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Tàlia, c’ha la mancanza. La mancanza di Agnese, la dicannovenne, che è tornata nella sua città universitaria per ricominciare con le lezioni in presenza. Ricominciare tasselli di normalità, di causa ed effetto del quotidiano, delle scelte, della giovinezza, della vita insomma. Però Tàlia, la gatta che c’ha i suoi disagi esistenziali e che ha scelto solo Agnese da amare, o almeno così a noi sembra, l’assenza la vive come uno strappo inspiegabile. “E’ stata tutto il pomeriggio a miagolare dietro la porta”, mi ha detto lo sposo, quando l’altra sera sono tornata a casa dal lavoro e a un giorno dalla partenza di Agnese. E come la spieghi la vita a una gatta, che si irrigidisce quando la accarezziamo per chissà quali suoi meccanismi, ché i traumi non li abbiamo solo noi umani e il dolore, attraversa ogni esistenza. E cerchiamo allora di maneggiarla con ancora più delicatezza, sapendo che anche da lei impariamo, dando senza chiedere, sfidando la tenerezza, esercitandoci nel toccare con cura un essere per lo più incomprensibile, dentro un impasto di peli e innocenza. Quando circa un anno e mezzo fa ci è stata consegnata una vita nuova, in cui la scansione del tempo si è modificata, dove la distanza è divenuta unità di misura dell’attenzione per chi amiamo, ma anche per gli sconosciuti, misura di un interesse collettivo alla cura, ho pensato che fossimo tutti dentro una sospensione. Ma non so più se è stato ed è così. Forse il tempo, al contrario, si è addensato, come quando i sensi, per proteggerci dal pericolo, si acuiscono. E la mancanza si è accomodata dentro questo ingranaggio che ha iniziato a muoversi a ritmi diversi rispetto a prima. Un pendolo dall’oscillazione imprevedibile, o forse, per la prima volta, profondamente in sincronia con tutto il resto. E se tutti ci muoviamo alla stessa velocità, si ha la percezione che ogni cosa sia ferma. Ma così non è. Una sincronia di mancanza e dolore, che dovrebbe farci dismettere ogni faccenda inutile e che ci allontana da noi stessi, per concentrarci su questo movimento, concentrarci sui nostri abissi e sulle possibilità di vertici. E tentare la cura, per ogni piccolo essere fermo davanti a una porta chiusa, soggiogato da un’attesa senza risposta. Diventare filo che imbastisce pezzi di stoffa, che compone orli sfilacciati, cuce strappi sonsapevole delle proprie mani incerte e dei segni che restano. Amando, in pratica, ché è una parola spaventosa, a pensarci, per quanto è fragile.
Tizianeda