In mezzo

Agnese, la diciottenne, ha i capelli verdi. Tipo verde brillante, o verde alga Mar Mediterraneo. Quando l’ho vista ho deglutito, e per un attimo mi è mancato il respiro. Avevo resettato la sua richiesta e il mio consenso e le ho chiesto “perché”. Lei dice che sta cercando una forma, una sua identità. Lo fa in tanti modi. Forse, anche chiacchierando in video chiamata per ore con un ragazzo americano. Dice che parlano di tutto. Dall’economia, ai fumetti. Intanto sorride di più e si tocca spesso i capelli verdi, che le macchiano le
dita.
Anche mia madre, guardando i miei riflessi rossi mi ha chiesto un giorno “perché”. Perché mi piacciono, le
ho risposto e perché si cambia. Non so se questo c’entri con l’identità, o il coraggio, o con l’inquietudine
che in qualche modo continua ad abitarci, anche se muta forma e direzione.
Mia madre è al mare. Sola. Dice che sta benissimo così. A preoccuparci siamo noi figli, rimasti in città. Non
so se anche questo abbia a che fare con la ricerca di qualcosa, o forse no. Perché mia madre mi sembra identica a sé stessa da sempre. Ma in fondo, i figli, delle madri non ci capiscono niente. È che i vecchi ti chiedono di non trattarli come bambini, anche se la vecchiaia ha l’estetica della fragilità e ti viene un po’ naturale. Anche se dei genitori si diventa padri e madri. E poi, a un certo punto, devi lasciarli andare.
E’ strano quanto percepisca più il processo di allontanamento di mia madre e non di mia figlia, che anzi più cresce, più la sento avvicinarsi, senza robe stucchevoli. È un sentire e un suo dire improvviso, con agguati di parole, in cui racconta parti di sé, lasciando a me il compito di comporne i pezzi. Si avvicina, anche se Agnese andrà via ad aggiungere elementi e architetture.
È strano. Dovrebbe essere il contrario. E invece è mia madre che ci regala prove tecniche di lontananza.
Forse è così che si insegna il coraggio ai figli. In questo stare davanti al mare, in un paese che sembra l’Africa. Con alle spalle le cicale, le piante di capperi abbarbicate alle crepe, l’erba ingiallita e un sacchetto di
ricordi definiti da una fotografia dentro una cornice. O forse è colpa di agosto, che è un mese che non
insegna nulla e ti porta la malinconia insieme alle giornate di scirocco. Oppure, è proprio in quel nulla, che agosto ci dice.

Tizianeda

Di stanze e di portoni

“Mamma, che vuol dire che quando si chiude una porta si apre un portone?”

Penso. Non può essere ovvia la risposta. Agnese lo sa. I detti che si tramandano da secoli,  contengono la saggezza della vita. Non posso dire a mia figlia che per ogni cosa che perdi ne ottieni una più importante e più grossa. Sarebbe una bugia banale, lo zucchero per coprire la medicina amara. La vita mica funziona così. Come se fosse tutta una rivalsa tra occasioni perdute, delusioni, assenze e riconquiste. Non erano scemi i nostri avi e sapevano le cadute e i lividi, la fatica del procedere e degli incontri, non erano venditori di futuro scontato e di strade in rosa. Quelli conoscevano lo schianto. I detti tramandati e resistenti al tempo sono haiku dello stare al mondo. Che poi è quello che mi sta chiedendo Agnese, stasera e ogni volta che arriva con l’agguato di una domanda. Come si sta al mondo, mamma? A me che imparo ancora, a ogni giro d’angolo, a stare e ad andare.

Le rispondo e così rispondo a me stessa. Ché siamo tutti collezionisti di stanze  guardate per l’ultima volta senza voltarsi, da cui allontanarsi. Succede anche con quelle interiori, con quei labirinti spaziosi che esploriamo dentro di noi. Succede che ci imbattiamo nello sgradevole, o nel non più riconosciuto. È una continua ricerca di centro e identità.

Ecco che vuol dire, Agnese, questa frase che arriva veloce. Vuol dire che  la nostra esplorazione dentro una stanza a volte finisce, perché ci ha stancati, perché quello non è più lo spazio da abitare, perché semplicemente ci sono avventure, relazioni, esperienze che finiscono, perché ci ha dato tutto ma proprio tutto e possiamo solo ringraziarla per il viaggio e andare via. Se ci ostiniamo diventa zavorra, l’albatros legato al collo del vecchio marinaio.  Non è una questione di centimetri di felicità,  di comparazioni tra porte. In quel portone che si apre ci sono le possibilità di una scacchiera, di una partita che si può ancora giocare, di aria nuova da sentire. Come ora, per te, dopo il tuo ultimo confronto a scuola, e per il  dopo da esplorare. È così. I nostri avi sapevano l’intelligenza della vita, che non si impara a scuola o all’università. Bisogna saper abitare molte stanze e valicare qualche portone, con coraggio, semplicemente.

Tizianeda

Il senso della cura

Ora che la scuola è finita, ci siamo riappropriati delle stanze divenute per settimane aule monocellulari. È  entrata nelle case degli studenti e le case sono entrate nella scuola, a volte spiandola dietro le porte chiuse. Con le raccomandazioni dei figli, di non entrare, di parlare a voce bassa, di stare attenti ecc ecc. A tratti disattese, per dimenticanza. Con gli schermi improvvisamente oscurati e gli audio mutati. Per evitare l’imbarazzo adolescenziale.

Adesso ci sono gli esami di maturità per l’altra figlia. Ché me lo devo ripetere più volte che la ragazza ha diciotto anni. Diciotto e non mi capacito quando. Lei, concentrata su elaborati e materie da collegare tra di loro, come i punti della settimana enigmistica alla ricerca di una forma sensata. E ne parlavamo ieri con le amiche conosciute il primo giorno di scuola di Agnese, di dodici anni fa, tutte ad accompagnare i figli nella stessa aula della scuola elementare. Le amiche che mi riportano al concreto delle ore e alle matasse da sbrogliare, perché i nostri figli non diventino astronauti abbandonati nello spazio, a muoversi a casaccio e senza direzione. Le mie tre tutte belle, che mi fanno sentire qui e ora. E nelle mie stranezze di modi, accolta. E abbiamo tutte un po’ paura per questo futuro slabbrato, e siamo vigili anche se scostate, per non intasare le scelte loro  nel dopo che verrà. E divento carne e ossa e muscoli per sollevare i pesi del tempo, per non farmi spaventare da questa vita che muta ogni momento. Che mutano i luoghi, le persone, le stanze abitate e quelle disabitate, mutano i rapporti e i figli crescendo. E li guardi e pensi: “se ne vanno” e fai della casa il luogo dell’attesa e del ritorno. E sai che in tutti questi anni hai lavorato perché arrivasse questo qui e ora, perché fossero pronti ad allontanarsi, ché le radici servono solo per sapere dove ritornare, non  per restare inchiodati a un dovere di ruoli imposti. E così saremo pronti a raccontare il tempo che verrà, e a saperlo abitare nel suo mutare forma e a capire che la vita è questa cosa qui che non puoi trattenere, un po’ come i figli che ti insegnano il senso della cura e della parola “amore” e della parola “altrove”.

Tizianeda

Per ogni abbraccio non dato

Abbiamo giocato per quasi tre mesi a “un due tre, stai là”. Stai là nella tua regione, stai là nel tuo comune, nella tua città, dentro la tua casa. Lo abbiamo fatto, abbiamo obbedito. Abbiamo comprato farina e lievito, abbiamo impastato e aspettato. Le strade sono diventate cartoline, fotogrammi di deserti western senza pistoleri. E poi noi, nascosti e fermi, abbiamo delegato la nostra libertà, per proteggerci, perché la paura fa fare cose pazzesche all’uomo, così come l’amore. Siamo saliti sulle terrazze, abbiamo lasciato crescere i capelli, ascoltato la matematica dei malati, dei guariti, dei morti. Abbiamo fatto del futuro palline accartocciate.  Poi è arrivato il momento di aprire le porte. Lasciandole socchiuse.  Ci è stata restituita una libertà con i “ma”. Sport all’aperto, ma a due metri da tutti. Locali ni, assembramenti no. Baci? Per carità. Pomiciare? Peggio della morte nera. Chiese forse sì, teatri boh. La saliva non è mai stata così centrale nei nostri pensieri. Gli amici li puoi vedere ma non toccare, in macchina devi stare dietro,  i capelli te li taglia  Dart Fener, ché ti chiedi come minchia fanno i parrucchieri a non farti un buco in testa bardati come sono. Tutto questo per un virus stronzettino che pasteggia dentro di noi con noncuranza, predatore, come predatori siamo noi umani,  da sempre, con la terra dataci in prestito. Siamo disorientati e fragili, ora. Stanchi di uscire come dei giustizieri mascherati solitari. Tutti super eroi, con la kriptonite nelle tasche. Ora patiamo la lontananza e l’assenza dell’altro e forse di noi stessi. Capiamo come questa sottrazione di vita e di vite, è divenuta particella di ossigeno che respiriamo.  Capiamo quanto gli altri sono tutto ciò che ci resta, sono cura, per quanto provvisoria, dei nostri tratti fragili. E stiamo lì a cercarci, come amanti clandestini, nella memoria da ravvivare, di ogni abbraccio non dato.

Tizianeda

Otto

Ciao Blog, che oggi sono otto, otto anni che stiamo insieme. Otto che è il numero perfetto in questo tempo così palindromo. Che è uno sforzo di sguardo in più e altrove, verso un infinito che i giorni richiamano. Otto a ricordarmi che si può fare, che si può deviare dalle strade sicure, sapendo che c’è anche pazzia e disperazione nelle scelte di tragitti sconosciuti, come una voce irresistibile. E forse lo era un po’ disperato, anche il Dio in cui non credo,  per volerci così presenti e impacciati nella vita, per crearci, pur così deformi e orribili a tratti. Ma non deviamo Blog, che su certi terreni, di questi tempi arrabbiati è bene non sostare. Oggi è giorno di festa. È la festa dell’osare, ché senza di te molto meno sarebbe accaduto. Meno storie, meno ricordi da conservare, meno incontri, meno stupore e sguardi, e sempre meno, meno porte da aprire e stanze in cui sostare, meno scrittura da sperimentare. Rinchiusa a domandarmi cosa mi mancasse. E nella vita a furia di chiedersi cosa, finisce che ti perdi il molto che potrebbe accadere. E scusa se c’è stato un tempo che avrei voluto smettere con te, come si fa con un amante che ti ha deluso,  ché mi sembravi non più vero, non più me. Era il tempo della scoperta di altre identità, meno morbide meno rassicuranti, e di nuove parole. Poi mi sono arresa alla consapevolezza che in ognuno c’è un condominio e amen. Ed è come dare un party, con quelli che bevono e quelli che invece prendono il succo d’arancia perchè poi devono guidare per riportare tutti a casa sani e salvi. E tra levate di cuore e anima, tra il precipizio e l’ostinazione di un passo davanti all’altro, nel tentativo a volte maldestro e inutile di trovare un ordine nel casino cosmico delle cose, volevo dirti che non smetterò di raccontare la meraviglia che mi cade addosso. Resta sobrio, però, ché poi dopo il party, sarai tu a dover guidare per riportarmi a casa.

Auguri Blog e auguri a me e alla ostinazione e alle passioni che si nutrono di ossessioni e che ci fanno dire fare e baciare e abbracciare (gli ultimi due spero presto prestissimo).

Tizianeda

Mamma passero

“Posso pettinarti i capelli, Tizianeda?”
“Davvero vuoi farlo, mamma vecchietta?”
“Sì”
“Va bene, domattina vengo e procediamo”
E così l’indomani ho attraversato il pianerottolo e sono andata da lei.
Ci somigliamo di più da quando indossiamo le mascherine, abbiamo lo stesso becco bianco. Metà umane metà uccelli. Mia madre mi fa sedere, porta spazzole, pettini e il ferrettino. Cazzo il ferrettino. Sono pronta, catapultata nel ritorno al passato. Noi bambine degli anni ’80 eravamo un po’ tutte così. Cento colpi di crespo e ferrettino. L’anarchia tricologica non era contemplata nel grande libro delle madri. La lascio fare. Lei mi ricorda di quando i miei capelli erano tanti, lunghi, ricci, neri, quasi blu di quanto erano neri e lucenti. Poi me li spazzolava, però. Quei capelli non ci sono più, mamma, le dico. E neanche quella ragazzina. E tante altre cose ancora, che a furia di fare buchi nelle suole, le ho seminate. Non si arrende. Spazzola, cambia riga, fa la frangia. Tanto il trend della pandemia è capellidimerda. Il crespo li valorizza. Ridiamo dentro ai becchi. Da quant’è che non ti bacio, mammina? Ecco ha finito, è l’ora del fermaglio. Non si capacita di quei riflessi rossi che ho in testa. Perché, mi chiede. Non so spiegartelo il perché. Perché è così, perché devo cambiare, altrimenti mi sento perduta, perché sono abitata da moltitudini e una di queste ha i riflessi rossi. E comunque ora il rosso è sbiadito, è piuttosto colore pandemia. Ci guardiamo allo specchio. Siamo carine, le dico, con questi becchi bianchi.
Lo so che volevi ritornare madre, pettinandomi, sentire che la vita non sfugge tutta, che c’è qualcosa che si può appuntare, come un ferrettino, tra i capelli, apparentemente domati.
Devo andare. Le moltitudini chiamano, mamma. Torna, mi dici. Piccola, sull’uscio, con il tuo corpo da passero. Torno, certo che torno, e poi giochiamo. Facciamo che tu sei la madre e che io sono la figlia.

Il disegno meraviglia è di Fabiana Canale

Tizianeda

Pandemia blues

La mamma vecchietta, mi ha detto che ormai può uscire. Ha sentito al telegiornale che di contagi e morti non ce ne sono più e che gli esami di maturità si faranno il 14 maggio. Non so su che canale si sia sintonizzata, certo non italiano. Non è stato facile convincerla, che così non è. Tanto lei, mi dice, di corona virus sicuro non muore e me lo ripete tutti i giorni come un mantra. Poi fa il lunghissimo elenco di tutte le sue possibili cause di morte. La invito ad aspettare allora, perché ora non sarebbe opportuno. Lei dice va bene e poi cambiamo argomento.
Oggi, mentre la guardavo pensavo che ha sacrificato l’infanzia dentro una guerra, che lì la paura e la fame e le mancanze erano tante e profondissime e c’erano pure i pidocchi. E ora si becca la reclusione a casa, per questa merdina piccola che ci ha messi tutti all’angolo. “Minchia che sfiga mamma, le dico”. Lei ride e mi ripete il solito mantra. Rido pure io. Poi le dico due sconcezze, che tanto non si arrabbia più da quando la vecchiaia l’ha resa più libera. E penso che vorrei davvero, ora, potermi affacciare al balcone solo per guardarla attraversare la strada e intenerirmi a osservarla camminare oscillante, come un marinaio appena sceso dalla nave in tempesta.
E invece sui balconi ci stiamo per quei momenti un po’ così, i momenti di pandemia blues, che è quando ti chiedi “e ora che faccio?” E ti interroghi sulle strategie di resistenza, come una puerpera strafatta dai balzi ormonali e un bambino che piange e scacazza. A tratti, ti senti smarrita. Poi passa. Anche se la Storia, sta un po’ troppo scacazzando ultimamente sulle nostre teste. E così arrivano quei giorni, inevitabili, che la pandemia blues ti fotte e aspetti solo di ritornarti e te lo ripeti come il mantra di tua madre. Passa, Tizianeda, mi dico, passa con i progetti in testa, le gesta, le armi e gli amori e una buona squadra con cui affrontare il caos. E ti senti anche fortunata dentro questa sfiga collettiva. Anche se in certe ore c’hai una voglia matta di uscire e di andare a mare, come nella vita di prima. Ma intanto aspetti, con questo cuore collettivo a più battiti che scalcia e batte e spariglia e ti fa restare a casa.
   
   
 
Tizianeda

Le cose che ci cambiano

La prima volta,  di un sentire  mutato, è fiorita nel  ventre.  La seconda dentro una pandemia. Lei, si è presa le ore dello spazio fuori e la geografia di un fiatare che avevo dimenticato, con un seme di  spavento e di grazia. Un punto e a capo. La  commozione di un altro amare e soffrire. Come la maternità  che ha rimestato  geografie, confini, il corso dei fiumi, il moltiplicarsi delle stagioni. Un meteorite schiantato nell’utero. Ha regalato  annusi allargati. Un mai più come prima. Un inghiottire diverso di lacrime. Da subito. Il pianto di una donna abitata è due, è un raddoppio di fiato, è lo spavento dell’accadimento.

Così la pandemia, ci ha ingravidato i sensi e le ombre. Ci
chiede uno sforzo di attenzione e di gesti, di grazia e tenerezza. Un rimando
di rabbia e rancori. Quando partoriremo questo tempo dal sapore di acciaio, con
le unghie mangiate a furia di nervi, spettinati, piccoli e grandissimi, confusi
e accecati dalla voglia di luce,  forse
migliori, uscendo dalle case increduli, lentamente per non perdere gli istanti,
ci guarderemo dentro gli occhi vicini a sentirci. Le punta delle dita
toccheranno lo strazio della mancanza dei corpi, e forse, in quel momento,
capiremo cosa siamo diventati,  chi
abbiamo trattenuto davvero dentro di noi custodendolo nel segreto del ventre e
chi invece nel delirio dei giorni lo abbiamo lasciato andare, perché la Storia
ci ha rivelati tutti. E scopriremo che le cose che ci cambiano, sono  un parto di vita,  che ci restituisce nudi.

Tizianeda

Sospesi

 Mia madre mi dice di stare chiusa in casa, di
riguardarmi,  specie quando tossisco. Sì
ho la tosse. Io inizio a pensare che abbia una figlia immaginaria con cui mi
confonde, che se la spassa ed esce tutte le sere. Io che invece sono una
cultrice delle otto ore di sonno notturne e i posti dove mi piaceva andare, i
luoghi delle meraviglie,  peraltro in
orari quasi da parchetto geriatrico, la domenica pomeriggio,   sono
chiusi per decreto e questo fa male davvero.

Io a mia madre dico di
non uscire. Ma se a lei togli la messa e la parrocchia, diventa nervosa. Le
chiese sono aperte, ancora. Basta stare ognuna in una panca diversa, mi
risponde,  che tanto ormai il pubblico è
poco e c’è spazio tra di loro. Dio si prega senza sfiorarsi.

Un amico dice che bisognerebbe
parlare di Rilke. Ma non ne ha voglia nessuno di questi tempi. Eppure ci
farebbe bene essere  pazienti  verso tutto ciò che è irrisolto nei nostri cuori
e poi, se la poesia non aggiusta le nostre vite difettose, tuttavia scava fosse
segrete nell’anima e ci fa sentire meno soli.  

Quelli che invocavano
l’asteroide hanno smesso di farlo. Che  pare che un asteroide passerà davvero  vicino alla terra, senza toccarla. Questo a
ricordarci che quando ci sembra di  controllare tutto, anche le nostre battute, la
realtà  piscia sopra le nostre certezze.

Gli integralisti dell’aldilà
dicono che la colpa è dei peccatori. Che mi spiegassero allora perché i bambini
soffrono per cose indicibili. Che me lo spiegassero, questi cultori di un dio a
basso costo, il dolore dei bambini.

È un tempo strano
questo, per noi abituati a vivere dentro tacche segnate. Dentro geometrie che
ci regalano illusioni di onnipotenza.

Tutti dicono qualcosa.  Vorrei saperlo fare anch’io. Invece mi limito a tossire dentro il gomito e mi basta  sapere che i miei figli attraversano i giorni meglio di noi adulti, sapere che mia madre è così resistente da cadere mille volte e non sbriciolarsi mai. Mi basta sapere che continueremo a incontrarci e che non smetteremo di annusarci, anche se da lontano.  E penso al dopo,  quando questa mestizia sarà finita. A quel preciso istante, che guardandoci capiremo che la paura è passata, o abbiamo imparato a domarla. E voglio credere che il ricordo di questo tempo sospeso e incredulo, lo trasformeremo in poesia, bellezza, amore. Altrimenti, non sarà servito a niente.

Tizianeda

Diciotto

Se ritorno al segreto del tuo essere un mondo, se ritorno al mio ventre cambiato. Se riavvolgo il mio tempo, veloce, al momento che c’eri, al segno che eri, nel cessare del sangue, nelle voglie di sale, nella pelle tirata e alla pancia abitata. Nello sperdermi, al mio caldo in inverno, alle torri crollate e a me che cadevo come Alice nel buco, dentro un ventre, anche io a cercare le uscite.
 Se percorro i miei passi, la prima volta a guardarci, alla rabbia e al tuo pianto, al mio inadeguato canto. Se ritorno e poi vado, tu immensa e piccina, se ritorno ai tuoi occhi, ai tuoi occhi a sorpresa, se mi fermo io sento la carne, il ricamo segreto, il respiro, il tuo fiato. E mi resta il mistero, questo amore incantato,  che tu mi hai soffiato, spaventando l’abisso.
Sei Agnese,  con il nome arrivato da una nonna un po’ maga che sapeva sentire. Come te che sei qui e sorprendi i pensieri che hai placato il mio ieri.
E l’augurio da me che sono solo tua madre è di amare, cantare, di fare capriole, abbracciare il dolore, continuare ad andare, di guardare gli abissi e di farne stupore. Di abitare il tuo corpo, di sentirlo pulsare, perché è tuo, perché è sacro, perché è ricco raccolto.
E sei gioia e sei incanto, sei silenzio e segreto, libertà di sentire, di assaggiare la vita, sei la voglia e la forza per imparare a fiorire.
 
Auguri Agnese, auguri mio amore, auguri mia tutta bella.

Tizianeda