2018 archive
“Mi sento come se non avessi più le braccia”, dice mia madre.
Deve essere così che accade, quando la vita partorisce al contrario presenze consolidate nelle ore e nei gesti. Non si spezza il cuore. Quello è ostinato, continua, con il silenzio e il battito, rumoroso quando tace. Come rumorosa è l’assenza, che si è presa in pegno le braccia di mia madre, diventata figlia a noi figli.
Arriva il momento del rimestio dei ruoli. Un ribaltamento. L’immagine allo specchio esce fuori.
La prendiamo per mano quando usciamo, io e i miei fratelli. Sgraniamo le raccomandazioni delle madri. Trattenendo l’ansia, come si fa con i figli. Non aprire la porta, non uscire con la borsa, stai attenta, copriti, non affacciarti sul balcone a salutare i nipoti per strada quando fuori è freddo, mangia. Lei sorride di queste attenzioni e puntualmente, le disattende. Senza braccia, esce, prende il vento, brucia le pietanze sul fuoco acceso, ci manda a quel paese, parla, parla tanto. I vecchi hanno un bisogno affannato di parole e della nostra pazienza, per ripagare le attese. Per quella tenerezza che ancora una volta ci salva, da questo urlare che è la vita, che ci tiene stretti a un àncora, o a un ancora, come ancora è Natale, come ancora è qui e ora.
Tizianeda
Ogni mercoledì sera, salgo su una nave, che mi porta a casa. Il tempo si ferma, il mare sparisce, le voci attorno sono un teatro, le montagne si allargano piano. C’è un nero fuori che è quieto e le onde si muovono sotto i piedi.
Sulla nave del mercoledì sera, sto zitta, insieme al mare, che sembra sparire. E spariscono i pensieri dentro il nero mare che contiene la nave, che contiene me.
Ogni mercoledì sera, su quella nave, attraverso lo Stretto, che è un rimestio di voci e le sento mute e il tempo smette ed è ritorno.
E so che questi attimi sono per la grazia che mi regala l’Isola. Di quando condivido insieme ad altri una passione accesa, seduta attorno a un tavolo nel centro del palco di un piccolo teatro a parlare di vita, in un mischiarsi di architettura e poesia. E forse, ogni mercoledì, lo sogno quell’uomo che è di un altro mondo e sa le parole che incantano e ci insegna suoni e costruzioni nuove, come è la costruzione di un amore. Ed è stupore, ed è lividi e fatica, per quel niente che è la preghiera del racconto, fatto di carne e di sputo nel buio di un teatro. Come il mare quando è notte.
E succede ogni mercoledì. Da due mesi. Dentro lezioni di scrittura drammaturgica, che pensavo “non ci riesco” e invece ci riesco. Alla fine ci riesco, ogni mercoledì.
Ed è questo che sento sulla nave che mi riporta a casa. Che va a dritta, e non ho più paura del mare che si nasconde e posso guardare le montagne che si allargano e vibro, con le onde che mi accompagnano. E’ un racconto imprevedibile questa vita, di lividi e stupore.
Tizianeda
“Possiamo cenare ascoltando i Queen?”
“Certo Agnese. Allora ti è piaciuto il film”
“Moltissimo. Adoro i Queen. Al cinema cantavamo a squarciagola le canzoni”
“E non disturbavate? Ma quindi le sai a memoria?”
“Sì”
“Ma al cinema eravate tutti ragazzi?”
“Misti. C’eravamo noi e poi gli anziani”
“Anziani? Cosa intendi per anziani”
“Ecco…”
“Stai impiegando troppo tempo a rispondere”
“Che succede?”
“Sposo tua figlia ha appena detto che siamo anziani”
“Chi?”
“Io e te. Più tu, però, che sei più vecchio”
“Ma mamma, non volevo dire anziani… cioè quelli come voi”
“Ti perdono solo perché ti piacciono i Queen. Io ero innamorata di Freddy”
“Non eri innamorata di David Bowie?”
“Sì anche e di Miguel Bosè e di George Michael e… vabbè ceniamo accendi la musica…”
In sintesi. La sedicenne canta i Queen, perlopiù al cinema e a squarciagola. Sono anziana. Da giovane avevo una preoccupante promiscuità mentale per amori impossibili e immaginari. Quando è morto Freddy ho sentito un certo dolore. Ricordo, come fosse qui e ora, chi me lo comunicò, dove, e quando. Persino le luci del corridoio mi ricordo e il colore spento delle pareti. George Michel mi ha rovinato la prima adolescenza con le sue canzoni lente. I coetanei non mi invitavano e io stavo lì seduta a pensare a David Bowie, forse. Freddy era erotico, proprio come David. Mentre scrivo questo post, youtube manda un video con questi due insieme. Sono belli e sembrano per sempre. Cantano Under Pressure. E’ soltanto un rimestio di passato… a kinde of magic.
Tizianeda
Ciao Domenico. Quanti, domani? Tredici. Sono tredici, lo so. Tredici anni che ti guardo. Che ti annuso come le lupe, arresa alle ossa che crescono e si allungano, alla voce che cambia, al saluto dell’infanzia. Un ibrido ora. Un ritmo di mezzo. La rincorsa prima del salto.
Ciao Domenico, che ogni anno sono qui, a dirti ciao. Con il rimestio di nostalgia, la risacca muta del mio sentire. Ciao, che l’altro giorno abbiamo parlato in macchina io e te. Che mi hai aperto un pezzo di mondo, quello fuori, che affronti solo, che devi decodificare e attraversare perché, a volte, non ne capisci le logiche. Ti fermi, davanti alle dissonanze dei marchingegni, di questo orologio che è la vita, che cambia il ritmo a ogni istante di lancette. Ciao, che sei silenzioso, riservato, gentile, altrove, un passo in là, sopra gli alberi. Il Barone rampante, che mi fa innervosire, per l’ostinazione dei pensieri. Ciao, che devi imparare a essere più morbido e duttile, quando il mondo fuori ti investe.
Ma fai anche come sai, con quel modo che mi innamora e non mi posso soffermare, di sederti composto e distante. E perdona i miei agguati di abbracci e baci, che a volte ti faccio a sorpresa, come un clown buffo. Perché, sul serio, sarebbe troppo. Sarebbe ingiusto. E tu così ridi e dici “mamma” e io mi scosto e poi ti guardo quando non vedi e dici “ciao”, di spalle, già sopra gli alberi, ad aggiungere tasselli di ore. Le tue.
Auguri Domenico, auguri mio bel ragazzo.
Tizianeda
La mamma vecchietta è seduta a capotavola. Interno cucina. La sua. Le stesse mattonelle di cinquant’anni fa, come il tavolo e le sedie. Il posto era di mio padre, che non c’è più. Sulla sedia di mia madre io, accanto mia nipote, la cugina gemella di Domenico, mio figlio, impegnato altrove con la sorella. E’ l’ora di pranzo. Abbiamo fame. La mamma vecchietta ha cucinato il timballo di riso. Nessuno ha il coraggio di dirle quello che veramente pensa del suo timballo di riso e ce lo mangiamo, tutto quanto è nel piatto. La mappazza di riso all’uovo. Ma chi se ne frega che non è buono. La mappazza ha fatto sedere insieme noi tre e con un po’ di vino scende bene, in fondo. E si chiacchiera noi donne. Poi arriva la zia Dada, mia sorella, che è più grande di me di un anno, ma sembra una ragazza con il suo corpo da adolescente e il viso di pesca. Perché nella distribuzione dei geni, la natura fa sempre un po’ come minchia le pare. E ci si stringe e la zia Dada si siede pure per mangiare la mappazza di riso. E le dico, bevi che è meglio. Stiamo ancora sedute, anche quando sua figlia, la cugina gemella di Domenico si alza. E rimaniamo, noi tre donne adulte, a chiacchierare. E si sta anche per il caffè e i biscotti con i semi di sesamo, che mia madre tiene sempre per noi. E si sta ancora un po’, noi a sentirci figlie e la mamma vecchietta meno sola. Si sta dentro la cucina, il luogo del calore e della consolazione. Di una pausa, dal mondo fuori che fa rumore.
Sulla tavola, lasciamo briciole e semi.Il ricordo dei biscotti. Il caffè, invece, si è preso la stanza con il suo odore buono e lì resta. Devo andare. Esco dalla cucina. “Vado” dico. “Te ne vai? Non andare” mi risponde. Ma vado. Bacio le tre generazioni della mia famiglia. Il mio miscuglio di donne.
Esco e ritornano le cose.
Tizianeda
Domenico ha tredici anni, quasi. I ciuffi neri disordinati in testa, come quando era bambino, il corpo ossuto, disinteresse estremo per gli accostamenti cromatici dei vestiti che indossa. Parla solo se necessario, ha la compostezza di un nobile dell’era vittoriana, non dice parolacce, e per smuoverlo dai suoi convincimenti bisogna faticare, non sempre con risultati positivi. E’ riservato, distratto, disordinato, sa custodire le confidenze degli amici, non ha malizia e ha una passione smodata per i video giochi, da contenere quotidianamente. Domenico sorride. E lo fa spesso.
Giorni fa sono stata invitata dalla scuola che frequenta, per parlare di libri, scrittura e libertà. Che prima sono entrata in una classe e i ragazzini si sono alzati ed è stato bello sentire tutto quello strusciare di banchi e sedie. E avevano gli occhi curiosi e il taccuino in mano che gli aveva regalato Manuela, la prof di lettere appassionata, che sa parlare con loro e ha creato un laboratorio di scrittura. E c’era la cugina gemella di Domenico con i capelli a molla che era contenta. E dopo un’ora di chiacchiere lì, sono entrata in aula magna con altri tredicenni e altri occhi e domande che neanche un adulto avrebbe avuto tanta sagacia. E c’era Domenico, che si vedeva che era felice assai. E non potevo stare a guardarlo a lungo, che mi si rivoltavano le viscere e sentivo tutto un rimestio di cuore. E poi è arrivata la mamma vecchietta, che in quella scuola, molti anni prima, era stata insegnante di Italiano. E i ragazzini la guardavano con incanto, come quei personaggi strani che per magia escono dalle pagine di un libro, o di un blog. E anche se le sue orecchie catturano suoni confusi, sembrava anche lei molto contenta. Come i suoi nipoti. Come lo ero io. Perché quando arrivano mattini o giorni o ore così, è un bel vivere, è un bel sorridere a questa esistenza che certo a volte è proprio torva e faticosa e non sai dove poggiarci i piedi, ma poi all’improvviso, succede che arrivano regali inaspettati e per fortuna sorridi e le viscere si rivoltano ed è tutto un rimestio di cuore.
Tizianeda
Un po’ di tempo fa ho scritto un monologo. Poi ho chiesto a Silvana di leggerlo. Con Silvana, che è un’attrice dai capelli ricci e rossi e di una bellezza antica, ci siamo incontrate e ogni volta che riflettevamo sulle parole, il testo è stato limato, cambiato, riassemblato. Poi il monologo è stato letto da Christian, che è un regista. E un giorno, in un posto davanti al mare dove lo avevo incontrato per caso, Christian ha detto: “si fa”. E io che c’ho l’entusiasmo fisico, l’ho abbracciato e pure tanto. Silvana e Christian hanno un Teatro che si chiama Primo ed è a Villa San Giovanni, vicino la mia città sbilenca. Ha le poltroncine rosse, si può bere vino ed è un bel posto dove sostare.
“Se dici Eva”, che è il titolo del monologo che ho scritto, non è come i post lievi di questo blog, non è un diario autobiografico, e nel parlare di donne mostra il lato nascosto della luna. Sono felice che Eva avrà la voce, il corpo e l’intensità di Silvana e che a dirigerlo sarà un uomo dalla sensibilità rotonda. Perché questa è la cosa più femmina che io abbia mai scritto. E sono contenta che verrà la mamma vecchietta, che per l’occasione, ha detto, andrà prima dal parrucchiere, ma visto che è a maggio, non è sicura di arrivarci. Io ci confido, così come confido nella sua sordità senile, che non le farà sentire, per fortuna di entrambe, tutte le parole del testo.
Però se la mamma vecchietta aspetterà maggio, voi venite prima al Teatro Primo. Seguite, se potete, la stagione, che inizierà a novembre. Venite per diventare parte di quei luoghi del sud suddissimo che creano cultura e movimento. In primavera, poi, ci sarà Eva. Avrà qualcosa da dirvi anche lei.
Tizianeda
E’ un periodo che Tizianeda si sente strana. Così strana che si piazza davanti allo schermo del suo pc per scrivere, ma le parole non arrivano. Chi la conosce e le vuole bene, le dice che passerà, che succede, di lasciar perdere, di vivere e non pensarci. Allora lascia che la vita scorra normale. Per esempio la mattina va davanti al mare e cammina. Quaranta minuti a passo veloce, per rafforzare il cuore, il respiro e il silenzio. Ogni mattina saluta il pescatore che vive sulla spiaggia con le sue barche. Il pescatore che le sorride sempre, le dice di essere felice, e di stare attenta a dove appoggia i piedi scalzi sulla battigia. Tizianeda gli è molto grata per questa attenzione di padre. Quando è con i piedi che spostano le onde, pensa che lì è tutto fermo e profumato. Anche se il mare non smette di muoversi mai. E Tizianeda chiede al mare dove siano finite le parole che devono essersi incastrate da qualche parte, che ancora non sa. E allora sbuffa e aspetta. Si siede davanti a lui e sta muta, che per ora il silenzio le viene bene ed è meglio quando le parole si perdono. Si siede e guarda lontano, fino a che gli occhi non inciampano sulle montagne dell’isola di fronte e chissà se lo sguardo le ritorna indietro come una eco. E forse a furia di rimbalzarle addosso, il meccanismo fermo delle parole, riprenderà a girare.
Nel frattempo cammina, respira, sta in silenzio e cerca di non ferirsi con i cocci di bottiglia, che però sulla superficie pulita della battigia, lei non ha mai visto.
Tizianeda
Si racconta, nella mia famiglia, che la nonna Ines fosse mezza donna e mezza santa. Come le sirene, un po’ foreste, un po’ onde.
Si racconta, che vedesse quello che gli altri non vedono mai. Tipo la Madonna, le luci nelle stanze buie, e un santo che si chiama Antonio. Ora questo Antonio che in vita era santo, quando lei gli chiedeva qualcosa, pare che l’ascoltasse. Non sempre però. Perché, si dice, che i santi, per un motivo che nessuno sa, non possano raddrizzare sempre le cose storte. Anzi, pare, che spesso nella vita, ciò che è dritto all’improvviso si torce e tu, non puoi farci niente e non c’è santo che tenga. Così per la nonna Ines, come per tutti. Ma lei, non si arrabbiava mai con Antonio e la vita le piaceva uguale, nonostante gli schianti improvvisi, quello che finisce e non torna più, la fatica, i cassetti da risistemare, le ore allagate, l’incomprensibile delle parole, i giorni che non sono accaduti e quelli che sono accaduti troppo. E se proprio si sentiva triste, preparava una torta, di quelle che lei non poteva mangiare, per colpa dello zucchero che le consumava il cuore, anche se le mangiava uguale. Ma tanto il suo cuore, pure smangiucchiato e dolorante, aveva l’ostinazione. Così, tutto ammaccato com’era, amava. Dalle crepe, dai battiti scoscesi, dalle capriole, dalle corse di gambero, dai giri di altalena, dal battere dei piedi. E non si arrabbiava mai con il santo di nome Antonio, che pure a lui voleva bene, anche se arreso e impotente davanti al dolore dei vivi, e forse, proprio per questo, gliene voleva di più.
Tizianeda
Sono andata, consigliata dallo sposo, più esperto di me in queste cose. Si trova dentro una piccola traversa che guarda la Villa Comunale e che non ci passano macchine.
E’ piccolo, illuminato quanto basta, forse un po’ meno di quanto basta, disordinato, come può essere la stanza di un adolescente che sì sistema, ma senza grandi slanci estetici.
Quando arrivo ci sono tre uomini concentrati su una rivista. Per il resto è un via vai di persone. Uomini. I tre continuano a guardare la rivista, la sfogliano, fanno fotografie. Sono molto attenti. Stanno scegliendo. Il proprietario del negozio spiega. I tre attenti, annuiscono. Con i completi da calcio non si scherza mica. Poi studiano i borsoni. Quelli che di solito ti porti in palestra. Scopro che esistono borsoni da cinque, otto, dieci pezzi. Che ci fanno gli uomini con dieci pezzi nei borsoni? In uno ci mettono una scarpa, in un altro l’altra, in un altro ancora il bagno schiuma, poi c’è il pezzo per il dopobarba, uno per mutande e canottiera e via facendo. Si accorgono della mia presenza. Perché li fisso da quando sono arrivata. Con stupore. Sono dispiaciuti per la mia attesa. Io invece sono contentissima. Quando mi ricapita di poter studiare i comportamenti maschili, senza sembrare troppo invadente. No, no continuate, siete proprio come noi donne nei negozi, gli dico. Mi guardano male. Continuano. Però è vero. Siamo uguali accidenti. Non lo avevo mai capito. Poi vanno via. Peccato. Tocca a me. Gli chiedo delle scarpe per le mie camminate veloci. Il proprietario del negozio di sport, mi invita a stare dritta con le gambe unite. Mi studia. Questo esame lo sposo non me lo aveva preannunciato. Sceglie le scarpe adatte. Le porta, mi fa sedere, le indosso, si siede di fronte. Poggia il piede sul ginocchio, mi dice sicuro. Ho la minigonna. Ora che faccio. Sono l’unica imbecille che va a comprarsi le scarpe da ginnastica con la minigonna. Ma questo è un esperto. Meticoloso, preciso, concentrato. Vabbè, è come andare dal medico in fondo. Manco mi vede. Eseguo. Prima una gamba poi un’altra. Sistema le scarpe appoggiate sulle sue ginocchia. Che figata però. Non mi allacciavano le scarpe da quando ero bambina. Usciamo, mi dice. In che senso? Vieni a camminare fuori sulla strada. Vado. Cammino, quasi corro. Su e giù, tipo sfilata. Te ne faccio provare un altro paio per scrupolo, mi dice. Ma no vanno benissimo. Insisto, dice. Lo seguo. Di nuovo gambe poggiate sulle ginocchia e lacci allacciati. Nuove scarpe. Non vanno bene. Buona la prima. Non ce ne sono altre da provare. Pago, saluto. Torna per farmi sapere la resa. Lo farò, rispondo. Vorrei dirgli che ci starei nel suo negozio. Per osservare. Ma non glielo dico. Domani vado a mare. Domani le indosso e cammino veloce per più di quaranta minuti. Che il mare così, mi manca. Andrò con le scarpe nuove che mi hanno allacciato come fossi una bambina, e mi hanno regalato buonumore, in questo tardo pomeriggio, di fine estate.
Tizianeda