Mi stiro più che posso, come le tartarughe che allungano il collo attaccato al carapace. Faccio scivolare sulla scrivania di Domenico, il figlio liceale, la spremuta di arance Calabresi. Non dovrei entrare, è a scuola, anche se la scuola si è trasferita nella sua stanza da due anni. Sto per uscire mentre noto il suo outfit-dad pigiama inclused e un calzino nero abbandonato dall’era mesozoica sul pavimento che mi suscita interrogativi filosofico-esistenziali, ma taccio. Permane il silenzio, come un fioretto da mantenere. È a scuola mi dico, non posso interagire ed esco. Un’altra stanza è occupata da Agnese, l’universitaria. Anche lei fa lezione attraverso il pc. Novanta metri quadri, due dad, due gatte, noi due genitori. Sembra un Rave, però non puoi cantare, ballare, fare casino, bere e drogarti. Anche le gatte si sono adeguate. Un po’ meno i vicini del piano di sotto, trasferiti da poco, che urlano sempre, come se fossero tutti sordi e penso che se Dio dovesse fare un contest per trovare nuove piaghe per gli umani, tra i vincitori ci sarebbero i vicini che parlano urlando e dormono poco. Poi penso a questa roba strana che è la vita, che ti sembra che hai tutto sotto controllo e invece all’improvviso la scuola si trasferisce a casa tua, il vocabolario del quotidiano cambia, hai sempre in faccia mascherine che ti irritano la pelle, qualcosa di silente si è insinuato nei pensieri, l’appartamento vuoto del piano di sotto si riempie di The Others urlanti. Non so trovare ancora il volto di questo tempo, che ci ha fatto arretrare dentro carapaci dalla consistenza esistenziale, così come non so se i miei vicini smetteranno di urlare perché saremo noi a chiederglielo. Ci sono variabili incontrollabili e non previste, con cui devi scendere a patti e trovare strategie. Non è facile quando la tendenza è alzare il volume della voce che non fa distinguere il senso delle parole. Perché il rischio è che stiamo diventando un po’ tutti i the others degli altri e non è facile trovare un nuovo lessico della vicinanza, quando la vita progetta distanze in cui lo spazio vuoto è abitato dalla paura e dalla perdita di senso. Forse dobbiamo infilarci dentro questa frattura che delinea un prima e un dopo. Entrarci con tutto il coraggio di cui siamo capaci, come la testa dell’ostetrica tra le cosce di una futura madre e con i guanti insanguinati e la mascherina, sorridere a quel mistero lì, anche se i tuoi vicini di casa urlano e non sai perché.
Sono a casa di mia madre, cerco una foto. Le fotografie sono conservate disordinatamente dentro scatole di biscotti di latta, di quelle che si usavano regalare un tempo, quando si andava a visita nelle case degli altri. Una volta era un andirivieni di scatole di latta piene di dolci industriali, di buona qualità, per non sfigurare. Quando sul fondo restavano le briciole, i contenitori non si buttavano. Vi si custodivano biglietti, lettere, appunti e fotografie. Guardo i miei genitori giovani, poi di mezza età, poi bambini e poi me e i miei fratelli adolescenti e neonati e i miei nonni sposi, anziani, vecchi poi ancora giovani, gli zii nel vigore degli anni, foto di trisavoli, volti sconosciuti, prozie, le cugine di mia madre, Teresa e Iole, nel fienile, pettinature anni ’50, capelli raccolti in trecce e code, vestiti che cambiano a seconda delle mode, osservo il tempo non lineare dei morti e dei vivi che mi sfila rapido tra le dita. La foto che cerco sembra perduta in questo impasto disordinato di facce. C’è una celebrazione strana dentro il miscuglio alchemico di immagini fissate in un fotogramma. Sembriamo, sulla carta lucida, resistenti all’accadere delle cose, al dopo che è venuto e nessuno di noi sapeva, nei volti e nelle posture che rimandano a una nostalgia di immortalità. Le fotografie familiari sono una geografia di attimi felici, la festa dello stare insieme. Il resto, il banale o l’irraccontabile, non ci sono. Afferro la fotografia di una ragazza, i capelli neri e ricci, sorride, l’abito scuro. “Chi è” chiedo a mia madre. “Come chi è. È tua nonna”. Non ci credo. La nonna Bianca non è mai stata giovane, ha avuto sempre i capelli come il latte e una crocchia sulla nuca, era piccola e accartocciata, sorrideva poco, presa come era dagli eventi della vita. “Ha anche le tette, qui” le dico. Il poi non c’è nella foto da ragazza di mia nonna. Non c’è la guerra, le perdite, le malattie, dodici o tredici fratelli e sorelle a cui badare, il matrimonio quando i sui capelli erano di un grigio precoce. Poi ricordo che sono qui da mia madre per una sola foto, anche se sono stata sommersa da una straziante bellezza senza parole e suono. La trovo, alla fine, dopo cento e più volti con cui ci siamo guardati. Luglio 1977. Così è scritto sul retro. Una foto felice, anche questa. È al mare, c’è una ringhiera a cui noi villeggianti siamo appoggiati, ho un vestito rosso, non ho più gli incisivi e aspetto quelli nuovi, sorrido a chi ci sta fotografando, il tempo non esiste, le cose non sono accadute. Nessuno di noi – fermi in un gesto qualunque, distratti e fiduciosi, come se quell’attimo fosse eterno – poteva sapere che quell’istante estivo, molti anni dopo, sarebbe stato cercato per il bisogno antico e misterioso di raccontare le nostre esistenze. Sul bordo a trattenere abissi, a trattenere amore.
Mia sorella da qualche mese si è trasferita nello stesso palazzo in cui abito io. Che poi è quello dove siamo nate e cresciute e dove vive anche la mamma vecchietta. Ora che è qui, ci scambiamo i vestiti, come quando eravamo ragazze e suoniamo alle porte l’una dell’altra. Io scendo di un piano, mentre lei le scale le percorre salendo. Quando vado giù mi piazzo sul divano o le tengo compagnia in cucina, poi mia sorella prende tutti i pacchi di biscotti che ha e insiste perché li mangi. Io dico sempre di no, solo che vince il desidero e assaggio prima mezzo biscotto, poi un altro mezzo e mezzo alla volta finisco per mangiarmene più di uno. L’altro giorno ha tirato fuori da una vecchia busta, delle lettere anni ’90 scritte da me a lei. Le aveva conservate e le ha trovate per caso tra le carte prese durante il trasloco. Sono lunghe lettere strampalate di auguri, sfoghi amorosi di un’ironia melodrammatica, che mi ha fatto rivalutare la me adolescente, che nella mia memoria attuale è sempre malmostosa e arrabbiata. Ma soprattutto rivelano nel loro essere naif e a tratti folli, l’amore intimo tra sorelle, che incurante delle profonde e incolmabili diversità, si accomoda tra le pieghe dei giorni, offrendo delle possibilità di salvezza da se stessi e dagli eventi, educandoci anche all’idea di una comunità, in questo caso di due persone, di cui prendersi cura e a cui rivolgersi, quando pensi che il mondo e tu con lui, siate perduti. Mentre osservo in questi mesi l’andamento degli eventi e cerco di capire cosa ha provocato, dentro tutti noi, la frattura ancora aperta di questi ultimi due anni, mi accorgo che mi aggrappo sempre più al piccolo, all’impercettibile, al gesto minuto, o a quelle apparizioni improvvise che si offrono dentro giornate faticose, ma che mi restituiscono il senso di umano che a tratti si sbiadisce perdendo colore. Tutto questo mio sostare è un atto di resistenza all’incomprensibile e alla paura, pensando, forse ottusamente, che il buono dell’esistenza possa essere custodito lì. Come nelle vecchie lettere di un’adolescente sciocca che lascia messaggi alla lei del futuro per poterla rivalutare. O come nel sorriso da Buddha illuminato di un bambino, rivolto a una me sconosciuta che lo guarda. E lo fa mentre attraversa la strada con la madre, così pieno di fiducia e inconsapevole della scintilla che è stato capace di innestare in una donna chiusa in una vettura, a tratti più tentata dal cinismo e dalla disillusione che dalla meraviglia.
Il disegno è di Fabiana Canale (a proposito di meraviglia). Tratto dalla sua pagina Fabiana Canale – Arteterapia e SoulCollage a Firenze
La morte è un incontro. Alquanto inevitabile, direi. Ché se nascere è una concatenazione casuale di elementi, morire è un fatto certo. La prima volta che l’ho incontrata avevo nove anni. Nel mio caso, quel giorno, trovai mio cugino e non i miei genitori ad attendermi all’uscita di scuola, la mia casa piena di presenze, cibo dentro teglie che non avevo mai visto prima, una lacrima, bloccata dalla peluria, sul volto di mia madre. La nonna Ines non c’era più. La sua assenza aveva modificato traiettorie. Abbiamo molti modi per pronunciare la parole “morte” che tanto ci spaventa, come se fosse una scampagnata, un volo o una funzione meccanica di cui non ci importa nulla. Anche io l’ho fatto ora. Non esserci più, dipartire, trapassare, passare a miglior vita, andare in cielo, scomparire, defungere, spegnersi. Da sempre l’uomo celebra la morte, come con le divinità temute. Ma se lei è il più sensazionale e scontato degli eventi umani, l’amore per chi muore è trama poetica dell’esistenza, in altre parole, mancanza e ricordo. Inventiamo altari per i morti, accendiamo lumi e lasciamo il pane sui ripiani, come le briciole sui davanzali per gli uccelli di passaggio, acquistiamo fiori, mangiamo dolci troppo zuccherati, lasciamo che siano le sedie mancanti attorno alla tavola a farsi presenza immateriale. I morti li sogniamo a volte. Ci raccontiamo che vengono a trovarci per nostalgia, eppure siamo noi che li cerchiamo, specie quando la vita diventa un gioco troppo faticoso per trovare risposte razionali. In fondo i morti, servono ancora ai vivi, che nel guardare nelle proprie profondità, trovano costellazioni per orientarsi. E in fine loro ci osservano, con occhi lontani, dalle fotografie, di cui ancora le case delle madri sono piene, per una devozione antica. E ci piace pensare, per quel bisogno tutto umano, che nel loro giorno, vengano a guardarci mentre dormiamo, per bisbigliare parole dentro le orecchie, per ricordarci di vivere, di amare, di continuare a contemplare tutto questo mistero.
Quando ero bambina, faceva prove tecniche di morte e di resurrezione. Mi schiantavo, sentivo dolore , chiudevo gli occhi e sparivo. Neonata piangevo con teatrale parossismo e il mondo si fermava. Andavo altrove, il tempo di riprendermi dal troppo. Negli anni mia madre, aveva acquisito l’impassibilità di Socrate con il bicchiere di cicuta in mano. Rassicurava gli astanti non abituati ai giochi di prestigiazione della mia mente. “Non vi preoccupate, fa sempre così, poi torna”, come se fosse un colpo di tosse. E in effetti non l’ho mai delusa mia madre. Tornavo, sempre. Poi ho perso i super poteri dello svenimento infantile corredato di zucchero al risveglio e invece di tele-trasportami, sognavo, per noia. L’altrove era meglio della sequenza dei giorni. Sogni banali, per una bambina senza grandi talenti, che però trovava ingiusto che si morisse nella vita, o che succedessero le infelicità e altre drammatiche faccende umane, che subiva il fascino tragico delle storie di Buzzati o di signori come lui, che la maestra faceva leggere a scuola. Perché nel libri puoi morire, ma poi ne prendi un altro e vivi un’altra storia.Ora non so perché mi è venuta in mente questa faccenda di morte e resurrezione. Sarà che è settembre, che è il mese inventato dagli umani per avere un pretesto di malinconia. O perché ho scattato una foto alla mia faccia e ho visto il naso di mia madre. Si cresce con dentro i volti dei genitori, che il tempo partorisce su quello di noi figli. O perché penso spesso a quella bambina che aveva trovato il suo modo personale di costruire nidi sugli alberi, per sottrarsi al caos che si muoveva sotto. Quella bambina che ancora oggi, a volte, mi fa dannare e mi invoca dal sottosuolo e che devo tranquillizzare raccontandole storie di meraviglia, di morte e resurrezione. Allora le dico di resistere, almeno per il gusto di vedere, un giorno, non solo i cambiamenti e i colpi di teatro della vita, ma anche il materializzarsi, come un gioco di prestigio, del naso di sua madre sul suo volto.
Mia madre parla della morte come se raccontasse una storiella divertente. Per il suo funerale ha scelto la colonna sonora. La canzone d’ingresso in chiesa si intitola: “Eccomi eccomi vengo”. Lo ha scritto su un biglietto custodito in un cassetto. Per lei la vita e la sua fine sono eventi scontati e lineari, come la vecchiaia, il tempo che passa, le belle canzoni, sposarsi, fare figli, imparare le tabelline, i padri che vanno alla guerra, il corpo che cambia, i pidocchi da sfollati, gli amori che iniziano e quelli che finiscono, le malattie, le nascite, il rosario la sera, le paste la domenica, il mare a luglio, il salotto con la porta chiusa a chiave, doppia mandata rafforzativa del concetto. La predica a Don Marco non l’ha scritta, non sta bene dice, anche se io la esorto a farlo ché quel giorno non la può ascoltare. Ridiamo. Non solo della morte, ma anche della vita. Ché io mica l’ho capita la vita e allora se rido con mia madre, mi pacifico di ogni mia mancanza e difetto di nascita. E a volte lei annusa che ho ‘sti dubbi e punti interrogativi nella testa e smarrimenti e mi interroga e io cambio discorso, come i canali della televisione, perché non so come spiegare, perché lei mi sembra da proteggere e basta. Così si parla d’altro, tipo il suo funerale, le sue amiche, il libro che sta leggendo, il corpo che le duole a portarselo sempre appresso e parla, parla tantissimo, che non so dove trova tutte le parole e il fiato per tirarle fuori. L’ascolto, a volte mi assento, a volte mi chiedo che creatura è mia madre. Che creature diventano le madri quando invecchiano e il corpo si accartoccia. Non lo so. Allora sto con lei e giochiamo, siamo due bambine che lanciano dadi sul tavolo. Il tempo diventa un’architettura che capovolge le regole dello spazio. Ridiamo.
Quando è arrivato, sembrava uno scherzo. Qualcosa di diverso, nella falsa tranquillità della provincia meridionale fine anni ‘80. Fumava anche. Un prete gesuita, figuriamoci. Si incazzava, a volte, mandandoci a quel paese. Amava il teatro e i testi che potessero smuoverci le viscere. A noi ragazzi, poco più che maggiorenni, diceva che dovevamo essere liberi e rivoluzionari, di ricordarci di essere preparati, di amare e servire. Perché? Dove era il trucco. Nessuno si espone così, se non ha uno scopo, un fine opaco. Padre Vincenzo, gesuita, di Napoli. I genitori avevano paura, noi ragazzi oscillavamo tra il bisogno di fidarci e la diffidenza imparata. Perché le sue parole riscaldavano e accoglievano, erano nuove e coraggiose. Sono rimasta e non solo io. Ho continuato ad ascoltarlo. Poi ventiquattrenne sono salita su altre strade, decidendo di non pensare più a quel Dio da lui tanto amato, relegandolo nella convinzione della sua inesistenza. Mi ha benedetta, come sanno fare i padri. Negli anni arrivati dopo, avrò rivisto Vincenzo una manciata di volte. Era bello incontrarlo, come tutto ciò che pacifica.Pochi giorni prima che morisse, neanche un mese fa, parlando di lui e della malattia che lo aveva assalito, un’amica, con cui avevo condiviso le ore lontane, mi ha detto: “ti ha salvato la vita”. Lo penso anche io, ancora oggi, che lui abbia salvato la mia e la vita di molti, con le parole e i gesti, dando a quel tempo un assetto inaspettato. Lui mi ha fatto credere in una possibilità, dentro un mondo, quello dell’adolescenza, in cui ero attraversata da scie dolorose, da interrogativi a cui non trovavo risposte adeguate, dalla ricerca spigolosa di una identità. E in tutto questo magma informe di cui lo rendevo partecipe, lui mi ha fatto sentire meritevole di essere amata.Ho pensato a Vincenzo in queste settimane. Si invocano i padri quando attraversiamo tempi che non riusciamo a decifrare e ci sembrano oscuri e malati. In cui l’irrazionale senza passione ed entusiasmo, senza la follia dello stupore, fa un chiasso avvilente e ti chiedi cosa fare, ma non trovi risposta. Eppure, forse, le risposte le ho avute molti anni fa, quando ero una ragazzina senza una direzione certa e con vie tortuose in testa e un giorno, un padre, senza chiedere nulla in cambio, mi ha salvato la vita.
(nella foto una Tiziana bambina di vent’anni, con un bambino bellissimo)
Tàlia e Priscilla vivono nei 90 mq insieme a tutti noi. Tàlia è un essere misterioso. Ci guarda da distanze siderali, è bella, nera, diffidente, dorme raggomitolata, come un riccio che deve difendersi dal nemico. Non vuole essere toccata. Agnese, la diciannovenne, è l’unica che, a tratti, riesce a scardinare i suoi chiavistelli. Tàlia è la crasi perfetta tra un siamese e un bradipo. Ha il coraggio di Leone Cane Fifone e non sopravvivrebbe nella giungla della strada, benché da lì provenga. A volte piscia sul divano e mangia fili, spaghi e plastica. L’ultima volta che è stata operata d’urgenza aveva ingoiato gli aghi sintetici dell’albero di Natale, costringendoci in questo anno votato all’essenziale, a decorare la casa solo con lucine intermittenti e non raggiungibili, ché a uno esofago stroboscopico non siamo pronti.
Insomma, per Tàlia l’esistenza procedeva verso il suo binario sonnacchioso e dissociato, fino a che non è arrivata lei, la variante impazzita, ché il karma-contro pare esista anche per i gatti: Priscilla. Priscilla non è bella. Ha un corpo sghembo, un pelo ispido e macchie grigio ratto, gli occhi gialli e miagola come il clacson rotto di una vecchia vettura. Priscilla è una sopravvissuta raccolta per strada da Agnese. Stava morendo, ma evidentemente le piaceva troppo vivere. Lei dorme stravaccata ovunque, nella posizione zen-chic sonotuttavostra: pancia in su e zampe all’aria. Manifesta la sua lietezza dello stare al mondo facendo agguati per la casa, specie a Tàlia, che poi piscia sul divano. Morde i piedi scalzi e si fotte le penne. A volte scompare anche lei, per poi riapparire più scassa minchia di prima. Non demorde mai, perché l’entusiasmo è la sua cifra.
Tàlia va protetta, con quel suo incedere affaticato, come di chi ha subito il male, pur non sapendo cosa sia e come si faccia. Ha tracciato dei confini tattili. A noi il compito di procedere con delicatezza. Priscilla ha la gioia dei sopravvissuti. Di chi è stato a un passo dal morire, ma poi si è ostinato a restare, un po’ per tigna, un po’ per fortuna. Distribuisce gratitudine a tutti noi, senza sosta.
Non avrei mai pensato che un giorno avrei scritto un post su due gatte, ma si cambia, così come cambiano le ore della vita. E ora che il mondo si sta per riaprire e noi scalpitiamo per entraci dentro, mi chiedo se in questi mesi mi sono allenata agli incontri anche grazie a loro. A capire il giusto equilibrio tra vicinanza e distanza, tra il restare e l’andare, tra il chiudermi e invece l’accogliere. Non lo so, vedremo. Intanto mi godo la beatitudine di questo amore che niente chiede, se non di stare e resistere.
“Mannaia a li figghi e a cu’ li voli”, diceva mia nonna, racconta mia madre, la quale a sua volta ammetteva che questa frase l’aveva sentita dalla sua di madre, la quale probabilmente aveva assorbito la locuzione dalle donne della genealogia, fino a risalire a un’origine uterina sconosciuta. Mia nonna pare si esprimesse così, ogni qualvolta la maternità si trasformava in un motivo di pensiero, che scaturiva in un’ansia insostenibile. Immagino quasi sempre. La nonna Bianca era donna tendente al pessimismo, in un tempo in cui i figli si muovevano dentro costrutti sociali, la cui complessità non aveva raggiunto le vertigine della nostra epoca. Eppure mia madre racconta che la sua, di madre, l’attendeva sempre affacciata al balcone in quei cinque minuti che la separavano dall’uscita della scuola al rientro a casa. In quel tempo dilatato fino al parossismo chiamato ritardo (conoscendo la disciplina di mia madre al massimo tre minuti), mia nonna costruiva le più inimmaginabili tragedie, che – per una donna sopravvissuta a due guerre, alla Spagnola, alle due gravidanze e poi basta, alle morti familiari, alla gotta del padre medico, a una famiglia di dodici fratelli e sorelle di cui all’improvviso prendersi cura, a un mondo che ruotava attorno alle esigenze degli uomini, infischiandosene dei talenti, dei desideri, delle vocazioni delle donne – sembra illogico. Eppure era così. Ogni tanto questa frase riemerge dalla memoria familiare femminile. “Mannaia a li figghi e a cu’ li vole”. Ché nel suono della lingua nostra, germogliata tra oliveti e lontananza, ha un che di archetipico e tragico. Come l’amore che sfugge al nostro controllo. È la sintesi antica di ogni contraddizione avvinghiata ai sentimenti materni. E lei lo sapeva. Al tal punto che pochi giorni di morire, quando la percezione del futuro si intensifica, così come il desiderio che chi lasciamo amando sia felice, ha consegnato a sua figlia l’ultimo seme di parole. “Non fare come me, Mara”, le ha sussurrato. Quella frase, so per certo, non era solo per mia madre.
Tàlia, c’ha la mancanza. La mancanza di Agnese, la dicannovenne, che è tornata nella sua città universitaria per ricominciare con le lezioni in presenza. Ricominciare tasselli di normalità, di causa ed effetto del quotidiano, delle scelte, della giovinezza, della vita insomma. Però Tàlia, la gatta che c’ha i suoi disagi esistenziali e che ha scelto solo Agnese da amare, o almeno così a noi sembra, l’assenza la vive come uno strappo inspiegabile. “E’ stata tutto il pomeriggio a miagolare dietro la porta”, mi ha detto lo sposo, quando l’altra sera sono tornata a casa dal lavoro e a un giorno dalla partenza di Agnese. E come la spieghi la vita a una gatta, che si irrigidisce quando la accarezziamo per chissà quali suoi meccanismi, ché i traumi non li abbiamo solo noi umani e il dolore, attraversa ogni esistenza. E cerchiamo allora di maneggiarla con ancora più delicatezza, sapendo che anche da lei impariamo, dando senza chiedere, sfidando la tenerezza, esercitandoci nel toccare con cura un essere per lo più incomprensibile, dentro un impasto di peli e innocenza. Quando circa un anno e mezzo fa ci è stata consegnata una vita nuova, in cui la scansione del tempo si è modificata, dove la distanza è divenuta unità di misura dell’attenzione per chi amiamo, ma anche per gli sconosciuti, misura di un interesse collettivo alla cura, ho pensato che fossimo tutti dentro una sospensione. Ma non so più se è stato ed è così. Forse il tempo, al contrario, si è addensato, come quando i sensi, per proteggerci dal pericolo, si acuiscono. E la mancanza si è accomodata dentro questo ingranaggio che ha iniziato a muoversi a ritmi diversi rispetto a prima. Un pendolo dall’oscillazione imprevedibile, o forse, per la prima volta, profondamente in sincronia con tutto il resto. E se tutti ci muoviamo alla stessa velocità, si ha la percezione che ogni cosa sia ferma. Ma così non è. Una sincronia di mancanza e dolore, che dovrebbe farci dismettere ogni faccenda inutile e che ci allontana da noi stessi, per concentrarci su questo movimento, concentrarci sui nostri abissi e sulle possibilità di vertici. E tentare la cura, per ogni piccolo essere fermo davanti a una porta chiusa, soggiogato da un’attesa senza risposta. Diventare filo che imbastisce pezzi di stoffa, che compone orli sfilacciati, cuce strappi sonsapevole delle proprie mani incerte e dei segni che restano. Amando, in pratica, ché è una parola spaventosa, a pensarci, per quanto è fragile.
Il sito fa uso di cookie ai fini del funzionamento della piattaforma di pubblicazione, e per migliorare l'esperienza utente e i contenuti offerti. AccettoAltre informazioni
Informativa Cookies
Privacy Overview
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
Any cookies that may not be particularly necessary for the website to function and is used specifically to collect user personal data via analytics, ads, other embedded contents are termed as non-necessary cookies. It is mandatory to procure user consent prior to running these cookies on your website.