2019 archive
“I figli non danno niente, prendono e basta. I figli non danno niente, prendono e basta. Dico bene?”.
Questo mi ha detto, ripetendolo due volte, per rafforzare la verità del pensiero, una donna, dentro una bottega, mentre aspettavamo di scegliere formaggi e insaccati. L’ho guardata. Sembrava stanca. La mia voce interiore mi diceva: zitta Tiziana, zitta, non fare i tuoi soliti sermoni del cavolo, sulla bellezza della maternità. Perciò ho blaterato qualcosa. Tipo… un sermone del cavolo sulla bellezza della maternità, facendomi mandare affanculo dalla mia voce interiore, mentre la donna stanca mi voltava le spalle e sceglieva il prosciutto. Così sono andata via con il mio sacchetto di spesa, pensando alla stronza moralista del cavolo che sono. Perché la donna stanca ha ragione. I figli prendono. Da subito prendono. Per prima cosa prendono il sangue, appena sono una promessa di vita dentro il tuo utero. Sono l’eucarestia dei valori sballati. Prendono lo spazio. Senza chiedere il permesso spingono cuore, fegato, polmoni ai margini del campo e si piazzano al centro. Prendono le forme del corpo e della pelle che si stira, dilata, resiste, perde. Prendono le ore della notte e del giorno e il tempo che viene dopo e il fiato che usi per correre e una buona parte del conto corrente e il pensiero del futuro, il loro, in questo mondo che francamente, a volte, è una strada di cocci di vetro e sputi di rabbia. E questo e quello prendono. E la donna stanca ha ragione a essere così stanca con tutti questi pensieri nella testa. Perché i figli ti prendono la ragione, per sempre. Che stai lì a chiederti, come si fa ad innamorarsi così, di questi invasori del cuore e delle viscere. Questi spacciatori di immortalità illusoria, che ti viene da accasciarti, a volte, per il sentire irrazionale, per l’innamoramento che ti rende intollerante a ogni altro amore. I figli prendono. La possibilità di lasciarti andare, prendono. Di impazzire quando la vita è tempesta. Prendono la tentazione della resa, di abbassare lo sguardo, di dimenticare la forza dell’attesa e del nostro stare al mondo. E ti prendono gli occhi tuffandosi dentro, maghi di incantamento, ladri di orizzonte, rammendatori delle nostre fragilità. Ha ragione la donna stanca dentro la bottega. I figli non danno. I figli ti prendono, così come sei.
Tizianeda
Il trasloco è l’incipit di tutte le buone intenzioni, che
finiscono sempre allo stesso modo. Male. Dopo dieci anni, ho cambiato la sede
del mio studio di avvocata. Ho infilato le tristi carte, insieme a forzuti
uomini, in scatole e scatoloni e le ho portate altrove. Poiché sono la trainer di me stessa, mi sto persuadendo che il cambiamento migliorerà le mie
criticità, la mia tendenza al disordine, la mia scarsa attitudine alle azioni
meccaniche, ripetitive, noiose, ma necessarie a produttività ed efficienza.
Olè. Come se poi il trasloco fosse una sorta di reincarnazione, che ogni volta
ti ritrovi una persona migliore dentro un corpo diverso. Invece no. Anche se il
contenitore cambia, sei la persona difettosa di sempre. Però all’inizio lo
sforzo è massimo. Mentre dirigi e operi il traffico degli scatoloni da
sballare, svuotare e ridurre in poltiglia saltandoci sopra come un insegnante
di pilates sudato e lercio, dentro sei già Marie Kondo. Ti convinci così tanto della
trasformazione, che la penna che ogni
tanto usi per vergare di qua e di là, la
riposizioni in quell’oggetto che hai sempre ignorato. Il portapenne. Questo
succede, la prima settimana. Poi ti prende un certo malessere e la penna si
sposta sul tavolo. Poi la porti in giro
per le stanze e la perdi. Poi il portapenne senza penne lo usi per metterci palline
di carta e oggetti non identificati. Poi perdi anche il portapenne e il
problema è risolto.
La verità è che potrò cambiare mille volte luogo in cui diversamente sostare, ma dentro quelle stanze incontrerò sempre me stessa. Benché gli sforzi e le buone intenzioni raggiungano vertici di quasi commozione e tratti di ingenua tenerezza. Quindi, non riuscendo a essere il buon esempio di me stessa, per un miglioramento, confido nella reincarnazione. Perché, ne sono certa, nella prossima vita sarò organizzata, efficiente, allineata, consapevole, disciplinata, ordinata, lucida, giapponese e decisamente noiosa.
Tizianeda
Ciao ragazzo, che mi piace guardarti di nascosto, un passo indietro, quando non sai, ché certi amori vanno annusati così, dentro una tana, dietro una tenda, da sotto un tavolo, dall’alto di un dirupo, dalle viscere e dal cuore, dal principio del ventre. Ciao regalo di carne, amore taciuto dentro l’espandersi del petto, nel mio respiro pieno, quando ti guarda e impallidisce la vita come fiato sul vetro, che sparisco davanti al tuo naso e alle orecchie e agli occhi. Occhi che non so le profondità nascoste e non le oso. Ed ecco che la inscatolo questa commozione così assurda e la vorrei stracciare ma poi lei resta, da qualche parte resta.
Marchio di madre che ha dimenticato il prima, quando il tempo era lento e tu e tua sorella, non eravate misura del passare. Ciao che ho quattordici tacche incise, che sono stipite, muro scarabocchiato, diario segreto, alfabeto decifrato. Ciao ragazzo che a volte arrivi e mi sorridi, così con noncuranza e mi artigli alla vita e si dilata il cuore. Ciao, che mi innamori, da quattordici anni ormai, tu sei qui che mi innamori.
Auguri Domenico. Auguri bel ragazzo.
Tizianeda
Come prima cosa, sono
andata a guardarmi allo specchio, come seconda
mi sono detta: che minchia ho fatto, come terza ho cercato di
dimenticare le parole pronunciate dalla madre, che si trovava giusto
appunto sul pianerottolo di casa, al mio rientro dalla parrucchiera.
“Figghia che cumbinasti, sìì paccia, mah!” che tradotto significa: “Sei la solita dissennata, qual è il disagio
interiore che vuoi esprimere, figlia mia?”.
Cosa spinga una donna a modificare radicalmente l’assetto
dei suoi capelli, la scienza ancora non lo ha scoperto. Ma succede che
un bel giorno ci svegliamo e decidiamo. E’ un po’ come il quadro che
frana all’improvviso. E così accorciamo, cambiamo colore, taglio,
intenzione dentro quel luogo colorato e onirico, pieno di feromoni e
acidi delle tinte, di chiacchiere, di specchi a cui riponi tutte le
aspettative estetiche.
Quel luogo che entri Miserynondevemorire e vorresti uscire Jennifer Lopez.
“Tagliamo” ho detto a Teresa. E lei serafica, certa della sua arte, lo
ha fatto, nella sua casa-laboratorio, rifugio, dispensatore di
aspettative e possibili felicità, o di terribili delusioni in cui la
tipa di Misery potrebbe vincere e Jenny andare via con il suo culone
perfetto. Ma Teresa sa, e ha proceduto con destrezza e non si è fermata,
anche quando ho accennato timidamente: mamma mia sono corti assai e lei
ha risposta: ancora non abbiamo finito e ha continuato a tagliare con
piglio chirurgico e la sicumera di Edward, svelandomi il volto.
Perché è questo il punto. Il volto, che compone la geografia dell’anima,
la narrazione spietata delle nostre ore interiori, senza la boa di
ciuffi e ricci. E allora che fai? Stai e ti guardi, anche se c’è un
certo dolore nel rivelarsi a sé. Guardi il volto restituito dallo
specchio, la tua nudità e senti che è tutto lì, che il primo sguardo da
cercare deve essere il tuo. E ringrazi te stessa per la follia e le
inquietudini, per le fragilità esibite che a volte vincono sulla paura
di mostrarle e per la tenerezza di chi ti sta accanto, nonostante i
nostri fantasmi, o forse, proprio per questo loro abitarci.
Tizianeda
Si avvicina con un gesto. Poggia le mani sulle sue guance, lo
accarezza, gli dice: “bello” e poi lo abbraccia. Agnese e suo padre. La
diciassettenne e lo sposo un tempo errante e oggi abitante stanziale dei 90 mq.
Lui ripone la sua giornata torva altrove, si ammorbidisce. Lei si allontana con
la grazia e la forza di chi sa il necessario e il tempo esatto. Li guardo,
faccio i miei commenti stupidi, rovino tutto io a volte. Non sanno, invece,
quanto mi riposi la fugace perfezione che la vita ancora mi regala.
E penso. Penso ai gesti. Senza parole, o con pochi suoni ad accompagnarli, perché
il più non serve. I gesti si imparano, si assorbono, osservando la grazia degli
altri, contagiosa come una cura del fare. Oppure no. C’è un principio che li
innesta, c’è una memoria del prima, che si riattiva ogni volta che il mondo
fuori ne reclama l’urgenza e tu sai già la risposta, sai le braccia, rifugio
del bambino addormentato.
I gesti e le parole. Ci penso spesso ultimamente. Vengono dal corpo entrambi, la stessa genesi. Sono fratelli da accordare, come le note. Siamo liutai senza più memoria, perché i giorni ce la strappa a morsi e lividi. Perché noi. Difettosi e piccoli, che del dolore e dell’aria attorno ne facciamo poltiglia.
“Bello”, dice Agnese a suo padre. E’ bastato un attimo. E’ bastato
che non fosse dentro uno schermo qualsiasi, è bastato che non fosse arrotolata
su se stessa, è bastato quel giorno, per altri giorni di altrove. Ma in quel
momento è bastato.
Un gesto, una parola, e prima ancora l’intuizione del liutaio
che sente le note smarrite.
I gesti e le parole. Quelle pronunciate. Perché non è vero che queste volano via. Rimangono anche loro, come quelle scritte, forse anche di più. Le parole pronunciate dentro i gesti si posano, diventano boa e confine, se pure momentanei. Giù e dentro i nostri spazi incomprensibili e rumorosi.
Tizianeda
– Stai con me che mi fumo una sigaretta.
– Va bene madre, allora prendo un sigaro e facciamo le viziose.
Così è stata la mattina tra me e la mamma vecchietta, verso le undici. Lavoravo, poca voglia, molto sonno, colpa del cambio di stagione. Il peggiore tra tutti. Il passaggio dall’estate all’autunno. Il capro espiatorio per l’accidia, il sonno compulsivo, la stanchezza cronica da scalatore di Everest senza bombole, il nervoso cha a tratti sale e non sai perché, il pianto facile, il colon irritato, l’intolleranza al genere umano, l’intolleranza agli specchi, alla sveglia, al clima che cambia come nell’armadio di Narnia che entri con il sandali e il pareo e ti ritrovi in mezzo ai ghiacci antartici, a Jennifer Lopez bona come chi ha venduto le sue cellule al diavolo ma poi ha deciso di diventare paladina delle cinquantenni normocellule e intollerante quasi a tutto insomma. Nel cambio di stagione puoi. Non è colpa tua. E’ lo sdoppiamento con triplo salto mortale e supercazzola prematurata della personalità. E’ la fine irreversibile delle vacanze, è la fatica del corpo pervaso da zombità e dominato da narcolessia. La mattina mi trovavo appunto in questa condizione di disagio meteoropatico, vinta dal pensiero dell’imminente trasferimento di studio, circondata dalle tristi carte che mi guardavano come un monaco del medioevo che ti ricorda che devi morire e pure male. E così sono andata a trovare la mamma vecchietta, ché su di lei il cambio di stagione ha l’effetto di un moscerino contro il parabrezza di una Ferrari sul circuito di Monza. Intenzionata a bere un po’ del suo caffè freddo per poi tornare immediatamente alle incombenze. Perché nel cambio di stagione disciplina e forza d’animo devono vincere sul male. Ma siccome nella vita le buone intenzioni rimangono nel limbo del “lo faccio dopo”, il caffè l’ho accompagnato al gelato e poi sono passata al salato e poi la mamma vecchietta mi ha tentata con la lusinga di una pausa prolungata di cinque minuti che sono diventati più infinito. Così siamo andate in salotto e abbiamo fumato. Lei la sua sigaretta, io il sigaro. E mentre ero lì, ho pensato che era la prima volta che facevamo questa cosa qui, la mamma vecchietta ed io, rilassate a chiacchierare, unite dal vizio, come vecchie tabagiste. In realtà la madre monologa, io ogni tanto rispondo, lei sente quello che vuole. Ha l’udito selettivo da saggezza, chiamato impropriamente sordità. In quei momenti ogni paturnia climatica esistenziale è svanita e ogni cambio possibile mi è sembrato superabile davanti a questa donna di ottantasette anni, a tratti naif, che ha sempre argomenti su cui conversare, che fa tutte le parole crociate della settimana enigmistica vergandole di rosso, che compra e legge libri, che si è organizzata il funerale e ride della morte, che ogni pomeriggio alle sei recita e canta i rosari con i preti della televisione e che si è adattata agli ultimi cambiamenti della sua vita, come un monaco zen portato all’improvviso su un altro pianeta. Poi i nostri vizi sono stati fumati, io ho avuto un rigurgito di responsabilità e sono tornata tra le carte da traslocare. Ogni cosa, però, in quel momento, mi è sembrata più facile.
Tizianeda
La donna nasce, vive, muore, nel triangolo delle Bermuda delle tre M: menarca, mestruazioni, menopausa. Il profondo rosso femminino. Il mangia, prega, impreca delle ovaie. Quando il Menarca, si preannuncia alle porte del tuo utero, come la campane di un monacono Tibetano pellegrino, d’incanto, ti elevi al rango di “signorina”. Tua madre piange, i parenti di sesso femminile si congratulano e tu ti senti l’iniziata di una setta segretissima quando invece sta soltanto iniziando la tua vita di M. Tre in tutto. Negli anni ottanta se avevi le mestruazioni eri “indisposta”. Si cresceva con la malattia del ciclo e non dovevi dirlo, anche se i crampi addominali ti squarciavano i sentimenti. Gli assorbenti si nascondevano sotto la biancheria, tipo i maschi con le riviste con Moana Pozzi in copertina. Poi è arrivata la SPM. L’acronimo del terrore. La sindrome pre mestruale che scatena l’ Armageddon. Il punto M che se lo tocchi muori. Quando sei giovane e hai un ritardo potresti essere incinta. Quando non sei più giovane e hai un ritardo le amiche per rincuorarti ti elencano gli effetti devastanti della morte nera: la menopausa. Così ti viene la menopausa isterica anche se sei incinta e dopo nove mesi di caldane, di pancia gonfia e di consigli inutili, partorisci tre gemelli. Tutti maschi. Per dimostrare quanto ci siamo evoluti, sui pacchetti monouso degli assorbenti hanno stampato scritte intelligenti e surreali. Tipo che è una figata piangere in quel periodo lì e che durante l’ovulazione sei bellissima e luminosa. Anche se poi la verità dello specchio ti mostra una donna color verde vomito che piange vinta dalla saudage ovarica, da demoni ormonali e ti chiedi perché non sei un pubblicitario della Lines, o meglio non ti trovi davanti un pubblicitario della Lines, giusto per dargli una craniata ché c’hai la sindrome e ti devi sfogare.
Questo per dire che vivere una vita di M non è sempre facile. Ma ciò che è naturale spesso è reso complicato da definizioni e giustificazioni e da una invasiva schizzofrenia che ci vuole perfette e performanti. La donna e i cicli sono legati e imprescindibili e la donna è davvero mobile, ma non nel senso di quella canzone stupida. Tutto si muove e accade dentro, come un ingranaggio. Non così dissimile dai tanti ingranaggi dell’universo di cui contempliamo la magnificenza e la grandezza, quando poi dovremmo soffermarci a guardare anche la nostra. E pazienza se il colorito è verde vomito, e a tratti ci trasformiamo in esseri spaventosi e di una fragilità che ci schianta sopra il pavimento. O forse, è proprio per questo, che dovremmo amarci di più.
Tizianeda
La trovo seduta sul divano, sgrana fagioli, sembra una bambina. E’ brava a sgranare, mia madre, abituata com’è con i rosari. Quando ero piccola, come sembra lei ora, li dicevo anche io i rosari. Da sola tutte le sere, tipo fissata. Ma non sono mai stata disciplinata, men che meno con Dio e così ho smesso. Mi sembrava non finissero mai tutti quei grani e che mi bloccassero dentro un tempo infinito, da occupare meglio in giochi o sogni. Mia madre no. E’ una vita che dice rosari e sgrana con disinvoltura. Dice che prega pure per me che non lo faccio e che ai dogmi preferisco dubbi e domande, che la parola “peccato” l’ho sostituita con “responsabilità”, anche che se a volte mi sembra di disattendere anche questa. E piuttosto che in un al di là, preferisco credere nell’al di qua, avendo più bisogno della nostra fiducia, messo male com’è. Intanto mia madre sgrana fagioli e più spesso rosari, come un mantra che le restituisce un centro e l’aiuta a vivere meglio e fregarsene della morte, almeno la sua. Che tanto lei il suo funerale se lo è già bello organizzato, con i canti e le parole da scrivere sul manifesto e ci manca poco che lascia, al prete della parrocchia, la predica da dire. E ci ride sopra, che lei, pure alla morte sa pezzo pezzo, che piccola com’è, magari la scambia per una bambina e se la dimentica.
Intanto mia madre sgrana i fagioli seduta sul divano, mi siedo accanto. Parliamo del giorno che è trascorso e di chi lo ha popolato, delle persone a cui vogliamo bene. Le nominiamo una ad una. Mia madre non lo sa, eppure su questo divano che è qui forse da sempre, io e lei, stiamo pregando insieme.
Tizianeda
Ciao voi due, che da un po’ non abito queste stanze che mi accompagnano e mi riportano a un nucleo
ancora cercato, da più di sette anni. Ho
lasciato che agosto passasse, ed ora in questo mese transumante, è iniziato l’anno nuovo. Ciao che settembre è ricominciare da uno, dopo lo zero che è stata
l’estate, che non sto qui a raccontarvi tutto il sentire e il vedere e il
tacere e il dire di questo carnevale che a volte è la vita. No, che le
complicanze dei grandi e i loro buffi costumi, sono racconti ostili alla
giovinezza. A voi i tratti sereni che mi riprendono per mano, a ogni sguardo,
dentro un quotidiano che è ritorno continuo.
Ciao Agnese con i tuoi agguati di abbracci e quel tuo cuore a
un passo dalla malinconia. Ciao, così confusa in questo tempo di scelte future,
che ancora non sai, che ancora non sappiamo. E tuo padre ed io a farci vigili
anche per te. Ciao che sei un rifugio per i tuoi amici anche se taci anche se
non dici, così essenziale, così discreta. E questo mi innamora. Ciao che ci
sono i tuoi pezzi di mondo che non so, ma che intuisco e mi insegnano al passo
indietro, dentro questo spazio liquido che è il tempo.
Ciao Domenico che a settembre sarà liceo e già, tu, hai
iniziato. Ciao ragazzo gentile, così solido e sereno a dispetto del corpo esile
della fragilità conservata che è la tua forza. Ciao che i tuoi nuovi compagni,
dici, sono simpatici e tua sorella ora è più serena che ha sguinzagliato
guardie del corpo, i suoi amici, per le stanze del liceo. Ma tu, hai un modo
unico di difenderti dalle dissonanze, continuando sulla tua linea retta. Facendoti
amare. Sai mettere a fuoco i desideri senza farti influenzare, un dono raro,
che mi innamora e mi insegna.
Ciao voi due, che a volte vorrei fuggirvi e a volte lo faccio
per questo travolgente sentire, per questa travolgente fatica. Ciao che se non
avesse scelto il mio corpo, senza il privilegio del vostro amore, non ci
sarebbe stato il luogo del ritorno, il punto sulla cartina da segnare, il reale
e solido, dentro un mondo che forse non lo è.
Ciao che settembre è un mese strano di rimestii e di
ripartire e di propositi sempre disattesi e di scelte attese e troppe volte
rinviate.
Ciao voi due che dentro questo carnevale che è la vita, mi mostrate il vostro volto, che mi innamora.
Tizianeda
“Anche io ho scritto un libro, sai?” Così si presenta, prima che le chieda il nome. “Hai il nome della terra, sai?” , lei allarga gli occhi e mi inonda. Poi parla, Gaia, parla del suo libro, dell’amore per i gatti, i cani, la matematica, la lettura e sorride. La vita è un posto bello, visto da Gaia. I grandi sono scomparsi, anche io e l’accumulo dei miei anni. C’è lei, che mi chiede cosa non capisca della matematica e io non so rispondere. Tutto, credo. Vuole sapere se ho figli, se c’è qualcuno che abbia la sua età, o almeno gli anni vicini ai suoi. Le dico di no, vuole vederli. Le mostro le fotografie sul cellulare. Li osserva. Li studia. Poi sentenzia. Lui secondo me è più simpatico, dice, indicando Domenico. Le sorrido. Non lo so Gaia, a me piacciono tutti e due, da morire. Parliamo a voce bassa, per non disturbare i grandi. Ho sette anni anche io in quel momento, come lei sorrido con gli occhi enormi, invento storie magiche, dove il brutto non esiste, solo l’amicizia e i gesti felici, dove un gatto può diventare amico di un vulcano emerso dal mare, ho anche i denti storti, più di adesso. I grandi parlano e spiegano. Lei mi riporta, tenendomi per mani, allo stupore e alla meraviglia. L’infanzia ha il colore degli alberi, è fresca, piena di fiducia. L’infanzia è gaia.
Tizianeda