In studio tra le tristi carte, Alexa decide di farmi ascoltare la canzone di Sting, Every Breath You Take. In un attimo ho quindici anni, sono a Londra, in un college, è estate, sono in classe con altri italiani. Con il prof assegnato stiamo lavorando su questa canzone. Il prof è davvero uno stro~nzo psicopatico, non ama gli italiani, non ama nessuno. Mi sposto con i ricordi, c’è un ragazzo all’ingresso del college, mi dice “you are pretty”, io penso sia un insulto, anche perché io pretty non mi sentivo per niente. Quando capisco non mi capacito, ma sorrido. Sorrido anche ora. Mi sposto ancora con la mente, c’è un pollo con una salsa verde in un piatto e degli spaghetti cucinati dalla cuoca di origine italiane. Nessuno mangia i suoi spaghetti collosi. Valle a spiegare che non basta avere nel DNA geni italiani per cucinare spaghetti al dente. Lei si offende. Mi sposto ancora. C’è un ragazzo dai tratti orientali, davvero davvero carino. Madonna che carino. Lui mi chiama Titiana, viene da Toronto. Una sera cerca di baciarmi e io cretina mi ritraggo. Ho pensato a mille cose in quel momento, tipo che mi potesse contagiare l’AIDS, o chissà, forse ingravidarmi. Oh Titiana mia. Tanto ormai è andata. Mi sposto. Sul muro del corridoio c’è una scritta fatta con una matita nera. Quella che Jack usava per gli occhi. L’ho detto che era carino? C’è scritto, ciao Titiana. L’ha lasciata di notte, fuggendo dal college per non pagare la retta. Neanche un bacio e mi ha salutata. Magari se lo baciavo mi scriveva una poesia. Chissà che vita ha avuto nel futuro Jack, se ha continuato a fuggire per non pagare il conto. Mi sposto. La prima notte, nel college, con ragazzi e ragazze ubriachi che gridano e picchiano forte alle porte. Ho una fifa nera. Penso, sfonderanno la porta e mi uccideranno. Mia sorella, nella stanza con me, dorme e non sente nulla. I ragazzi e le ragazze non hanno sfondato nessuna porta, io non sono stata uccisa, al college ci si ubriacava tutte le sere. La canzone è finita, i ricordi svaniscono insieme alla ragazzina di quindici anni ingenua come Polliana, spaventata e insicura e pretty, anche se non lo sapeva. Le tracce che la vita lascia si perdono, salvo riaffiorare a tratti. Se potessi andare ora in quei giorni lì, direi a Titiana, resisti perché succederanno cose e verrà il giorno in cui non avrai più paura. E per favore, bacia Jack.
Mia madre ha sparigliato le carte del tempo, vive in un iperrealismo magico, la sua mente si muove in un romanzo di Marquez amplificato, dove il passato si mescola con il presente e i vivi e i morti si incontrano, si scambiano i ricordi, partecipano agli avvenimento del futuro, mentre a noi che siamo ancora qui, la memoria ci sposta in stanze antiche. La nonna Bianca c’era al mio matrimonio e mia figlia era presente quando sono nata. È un parteciparsi continuo, un accavallarsi di luoghi, un farci compagnia, come se le vite non finissero mai, si avviluppassero in una festa a più piani e strati. Io non la contraddico, anche quando chiama mio figlio Francesco, che poi, chi è Francesco? Piccola com’è si incazza forte e c’ha pure ragione. Io a volte uso il jolly Padreterno, quando proprio non so che dire o forse penso di non farcela. Il jolly per lei, devota ai rosari e alle chiese. “Ma’ offriglielo al Signore”, le dico e cerco di farmi convinta, ma forse non lo sono abbastanza, perché dura poco l’effetto e ritorna a incazzarsi. Mia madre è un’altra madre con cui io e i miei fratelli ci confrontiamo ogni giorno. La signora che sta con lei è gentile, ma mia madre se potesse, la farebbe sparire con uno sguardo, tipo Goldrake che annienta i nemici con il laser. E la capisco, e la giustifichiamo con la signora come le madri a scuola con i figli inquieti, perché quella presenza è la resa alla vecchiaia, al suo essere ribelle e indipendente, al suo voler tornare al mare, uscire sola, funzionare come prima, ricordare, provare piacere per le cose. “Quanto sei bela e secsi”, mi dice la signora che sta con lei, quando vado da mia madre, e io vorrei dirle che non sono cosi, sono solo stanca e magari è ‘sta stanchezza interiore a darmi un’aria docile. Sono stanca delle cose che cambiano in continuazione e all’improvviso, proprio quando pensi di aver trovato un posto comodo in cui stare, e invece tutto si spariglia, come le madri che invecchiano. Ma poi mi passa e cerco conforto, indosso l’orologio regalato dalla nonna Bianca per la mia prima comunione e che mia sorella ha ritrovato dopo decenni di oblio. C’è un movimento circolare attorno a tutti e tutte noi, penso. L’orologio ha il ticchettio di cuore accelerato dei neonati e le lancette si muovono a modo loro. Misurano il tempo come mia madre, penso e mi placo. Non lo farò aggiustare, mi piace così, scombinato come la vita. Con l’orologio al polso come una protezione vado da lei, mi accomodo con i vivi e con i morti che ci guardano dalle fotografie. Ci raccontiamo storie nuove.
(in questa foto di un paio di anni fa, che amo molto, scattata da mia sorella, Mara in versione “non ce n’è per nessuno”. Oggi incaricata all’acquisto delle sigarette è la cugina Bianca, la nipote che ha cresciuto. È bizzarra e sorprendente la vita)
Ciao tu, ciao che oggi sono diciannove, che c’è uno srotolarsi del tempo e di ossa e di cellule a una velocità che non so misurare. Ciao che questo è un anno nuovo per te, che vivi la distanza e la abiti, che è sorprendente il modo in cui ti sei accomodato nelle tue nuove stanze, come se fosse stato semplice, come se fosse stato immediato. Alle spalle c’è un vento di vita cucita, ci sono diciannove anni in cui ti sei preparato per i giorni in cui vivi il campus, i nuovi amici, la casa con i coinquilini, i colleghi universitari. Ciao che sei partito con il fiato corto sull’autobus che ti portava verso nuove meccaniche, perché il nuovo ci spaventa ed è un richiamo affascinante. Ciao che dopo una settimana già il sorriso era mutato, più largo e sicuro e il modo di muoverti nello spazio e il tuo sguardo irresistibile, ora ancora di più, sperimentando una felicità nuova, una solitudine necessaria e allegra. Ciao Domenico, che ti osservo da dietro un angolo, da diciannove anni, di nascosto, a distanza, che non mi posso soffermare che mi si slarga il cuore a dismisura, come il precipizio, come questo amare senza bordi e recinzioni. E pratico il distacco necessario e osservo in te un suono nuovo, una sinfonia di toni, una serenità ritornata di chi sta imparando nel confronto con le ore e la direzione si fa chiara. Ciao che vuoi crescerti i capelli, ritornando al desiderio di bambino e sulla testa hai l’anarchia e aspetti, che non ti importa questa attesa. Che c’è un tempo, c’è un tempo anche per ascoltare il tuo nucleo arancione che è rimasto intatto, quello del seienne che correva per le stanze, sognando avventure e incontri e immaginando mondi dove fiorire, in gentilezza, con coraggio, accettando l’inciampo, questo essere corpi scelti e ossa che si allungano e i battiti a tratti accelerati quando apriamo porte su stanze nuove. Ciao tu, che ci sia sempre quel nucleo arancione a guidarti e a non corrompere lo sguardo. Auguri mio bel ragazzo, auguri Domenico.
Mia madre ha le ossa fragili, sostengono con fatica la sua anima ribelle, la mente ha intermittenze di memoria, che la riportano indietro nei pensieri, in un loop nuovo e inesplorato, per noi figli. L’estate ha i giorni fragili, nel tentativo di ricomporre pezzi di esistenza che, a volte, sembra evaporare nella mancanza di senso. È il troppo caldo dicono, fa perdere consistenza ai pensieri. Anche il mondo sembra perdersi in un loop già visto, già sentito. La guerra, i bambini, la troppa stupidità, l’odio per la libertà degli altri, l’ignoranza che cataloga ed esclude e questo e quello cosi dissonanti e stonati. Calpestiamo cocci di vetro dai nostri primi passi. Sono in montagna anche quest’anno. È la meta estiva, arrivata in ritardo, un grappolo di giorni in cui riesco a essermi indulgente in un distacco effimero. Non mi annoio, la vita sociale qui è un lumino, vengo per ricompormi nel silenzio degli alberi, anche se poi il chiasso arriva. Sarà perché quest’anno mi sembra che il mondo sia una moltiplicazione di scricchiolii di ossa, come quelle di mia madre. Ed è un gioco semplice sentirsi dimidiata in questa meta, in quest’agosto che gioca al ribasso, in questo rimestio che oscilla, come un’altalena che non si decide tra il cielo e la terra. Sembra sbiadita questa estate nelle sue mancanze e trasformazioni, in questo osservare e ascoltare ogni sottofondo di suono e crepa dell’altro, il nostro muoverci impacciati o impazziti, chissà, mentre imparo a saltare con la corda, in un’ostinazione infantile, cercando balzi leggeri che ancora non trovo, per non sentire troppo la durezza del suolo, per rafforzare il respiro e i muscoli e le ossa con il loro destino di fragilità, in una fuga ferma sul posto che solleva la terra e che non si vuole arrendere.
Mi piacerebbe, ma solo certe volte, quando i pensieri mi stanno di traverso, entrare nella testa della gente, capire che cosa è andato storto, l’inceppamento, il flusso divergente, se dentro è tutto morto. Mi piacerebbe entrare nella testa di tutti quei ragazzi che si muovono coi muscoli pompati, con movenze di tacchini un po’ cretini, che stanno tutto il giorno a tirar pesi, sognando di menare i coetanei che sono mingherlini e c’è più gusto a farlo tutti in gruppo, che tra i vigliacchi, nel podio, sono i primi. Entrare nella testa di chi picchia chi ha un pensiero differente, che è bello per loro menar la gente, pensando di esser migliori e invece poverelli, sono pedine di tutti quei potenti, che danno lor l’abbaglio di esser forti, di ricino muniti e manganelli. Vorrei davvero entrare nel cervello, capire cosa spinge un Calabrese a fidarsi di chi ha portato nei comizi elettorali, tutto il suo odio verso il meridione, chiamandoci terroni, schifosi, puzzolenti, cattivi nullafacenti. Augurandoci la morte, per mano di un vulcano o un terremoto, per poi cambiare in base all’esigenza, spostando solo più al sud il suo nemico. La paura prolifera, loro sanno, nel seggio il voto e al Parlamento lo scranno. Vorrei capire cosa non vi è chiaro, se è ignoranza, opportunismo, mancanza di memoria. Come si può portare a Roma chi poi vota, contro i diritti della gente. Chi invece di chiedere allo Stato di lottare contro ingiustizie e corruzioni, si svende, facendosi poi selfie, come a un party divertente, associando la Calabria alla Padania che è un luogo, lo sanno tutti, inesiste. Vorrei capire, in questa Italia triste e prepotente, entrare nel cervello del “padrone”, perché non sente il dolore della gente. Come si fa a non avere il moto che dell’umano fa veder l’altro, provare commozione e compassione per il dolore di un corpo mutilato. Come si fa a non sentir che un arto non è un prodotto da vendere al mercato, da infilare nella cassetta degli ortaggi, e poi lasciarlo sull’uscio di una casa, insieme all’uomo da cui è stato staccato. Come si fa a non pensare al dopo e a credere che tutto è consentito, perché dei poveri a nessuno importa niente. Vorrei davvero farmi ‘sto viaggi tra le sinapsi di tutta questa gente, anche se penso che lì non trovo niente, oppure frano davanti all’evidenza, che è tutto un non sentire il battito dell’altro e perdo la pazienza. E allora resto fuori e cerco altre persone che sanno costruire, restituire pensiero e narrazione, con la visione di chi, sapendo il buio, sentendo addosso l’altro e il suo dolore, accende un fuoco in cerca di chiarore.
The quiet girl è una bambina, ha nove anni, non parla quasi mai, ha uno sguardo altrove e un corpo che lascia, durante la notte, tracce di dolore sul materasso. Vive in una famiglia povera affollata di fratelli e sorelle, di quelle che non ci vorresti mai capitare. Il padre conosce solo il linguaggio dell’umiliazione, la madre cammina piegata dal peso dei sogni infranti, sostituiti da un ventre buono a figliare e basta. The Quiet Girl è il titolo di un film irlandese, che ho visto su Raiplay, in cui Cait, la bambina silenziosa dallo sguardo altrove, durante l’estate viene affidata a parenti della madre, due coniugi non più giovani, che hanno una fattoria a tre ore di macchina da casa sua. Viene lasciata lì dal padre, come un pacco di cui sbarazzarsi in fretta. I coniugi che la ospitano e che hanno un dolore muto, di quelli profondi e taglienti, che tuttavia non ha corrotto il nucleo di bontà che li abita, si prendono cura di lei. Lo fanno con la semplicità dei gesti e delle parole, con una vita geometrica e l’attenzione di chi sa di maneggiare qualcosa di fragile e misterioso, come sono i bambini rotti, con dentro l’urgenza della fioritura e il linguaggio del silenzio, perché hanno conosciuto precocemente l’offesa delle parole. The Quiet Girl è un film senza retorica, in cui anche il dolore è sussurrato, diventando sottofondo della umana condizione di tutti i personaggi che lo attraversano. Eppure ci rivela la forza sovversiva dei gesti gentili e amorevoli, che curano nella loro ripetizione, offrendo a una bambina abitata da mancanze e solitudini, la possibilità di un altro sguardo, di un’altra direzione verso la quale correre, con il cuore e le gambe diventati forti, e una parola rinnovata, soffiata in un abbraccio, perché non più suono ostile.
Guardo i nastrini poggiati sul davanzale della finestra dello studio. Anche la nonna Bianca li curava sul suo balcone. Non posso lavorare per qualche ora. Non c’è la corrente elettrica. Il quartiere è stato tappezzato di volantini. Ci avevano avvertito. Non c’è luce, penso. Tra i nastrini c’è una pianta diversa, sembra erba cipollina anche se non lo è. A settembre sulla punta degli steli verdi, spuntano piccoli fiori bianchi. È una fioritura breve. Bisogna che gli occhi ne assorbano la bellezza fragile. Poi si insedierà un’attesa di 355 giorni per 10 giorni di grazia. Mi affaticano le attese. Meglio non pensarci. C’è sempre un rimbalzo simbolico tra ciò che osserviamo e noi. Potrebbe rivelarci con ferocia le nostre esistenze in bilico, nella ricerca di tregua e distrazione, mentre siamo braccati dall’incomprensibile, dai rimandi di orrore che ci bruciano gli occhi. Guardo le foglie delle piante che sventolano, come una bandiera bianca rivolta verso il giorno. Anche se le mie piante non sanno in che precipizio sta cadendo il mondo, in quale resa di umano. Non c’è luce, mi ripeto da stamattina, come un mantra di tenebra. Non c’è luce a Gaza, non c’è luce ogni volta che le voci sono inghiottite in un buco nero, diventano interruttori rotti, senza contorni e possibile dolcezza di suono e le strade tombe sottratte alle risate dei bambini. Eppure sto qui davanti la finestra a guardare i nastrini e a credere nella fioritura breve della pianta senza nome, come l’attesa di una concessione di bontà e di gentilezza, nonostante la banda sguaiata degli umani e il richiamo del disincanto. Sto qui, penso, anche se non c’è luce.
Mia madre perde i suoi cappelli ovunque. Sulle panchine, nelle chiese, in edicola, nelle botteghe, dal fioraio, le scivolano sui cigli della strada. Quando succede, chiede. Al parroco, all’edicolante, agli amici delle panchine, a tutti noi della famiglia, ai fiori, al salumiere, ai cigli delle strade, a Gesù, alle mattonelle dei marciapiedi, ai ciuffi d’erba che spuntano dalle crepe, alle fotografie dei morti, ai davanzali, ai passeri, alle signore affacciate ai balconi. Mia madre e i suoi 92 anni, che l’hanno accartocciata e le fanno sentire i dolori delle ossa, non smettono mai di cercarli. Alcuni cappelli si perdono per sempre, come se scappassero in un mondo segreto e felice, dove poter vivere liberi dalle teste. Gli altri fuggitivi, invece, vengono ritrovati dagli abitanti del quartiere, che ormai conoscono gli smarrimenti di mia madre. Anche ieri mattina ne ha perso uno, lo teneva in mano, io e mia sorella eravamo con lei. È stata Bianca a trovarlo, la nipote. Quando lo ha portato a sua zia, per festeggiare, lei le ha offerto il Cynar, l’amaro contro il logorio della vita moderna, ha fumato una sigaretta e si è goduta quell’attimo di tregua prima che svanisse, come i cappelli e ogni cosa che sembra immutabile e non lo è. Perché smarribili sono gli ombrelli, smarribili i ventagli, le penne, i calzini, così certi amori, le amicizie, alcuni ricordi, il giorni della settimana, il perché delle canzoni che ci hanno portato altrove, così le direzioni, i desideri, il per sempre, la vita di prima, le illusioni del tempo, i luoghi che non riconosciamo più, il piacere che un libro ci ha dato, i nomi pronunciati e poi sostituiti da altri. È un grande accumulo di oggetti perduti la vita, come i cappelli, finiti chissà dove, di mia madre. Eppure in questo brulicare di umano che a tratti sembra confuso e senza direzione, c’è una ricerca di inaspettato e di tregua, la nascosta tenerezza dei naviganti che aspettano le stelle, come cercatori di briciole di pane lasciate da altri sulla strada, che tracciano involontarie rotte, in quella dimensione di mistero che le fa trovare e in qualche modo ritrovarci.
{La foto è stata scattata da Bianca, mentre mia madre, nonché sua zia, contrastava il logorio della vita moderna}
Il giorno in cui indossavo una brutta camicia da notte gialla e una bambina sostava indisturbata da circa sette mesi dentro la mia pancia, ho conosciuto il dottore D’Ascola. Ero in ospedale, la bambina accomodata tra i miei organi interni e che sarebbe nata due mesi dopo, si chiamava Agnese da qualche ora, i miei globuli rossi erano in agitazione sindacale, il dottore non sembrava preoccuparsi del mio dress code ospedaliero, che certo non giovava al mio incarnato anemico. Il dottore D’Ascola che di sangue se ne intendeva, abituato com’era ad affrontare situazioni ben più gravi della mia, mi spiegò, con l’aria serafica di chi fa del lavoro una vocazione e dell’umano un orizzonte da non perdere di vista, che, per eliminare quell’affanno da scalatore scarso bloccato sull’ Himalaya, avrei dovuto ricevere delle trasfusioni. La notizia mi fece apparire la camicia da notte gialla ancora più brutta, anche se il sorrido calmo del dottore D’Ascola era qualcosa di buono cui aggrapparmi. Quando per la prima volta andai nel reparto di Microcitemia che lui dirigeva, c’erano ragazze e ragazzi, trasfusi dalla nascita. Lui li conosceva tutti e tutte e di tutti e tutte mi elencava con orgoglio gli ostacoli superati, i traguardi raggiunti, la forza, nonostante quella intercapedine che condizionava il quotidiano. Anche per il secondo figlio ho avuto bisogno di supporto ematico, ma per fortuna, la brutta camicia da notte gialla era sparita da tempo. Quando incontravo per strada il dottore D’Ascola , lo salutavo come un familiare di cui ci si fida, o come le persone gentili che a tratti hai la fortuna di incontrare nella tua vita, specie se arrivano nei momenti di affanno. Quando ho saputo della sua morte ho sentito un vero dispiacere. Il dottore D’Ascola, non solo era un bravo medico, ma era anche una persona buona. In questo immenso circo che sta diventando il mondo, in cui si è pronti ad affondare i denti nella carne dell’altro, la bontà e la gentilezza mi appaiono con sempre più chiarezza l’unica azione sovversiva possibile per attraversare la vita, per salvare i bambini e le bambine, anche quelli offesi, dentro di noi. A questo penso da quando ho saputo della morte del dottore D’Ascola, che un giorno è entrato nella mia stanza di ospedale e non ha visto la brutta camicia da notte gialla, ma solo il mio sperdimento e mi ha sorriso.
(nella foto sono ritratta il giorno prima che un taglio sulla pancia servisse per l’ingresso al mondo di Agnese. Faccio la cretina, cosa che mi accade spesso quando ho paura. E di paura ne avevo molta quella sera)
Ciao tu che sono 22, ciao Agnese. Hai un contare palindromo addosso, giovane come uno schiocco di dita. Ciao mia tutta bella, costruzione d’acqua e atomi, di materia e malinconia, di costellazioni di numeri, la tua ostinata coraggiosa rotta, con la paura del mai abbastanza. L’abbastanza non esiste, è un’unità di misura ingannevole, innestata chissà quando chissà dove, da spolverare quando si poggia sulla pelle, perché non penetri, perché non deformi il tuo incedere libero. Ciao, girati, girati appena, guarda le antenate di ogni luogo e tempo e il loro lavoro di dita, sono dentro di te dal tuo primo pianto insanguinato, nella rabbia dei polmoni, nel nostro primitivo contatto di occhi, i miei così sperduti, il tuo già di lama. Girati appena, ascoltale chiedere al futuro di essere voce incessante e canto con il desiderio della rotta, ne portiamo il messaggio e il segreto e tu lo sai. Ciao solitaria, ciao silenziosa, ciao bella, ciao groviglio, disordine, labirinto, gatta, coraggio, respiro. Ciao che sai sparire in una stanza, nei tuoi altrove che sfioro, dalla distanza dei cercatori di soglie, in un osare di abbraccio per sentirti a me e a me ancora un attimo e poi lasciarti nel tuo affaccio di sole, nel tuo sfidare le nuvole mentre con le dita tocchi senza sosta i capelli che hai voluto rossi, nuovo battesimo di nome. Continua a esplorati, continua a esplorare, il balzo e il sussulto, i codici che ci portano all’essenza, il movimento tellurico del cuore che ci fa vedere gli altri e proteggere l’innocenza del mondo. Ciao mio incanto inaspettato di cellule, buon compleanno Agnese, auguri mia tutta bella.
(il compleanno è stato il 21, ma non sono riuscita a pubblicare quel giorno. Mi perdonerai Agnese, se un giorno leggerai, questo ritardato)
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