ἐπιϕάνεια

La donna posò la valigia sul pavimento. Era quasi arrivata. Doveva aprire la porta. Non era difficile. Aprire la porta e varcare la soglia, tutto qui. Un’altra porta, un’altra soglia. Non sapeva cosa sarebbe successo. Non poteva sapere. Quali volti, parole, e incontenibili silenzi. Quali abbandoni e incontri, quali schianti e fughe. Poteva voltarsi, vedere cosa e chi lasciava . Ogni istante di respiro e di cuore e di carne. Poteva questo e continuare a ripetersi le parole del calabrese Abate che tanto le piacevano: “Non sempre è possibile capire la vita, mia cara, né serve spiegarla. Bisogna raccontarla e basta”. Lei provava a raccontarla la vita, perché voleva spiegarla a se stessa, vederla farsi chiara dentro una composizione di parole, tutte le volte che la attraversava, la osava, la sbagliava, inciampava tra le sue gambe.
Pensava la donna che il cambiamento è sempre preceduto da una sottrazione. Lei però le cose e le persone non voleva lasciarli dentro numeri che diminuiscono fino a scomparire.Voleva lasciarli andare con rispetto.
Che tempo, pensava, che tempo questo. Accadimenti nel tempo di uno strappo. Era tutto dentro di lei. Presenze e assenze, insegnamenti e sbagli, colori e visione che solo i grigi ti danno. Quante immagini in lei, pensava la donna. Quanti anni aveva vissuto in quel tempo piccolo e quanto stupore in ogni volto, per ogni incontro, per ogni parola detta e taciuta, dolore e fatica, demoni e angeli, lei che era demone e angelo e ricerca e ritorno a sé. Prima di aprire la porta, la donna voleva portarsi un’immagine che fosse un amuleto, un’apparizione, una manifestazione del divino che è nell’universo e dentro tutti noi, pensò, un’ἐπιϕάνεια. Chiuse gli occhi per trovare un’immagine innamorata che le facesse provare tenerezza e fiducia. Chiuse gli occhi e la trovò. E vide. Vide un ragazzino di undici anni dentro una casa di 90 mq. Vide la porta che si apriva e una donna magra, ancora troppo magra che la varcava. La donna che era stata per molti anni presenza densa per le stanze di quella casa. La donna a cui era stato consegnato tra le braccia quell’undicenne quando era piccino. Che aveva aiutato nell’accudimento lei, la mamma di quel bambino. Che poi i ragazzi erano cresciuti, ma la vita aveva deciso di interrompere per un po’ il filo che li univa. Giusto un tempo necessario per riprendere forze. E poi l’incontro dopo mesi di paziente attesa. L’incontro tra la donna e il ragazzino. Era questa l’immagine che si sarebbe portata, come un dono di incenso di oro e di mirra. La manifestazione dell’amore potente che si inchina al mistero della vita. Quell’incontro atteso, di una donna e un ragazzino, quel guardarsi senza dire, quell’avvicinarsi piano e abbracciarsi senza troppo stringersi per non farsi male. Era questa la sua epifania, la visione rivoluzionaria dell’amore che tutto può e sa dire, dentro immagini silenziose.
Adesso ho tutto ciò che mi serve, la donna pensò con nel cuore la commozione di quegli attimi delicati. Questo si disse, prima riprendere la valigia e aprire la porta.

Tizianeda

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