio come lo sono i poeti. Appena arrivati, scendevamo per le scale di pietra, attraversavamo il giardino e entravamo nella casa voluta, un tempo, dall’ ostinazione del bisnonno, con le chiavi nella toppa ad aspettarci, la tavola apparecchiata nella sala da pranzo, il braciere rimestato, il profumo di carne e strutto, gli occhi dei morti a vegliare in tutte le stanze, gli affacci sul campanile, l’umidità spappola ossa, Bettina e le zie governanti della cucina, delle stanze e delle storie che scricchiolavano sotto i piedi e si nascondevano nei cigolii delle porte, nei materassi di lana, nel palmento, nelle volte esagonali, nei panni appesi alle canne di bambù, nella soffitta che non ci potevi salire perché era pericoloso. Poi le storie apparivano, attorno al braciere, dopo il pranzo pasquale, con la coperta e il tepore condivisi. Nella stanza, uno alla volta, arrivavano i morti. Ritornavano, con la resurrezione orale della memoria, di cui le zie erano custodi. Noi stavamo lì al caldo, e le ascoltavamo, come al cinematografo, con gli avi che riempivano uno a uno la stanza, sfuggiti ancora una volta alla dimenticanza. Tutti in silenzio, vivi e morti, nella preghiera dell’ascolto.
Oggi la casa è ancora lì. Sembra solo più stanca e una stanza ha la porta chiusa a chiave, ché il pavimento è sfinito ormai e non regge i pesi. L’acqua scorre e lava ché si muore e si rinasce, sempre. Le zie non ci sono più da un po’. Ci hanno lasciato i morti in attesa, che ci guardano da ogni angolo. Guardano noi, che rispetto al passato siamo la storia presente, la seconda storia, a guardare quello che loro non hanno visto, a fare quello che loro non hanno potuto, soprattutto le donne. Ci ammoniscono, chiedendoci di credere nelle possibilità di rinascita, nella memoria e nel tempo presente. Per i morti e per i vivi.

Tizianeda

Per amore dell’umano

Quando facevo la prima elementare, in classe c’era un bambino con i capelli ricci e i denti grandi. E c’era un altro bambino alto e magro. Almeno oggi, quando ricordo, li rivedo così. Il bambino alto si divertiva a infastidire l’altro bambino, quello con i denti grandi e i ricci. Qualche volta lo spintonava e lo picchiava. Sembrava che la cosa gli piacesse molto, come piace quello che ci fa sentire potenti. Il bambino alto era bravo a scuola, forse il più bravo e brillante. Il bambino altro, no. Faticava con i numeri e le lettere, così come con gli altri bambini. Quando il bambino alto picchiava il bambino altro, mi scaraventavo addosso. Così a essere picchiati finivamo per essere in due. Poi per la rabbia di quel gesto ingiusto, mi infilavo sotto il banco in preda a un umore buio e a pensieri ingarbugliati. E finiva così, con me torva, il bambino alto che continuava ad andare bene a scuola e il bambino altro dentro la sua noce fragile. Non so che fine abbiano fatto i due bambini, che adulti sono diventati nel frattempo, se la vita e gli incontri, o un bravo analista li ha aggiustati. Se chi maneggiava il male, a dispetto dell’età, si è fatto agnello o ha pagato con la solitudine l’assenza di empatia, e se l’altro a furia di prenderle ha iniziato ad attraversare la vita come se non gli importasse, o se il dolore, al contrario, ha generato grazia. Eppure a volte penso ai due bambini e a me arrabbiata sotto il banco. Penso al male, pronto a germogliare, cucito come un segreto dentro le tasche, ma anche al fuoco di chi non arretra per amore dell’umano, quando i contorni sono inghiottiti da nebbie grigie. A questo penso, aggrappandomi al buono dei gesti degli altri. E pazienza se, alle domande della bambina nascosta sotto il banco e che a tratti devo rassicurare, a volte, non so rispondere.

Tizianeda

Il senso buono

Volevo che al pediatra rimanesse una traccia di loro, un oggetto, bello, da toccare e vedere. Per salutarlo e ringraziarlo di essersi preso cura dei miei figli. Perché allo scoccare del sedicesimo compleanno, ti viene assegnato il nuovo medico, dei figli fatti grandi dal tempo caino che tutto cambia e che non si muove lineare, ma spariglia e disaccomoda. Ma tant’è. Ho scelto una teiera in ceramica e una ciotola con cui sorseggiare bevande lente. Sarà che a lui ho affidato per sedici anni due creazioni, nate dall’impasto di elementi, energia, calore, attesa, trasformazione della materia, corpo che si fa forno per accogliere speranze alchemiche. Un richiamo d’oriente, perché per noi è stato come un Buddha che esortava alla calma e al buon senso. “Buon senso signora”, ha risposto spesso, alle mie domande sul cosa fare, quando non avevo un bugiardino dell’agire, scritto con indicazioni e controindicazioni. Buon senso, ripetendolo due volte, come a ribadire un concetto che invece mi spiazzava. Sono solo un genitore, mi dicevo, destinato ad accudire due tra gli elementi più destabilizzanti dell’esistenza, con l’aggravante dei difetti di fabbricazioni della mia anima e della paura. Che senso è il buon senso? Aspettavo risposte e lui mi indicava una strada dentro cui potevo anche perdermi. Eppure il suo era un richiamo alla misura, all’equilibrio, allo stare, al sentire, al fare, o al non fare. L’invito a trovare qualcosa che non fosse necessariamente dentro il senso comune, spesso mala pianta di pensieri deformi se pur collettivi, ma che andasse oltre per rispondere a un’istanza antica, non solo dell’essere madre, ma che ora la maternità mi sollecitava con urgenza, perché richiamo alla cura, esortazione a riconoscere l’oggetto dello sguardo e ad agire come fanno i giusti. Anche se lo diceva a un ramo torto, come mi sentivo io. Non vale, ovvio, solo per la genitorialità. Il buon senso dovrebbe essere il mantra che ci attraversa di questi tempi qui. Come quello di Gennaro, il padre di “Napoli Milionaria”, che ho sentito l’urgenza di rileggere in questi giorni, Gennaro che tornato dalla guerra vede il suo mondo incattivito e le anime ridotte a macerie, a narrazione drammatica del tutto è perduto. Il padre che non grida, non giudica, non condanna, esercita la cura, accoglie e sa che la ricostruzione non dipende solo da lui che offre, attraverso se stesso, una strada e il dolore calmo dell’attesa, dentro la notte. E ora, come dal pediatra sia arrivata a Eduardo, non lo so. Sarà che siamo legati dall’umano fragile, sarà che le voci buone dicono tutte la stessa cosa, richiamano allo stare, sia che si debbano crescere figli da affidare al mondo, o a cui affidare il mondo con tutte le nostre responsabilità di predecessori, sia che si debba ricostruire una comunità smarrita, pezzo pezzo, con amore, tornando al buono, tornando al buon senso sepolto dalle macerie, scavando dentro questo tempo che non si muove lineare, come piace a noi, ma che arriva, spariglia e disaccomoda.

Tizianeda

Con amore, se possibile

C’è un film americano  che si intitola “Il lato positivo”. I due protagonisti che sono ovviamente bellissimi, hanno un groviglio di problemi dentro la testa. Lui è bipolare, un giorno vede la moglie con un tipo sotto la doccia e il dolore e la malattia lo portano dritto dritto dentro una clinica psichiatrica. Lei, l’altra protagonista, è una “vedova dinamica”, come scrive Netflix, che è un modo discreto di chi cura le trame, per dire che dopo la morte del marito, la poverina, per il troppo dolore, ha avuto una quantità oltremodo considerevole di amplessi occasionali (“data alla promiscuità” secondo Wikipedia). Quando lui esce dalla clinica conosce lei. Tra i loro mondi disconnessi con il reale, si crea un collegamento empatico, al punto che i due bellissimi fanno un patto. Lei aiuterà lui a riconquistare la moglie ormai ex e lui parteciperà con lei a una gara di ballo.  I due, nel ballo, come nella vita, sono un disastro. Fuori ritmo, scoordinati come calzini spaiati,  capricciosi, a volte furenti, arresi, poi gasati, poi di nuovo arresi. I movimenti non sono fluidi,  rovinano  a terra, stanno sull’orlo dell’abisso. Eppure continuano, studiano il ritmo in sincronia con la musica, coordinando i loro passi dislessici dominati da fragilità e perdite. Perché  ci si muove per come è capitata la vita, come se lo scheletro e i muscoli, avessero una memoria inconsapevole che non cancella i fatti accaduti e il dolore che li ha sostenuti. Dei due ci si innamora, così come della loro fatica di stare tra le cose. E in questo sperdimento che la vita offre come una tavola apparecchiata,  nel groviglio di mancanze e sottrazioni, c’è un’attesa vigile e disperata di chi aspetta che la notte passi, che la paura si slabbri perdendo la sua identità mostruosa, che si riuniscano i lembi dell’umanità scucita, imparando a danzare su un bordo stretto e ferito,  non da soli, riconoscendosi, accogliendosi,  con amore,  se  possibile.

Tizianeda

Il coraggio fa novanta

Mia madre nel giorno del suo novantesimo compleanno, ha dichiarato a figli, nipoti, generi e nuore, che ha cambiato idea circa l’opportunità di andare alla casa del Padre, cioè di morire. Ha deciso che il Padre, tanto pervicacemente nascosto nei cieli, può anche aspettarla, giacché lei non soltanto ha ancora voglia di vivere, ma questo permanere le piace, nonostante gli assenti che la esiliano, a tratti, dentro angoli di tristezza. Ha capito, mia madre, nel giorno del suo compleanno, che le piace l’amore che riceve e da par suo restituirlo. Quel giorno, ossia il venti gennaio, sin dalla prima mattina ha risposto alle molte telefonate in cui amici e familiari la salutavano con lo stupore verso chi ha attraversato due secoli e nove decenni, resistendo ai colpi e contraccolpi di un’umanità sballottata tra i viaggi della Storia, crepuscoli siderali ed esistenziali. Un’umanità che oggi appare sul bordo dell’abisso, lo stesso bordo su cui lei sembra passarci sopra, con la stessa levità di Mister Magù. Del resto, come da lei dichiarato, è nata nel medesimo anno della resistente Settimana Enigmistica, rivista che ancora oggi acquista e con cui olea gli ingranaggi sinaptici, anche se non ha più l’amica amata Graziella, con cui si confrontava e gareggiava, spesso, con il settimanale in mano, passeggiando le domeniche nelle ore vuote della città. Mia madre, nel giorno del suo compleanno, ha ricevuto così tanti fiori e piante che l’hanno fatta gioire come una bambina nella notte di Natale. “Minchia mamma, neanche al tuo funerale avrai tutti ‘sti fiori”, le ha detto la figlia di mezzo, suscitando la ilarità della madre, che ormai lasciata l’ansia delle regole e dell’educazione da impartire, si concede la libertà di ridere anche delle sconcezze e di non turbarsi delle parolacce proferite da questa figlia che, in fondo, nel suo essere naif e inquieta, non è poi tanto dissimile dalla madre. Anche se una recita rosari e l’altra sgrana la vita con diversi metodi non sempre contemplativi. Nel giorno del suo compleanno la madre, nonna e zia con il discorso proferito con la semplicità dei longevi, ci ha regalato l’amore per i mattini e la meraviglia dello stare insieme. Perché nelle vertigini di questa giostra – in cui giochiamo a dadi con il dolore e le perdite, con le storture delle nostre anime, in cui la geografia interiore del corpo fa male nei punti sensibili e violati – ci artigliamo alla benedizione degli istanti che ci connettono al lato buono e fragile dell’umano. Ancora di più se a ricordarcelo è una donna accartocciata dalla vecchiaia, nata nello stesso anno e appena tre giorni prima della Settimana Enigmistica.

Tizianeda

Carapace

Mi stiro più che posso, come le tartarughe che allungano il collo attaccato al carapace. Faccio scivolare sulla scrivania di Domenico, il figlio liceale, la spremuta di arance Calabresi. Non dovrei entrare,  è a scuola, anche se la scuola si è trasferita nella sua stanza da due anni. Sto per uscire mentre  noto il suo outfit-dad pigiama inclused e un   calzino nero abbandonato dall’era mesozoica sul pavimento che mi suscita interrogativi filosofico-esistenziali, ma  taccio. Permane il silenzio, come un fioretto da mantenere. È a scuola mi dico, non posso interagire ed esco. Un’altra stanza è occupata da Agnese, l’universitaria. Anche lei fa lezione attraverso il pc. Novanta metri quadri, due dad, due gatte, noi due genitori.  Sembra un Rave, però non puoi cantare, ballare, fare casino, bere e drogarti. Anche le gatte si sono adeguate. Un po’ meno i vicini del piano di sotto, trasferiti da poco, che urlano sempre, come se fossero tutti sordi e penso che se Dio dovesse fare un contest per trovare nuove piaghe per gli umani, tra i vincitori ci sarebbero i vicini  che parlano urlando e dormono poco. Poi penso a questa roba strana che è la vita, che ti sembra che hai tutto sotto controllo e invece all’improvviso la scuola si trasferisce a casa tua, il vocabolario del quotidiano cambia, hai sempre  in faccia mascherine che ti irritano la pelle,  qualcosa di silente  si è insinuato nei pensieri, l’appartamento vuoto del piano di sotto si riempie di The Others urlanti. Non so trovare ancora il volto di questo tempo, che ci ha fatto arretrare dentro carapaci dalla consistenza esistenziale, così come non so se i miei vicini smetteranno di urlare perché saremo noi a chiederglielo. Ci sono  variabili incontrollabili e non previste, con cui devi scendere a patti e trovare strategie. Non  è facile quando la tendenza è alzare il volume della voce che non fa distinguere il senso delle parole.  Perché il rischio è che stiamo diventando un po’ tutti i the others degli altri e non è facile trovare un nuovo lessico della vicinanza, quando la vita progetta  distanze in cui lo spazio vuoto è abitato dalla paura e dalla perdita di  senso.  Forse dobbiamo infilarci dentro questa frattura che delinea un prima e un dopo. Entrarci con tutto il coraggio di cui siamo capaci, come la testa dell’ostetrica tra le cosce di una futura madre e con i guanti insanguinati e la mascherina, sorridere a quel mistero lì, anche se i tuoi vicini di casa urlano e non sai perché.

Tizianeda

Sul bordo

Sono a casa di mia madre, cerco una foto. Le fotografie sono conservate disordinatamente dentro scatole di biscotti di latta, di quelle che si usavano regalare un tempo, quando si andava a visita nelle case degli altri.  Una volta era un andirivieni di scatole di latta piene di dolci industriali,  di buona qualità, per non sfigurare. Quando sul fondo restavano le briciole, i contenitori non si buttavano. Vi si custodivano biglietti, lettere, appunti e fotografie. Guardo i miei genitori giovani, poi di mezza età, poi bambini e poi me e i miei fratelli adolescenti e neonati e i miei nonni sposi,  anziani, vecchi poi ancora giovani,  gli zii nel vigore degli anni, foto di trisavoli,  volti sconosciuti, prozie, le cugine di mia madre, Teresa e Iole, nel fienile, pettinature anni ’50,  capelli raccolti in trecce e code,  vestiti che cambiano a seconda delle mode, osservo il tempo non lineare dei morti e dei vivi che mi sfila rapido tra le dita. La foto che cerco sembra perduta in questo impasto disordinato di facce. C’è una celebrazione strana dentro il miscuglio alchemico di immagini fissate in un fotogramma. Sembriamo, sulla carta lucida,  resistenti all’accadere delle cose, al dopo che è venuto e nessuno di noi sapeva, nei volti e nelle posture che rimandano a una nostalgia di immortalità. Le fotografie familiari sono una geografia di attimi felici, la festa dello stare insieme. Il resto, il banale o l’irraccontabile,  non ci sono.  Afferro la fotografia di una ragazza, i capelli neri e ricci, sorride, l’abito scuro. “Chi è” chiedo a mia madre. “Come chi è. È tua nonna”. Non ci credo. La nonna Bianca non è mai stata giovane, ha avuto sempre i capelli come il latte e una crocchia sulla nuca, era piccola e accartocciata, sorrideva poco, presa come era dagli eventi della vita. “Ha anche le tette, qui” le dico.  Il poi non c’è nella foto da ragazza di mia nonna. Non c’è la guerra, le perdite, le malattie, dodici o tredici fratelli e sorelle a cui badare, il matrimonio quando i sui capelli erano di un grigio precoce. Poi ricordo che sono qui da mia madre per una sola foto, anche se sono stata sommersa da  una straziante bellezza senza parole e suono.  La trovo, alla fine, dopo cento e più volti con cui ci siamo guardati. Luglio 1977. Così è scritto sul retro. Una foto felice, anche questa.  È al mare, c’è una ringhiera a cui noi villeggianti siamo appoggiati, ho un  vestito rosso, non ho più gli incisivi e aspetto quelli nuovi, sorrido a chi ci sta fotografando, il tempo non esiste, le cose non sono accadute. Nessuno di noi – fermi in un gesto qualunque, distratti e fiduciosi, come se quell’attimo fosse eterno – poteva sapere che quell’istante estivo, molti anni dopo, sarebbe stato cercato per il bisogno antico e misterioso  di raccontare  le nostre esistenze. Sul bordo a trattenere abissi, a trattenere amore.

Tizianeda