Ciao tu, ciao che oggi sono diciannove, che c’è uno srotolarsi del tempo e di ossa e di cellule a una velocità che non so misurare. Ciao che questo è un anno nuovo per te, che vivi la distanza e la abiti, che è sorprendente il modo in cui ti sei accomodato nelle tue nuove stanze, come se fosse stato semplice, come se fosse stato immediato. Alle spalle c’è un vento di vita cucita, ci sono diciannove anni in cui ti sei preparato per i giorni in cui vivi il campus, i nuovi amici, la casa con i coinquilini, i colleghi universitari. Ciao che sei partito con il fiato corto sull’autobus che ti portava verso nuove meccaniche, perché il nuovo ci spaventa ed è un richiamo affascinante. Ciao che dopo una settimana già il sorriso era mutato, più largo e sicuro e il modo di muoverti nello spazio e il tuo sguardo irresistibile, ora ancora di più, sperimentando una felicità nuova, una solitudine necessaria e allegra. Ciao Domenico, che ti osservo da dietro un angolo, da diciannove anni, di nascosto, a distanza, che non mi posso soffermare che mi si slarga il cuore a dismisura, come il precipizio, come questo amare senza bordi e recinzioni. E pratico il distacco necessario e osservo in te un suono nuovo, una sinfonia di toni, una serenità ritornata di chi sta imparando nel confronto con le ore e la direzione si fa chiara. Ciao che vuoi crescerti i capelli, ritornando al desiderio di bambino e sulla testa hai l’anarchia e aspetti, che non ti importa questa attesa. Che c’è un tempo, c’è un tempo anche per ascoltare il tuo nucleo arancione che è rimasto intatto, quello del seienne che correva per le stanze, sognando avventure e incontri e immaginando mondi dove fiorire, in gentilezza, con coraggio, accettando l’inciampo, questo essere corpi scelti e ossa che si allungano e i battiti a tratti accelerati quando apriamo porte su stanze nuove. Ciao tu, che ci sia sempre quel nucleo arancione a guidarti e a non corrompere lo sguardo. Auguri mio bel ragazzo, auguri Domenico.
Mia madre ha le ossa fragili, sostengono con fatica la sua anima ribelle, la mente ha intermittenze di memoria, che la riportano indietro nei pensieri, in un loop nuovo e inesplorato, per noi figli. L’estate ha i giorni fragili, nel tentativo di ricomporre pezzi di esistenza che, a volte, sembra evaporare nella mancanza di senso. È il troppo caldo dicono, fa perdere consistenza ai pensieri. Anche il mondo sembra perdersi in un loop già visto, già sentito. La guerra, i bambini, la troppa stupidità, l’odio per la libertà degli altri, l’ignoranza che cataloga ed esclude e questo e quello cosi dissonanti e stonati. Calpestiamo cocci di vetro dai nostri primi passi. Sono in montagna anche quest’anno. È la meta estiva, arrivata in ritardo, un grappolo di giorni in cui riesco a essermi indulgente in un distacco effimero. Non mi annoio, la vita sociale qui è un lumino, vengo per ricompormi nel silenzio degli alberi, anche se poi il chiasso arriva. Sarà perché quest’anno mi sembra che il mondo sia una moltiplicazione di scricchiolii di ossa, come quelle di mia madre. Ed è un gioco semplice sentirsi dimidiata in questa meta, in quest’agosto che gioca al ribasso, in questo rimestio che oscilla, come un’altalena che non si decide tra il cielo e la terra. Sembra sbiadita questa estate nelle sue mancanze e trasformazioni, in questo osservare e ascoltare ogni sottofondo di suono e crepa dell’altro, il nostro muoverci impacciati o impazziti, chissà, mentre imparo a saltare con la corda, in un’ostinazione infantile, cercando balzi leggeri che ancora non trovo, per non sentire troppo la durezza del suolo, per rafforzare il respiro e i muscoli e le ossa con il loro destino di fragilità, in una fuga ferma sul posto che solleva la terra e che non si vuole arrendere.
Mi piacerebbe, ma solo certe volte, quando i pensieri mi stanno di traverso, entrare nella testa della gente, capire che cosa è andato storto, l’inceppamento, il flusso divergente, se dentro è tutto morto. Mi piacerebbe entrare nella testa di tutti quei ragazzi che si muovono coi muscoli pompati, con movenze di tacchini un po’ cretini, che stanno tutto il giorno a tirar pesi, sognando di menare i coetanei che sono mingherlini e c’è più gusto a farlo tutti in gruppo, che tra i vigliacchi, nel podio, sono i primi. Entrare nella testa di chi picchia chi ha un pensiero differente, che è bello per loro menar la gente, pensando di esser migliori e invece poverelli, sono pedine di tutti quei potenti, che danno lor l’abbaglio di esser forti, di ricino muniti e manganelli. Vorrei davvero entrare nel cervello, capire cosa spinge un Calabrese a fidarsi di chi ha portato nei comizi elettorali, tutto il suo odio verso il meridione, chiamandoci terroni, schifosi, puzzolenti, cattivi nullafacenti. Augurandoci la morte, per mano di un vulcano o un terremoto, per poi cambiare in base all’esigenza, spostando solo più al sud il suo nemico. La paura prolifera, loro sanno, nel seggio il voto e al Parlamento lo scranno. Vorrei capire cosa non vi è chiaro, se è ignoranza, opportunismo, mancanza di memoria. Come si può portare a Roma chi poi vota, contro i diritti della gente. Chi invece di chiedere allo Stato di lottare contro ingiustizie e corruzioni, si svende, facendosi poi selfie, come a un party divertente, associando la Calabria alla Padania che è un luogo, lo sanno tutti, inesiste. Vorrei capire, in questa Italia triste e prepotente, entrare nel cervello del “padrone”, perché non sente il dolore della gente. Come si fa a non avere il moto che dell’umano fa veder l’altro, provare commozione e compassione per il dolore di un corpo mutilato. Come si fa a non sentir che un arto non è un prodotto da vendere al mercato, da infilare nella cassetta degli ortaggi, e poi lasciarlo sull’uscio di una casa, insieme all’uomo da cui è stato staccato. Come si fa a non pensare al dopo e a credere che tutto è consentito, perché dei poveri a nessuno importa niente. Vorrei davvero farmi ‘sto viaggi tra le sinapsi di tutta questa gente, anche se penso che lì non trovo niente, oppure frano davanti all’evidenza, che è tutto un non sentire il battito dell’altro e perdo la pazienza. E allora resto fuori e cerco altre persone che sanno costruire, restituire pensiero e narrazione, con la visione di chi, sapendo il buio, sentendo addosso l’altro e il suo dolore, accende un fuoco in cerca di chiarore.
The quiet girl è una bambina, ha nove anni, non parla quasi mai, ha uno sguardo altrove e un corpo che lascia, durante la notte, tracce di dolore sul materasso. Vive in una famiglia povera affollata di fratelli e sorelle, di quelle che non ci vorresti mai capitare. Il padre conosce solo il linguaggio dell’umiliazione, la madre cammina piegata dal peso dei sogni infranti, sostituiti da un ventre buono a figliare e basta. The Quiet Girl è il titolo di un film irlandese, che ho visto su Raiplay, in cui Cait, la bambina silenziosa dallo sguardo altrove, durante l’estate viene affidata a parenti della madre, due coniugi non più giovani, che hanno una fattoria a tre ore di macchina da casa sua. Viene lasciata lì dal padre, come un pacco di cui sbarazzarsi in fretta. I coniugi che la ospitano e che hanno un dolore muto, di quelli profondi e taglienti, che tuttavia non ha corrotto il nucleo di bontà che li abita, si prendono cura di lei. Lo fanno con la semplicità dei gesti e delle parole, con una vita geometrica e l’attenzione di chi sa di maneggiare qualcosa di fragile e misterioso, come sono i bambini rotti, con dentro l’urgenza della fioritura e il linguaggio del silenzio, perché hanno conosciuto precocemente l’offesa delle parole. The Quiet Girl è un film senza retorica, in cui anche il dolore è sussurrato, diventando sottofondo della umana condizione di tutti i personaggi che lo attraversano. Eppure ci rivela la forza sovversiva dei gesti gentili e amorevoli, che curano nella loro ripetizione, offrendo a una bambina abitata da mancanze e solitudini, la possibilità di un altro sguardo, di un’altra direzione verso la quale correre, con il cuore e le gambe diventati forti, e una parola rinnovata, soffiata in un abbraccio, perché non più suono ostile.
Guardo i nastrini poggiati sul davanzale della finestra dello studio. Anche la nonna Bianca li curava sul suo balcone. Non posso lavorare per qualche ora. Non c’è la corrente elettrica. Il quartiere è stato tappezzato di volantini. Ci avevano avvertito. Non c’è luce, penso. Tra i nastrini c’è una pianta diversa, sembra erba cipollina anche se non lo è. A settembre sulla punta degli steli verdi, spuntano piccoli fiori bianchi. È una fioritura breve. Bisogna che gli occhi ne assorbano la bellezza fragile. Poi si insedierà un’attesa di 355 giorni per 10 giorni di grazia. Mi affaticano le attese. Meglio non pensarci. C’è sempre un rimbalzo simbolico tra ciò che osserviamo e noi. Potrebbe rivelarci con ferocia le nostre esistenze in bilico, nella ricerca di tregua e distrazione, mentre siamo braccati dall’incomprensibile, dai rimandi di orrore che ci bruciano gli occhi. Guardo le foglie delle piante che sventolano, come una bandiera bianca rivolta verso il giorno. Anche se le mie piante non sanno in che precipizio sta cadendo il mondo, in quale resa di umano. Non c’è luce, mi ripeto da stamattina, come un mantra di tenebra. Non c’è luce a Gaza, non c’è luce ogni volta che le voci sono inghiottite in un buco nero, diventano interruttori rotti, senza contorni e possibile dolcezza di suono e le strade tombe sottratte alle risate dei bambini. Eppure sto qui davanti la finestra a guardare i nastrini e a credere nella fioritura breve della pianta senza nome, come l’attesa di una concessione di bontà e di gentilezza, nonostante la banda sguaiata degli umani e il richiamo del disincanto. Sto qui, penso, anche se non c’è luce.
Mia madre perde i suoi cappelli ovunque. Sulle panchine, nelle chiese, in edicola, nelle botteghe, dal fioraio, le scivolano sui cigli della strada. Quando succede, chiede. Al parroco, all’edicolante, agli amici delle panchine, a tutti noi della famiglia, ai fiori, al salumiere, ai cigli delle strade, a Gesù, alle mattonelle dei marciapiedi, ai ciuffi d’erba che spuntano dalle crepe, alle fotografie dei morti, ai davanzali, ai passeri, alle signore affacciate ai balconi. Mia madre e i suoi 92 anni, che l’hanno accartocciata e le fanno sentire i dolori delle ossa, non smettono mai di cercarli. Alcuni cappelli si perdono per sempre, come se scappassero in un mondo segreto e felice, dove poter vivere liberi dalle teste. Gli altri fuggitivi, invece, vengono ritrovati dagli abitanti del quartiere, che ormai conoscono gli smarrimenti di mia madre. Anche ieri mattina ne ha perso uno, lo teneva in mano, io e mia sorella eravamo con lei. È stata Bianca a trovarlo, la nipote. Quando lo ha portato a sua zia, per festeggiare, lei le ha offerto il Cynar, l’amaro contro il logorio della vita moderna, ha fumato una sigaretta e si è goduta quell’attimo di tregua prima che svanisse, come i cappelli e ogni cosa che sembra immutabile e non lo è. Perché smarribili sono gli ombrelli, smarribili i ventagli, le penne, i calzini, così certi amori, le amicizie, alcuni ricordi, il giorni della settimana, il perché delle canzoni che ci hanno portato altrove, così le direzioni, i desideri, il per sempre, la vita di prima, le illusioni del tempo, i luoghi che non riconosciamo più, il piacere che un libro ci ha dato, i nomi pronunciati e poi sostituiti da altri. È un grande accumulo di oggetti perduti la vita, come i cappelli, finiti chissà dove, di mia madre. Eppure in questo brulicare di umano che a tratti sembra confuso e senza direzione, c’è una ricerca di inaspettato e di tregua, la nascosta tenerezza dei naviganti che aspettano le stelle, come cercatori di briciole di pane lasciate da altri sulla strada, che tracciano involontarie rotte, in quella dimensione di mistero che le fa trovare e in qualche modo ritrovarci.
{La foto è stata scattata da Bianca, mentre mia madre, nonché sua zia, contrastava il logorio della vita moderna}
Il giorno in cui indossavo una brutta camicia da notte gialla e una bambina sostava indisturbata da circa sette mesi dentro la mia pancia, ho conosciuto il dottore D’Ascola. Ero in ospedale, la bambina accomodata tra i miei organi interni e che sarebbe nata due mesi dopo, si chiamava Agnese da qualche ora, i miei globuli rossi erano in agitazione sindacale, il dottore non sembrava preoccuparsi del mio dress code ospedaliero, che certo non giovava al mio incarnato anemico. Il dottore D’Ascola che di sangue se ne intendeva, abituato com’era ad affrontare situazioni ben più gravi della mia, mi spiegò, con l’aria serafica di chi fa del lavoro una vocazione e dell’umano un orizzonte da non perdere di vista, che, per eliminare quell’affanno da scalatore scarso bloccato sull’ Himalaya, avrei dovuto ricevere delle trasfusioni. La notizia mi fece apparire la camicia da notte gialla ancora più brutta, anche se il sorrido calmo del dottore D’Ascola era qualcosa di buono cui aggrapparmi. Quando per la prima volta andai nel reparto di Microcitemia che lui dirigeva, c’erano ragazze e ragazzi, trasfusi dalla nascita. Lui li conosceva tutti e tutte e di tutti e tutte mi elencava con orgoglio gli ostacoli superati, i traguardi raggiunti, la forza, nonostante quella intercapedine che condizionava il quotidiano. Anche per il secondo figlio ho avuto bisogno di supporto ematico, ma per fortuna, la brutta camicia da notte gialla era sparita da tempo. Quando incontravo per strada il dottore D’Ascola , lo salutavo come un familiare di cui ci si fida, o come le persone gentili che a tratti hai la fortuna di incontrare nella tua vita, specie se arrivano nei momenti di affanno. Quando ho saputo della sua morte ho sentito un vero dispiacere. Il dottore D’Ascola, non solo era un bravo medico, ma era anche una persona buona. In questo immenso circo che sta diventando il mondo, in cui si è pronti ad affondare i denti nella carne dell’altro, la bontà e la gentilezza mi appaiono con sempre più chiarezza l’unica azione sovversiva possibile per attraversare la vita, per salvare i bambini e le bambine, anche quelli offesi, dentro di noi. A questo penso da quando ho saputo della morte del dottore D’Ascola, che un giorno è entrato nella mia stanza di ospedale e non ha visto la brutta camicia da notte gialla, ma solo il mio sperdimento e mi ha sorriso.
(nella foto sono ritratta il giorno prima che un taglio sulla pancia servisse per l’ingresso al mondo di Agnese. Faccio la cretina, cosa che mi accade spesso quando ho paura. E di paura ne avevo molta quella sera)
Ciao tu che sono 22, ciao Agnese. Hai un contare palindromo addosso, giovane come uno schiocco di dita. Ciao mia tutta bella, costruzione d’acqua e atomi, di materia e malinconia, di costellazioni di numeri, la tua ostinata coraggiosa rotta, con la paura del mai abbastanza. L’abbastanza non esiste, è un’unità di misura ingannevole, innestata chissà quando chissà dove, da spolverare quando si poggia sulla pelle, perché non penetri, perché non deformi il tuo incedere libero. Ciao, girati, girati appena, guarda le antenate di ogni luogo e tempo e il loro lavoro di dita, sono dentro di te dal tuo primo pianto insanguinato, nella rabbia dei polmoni, nel nostro primitivo contatto di occhi, i miei così sperduti, il tuo già di lama. Girati appena, ascoltale chiedere al futuro di essere voce incessante e canto con il desiderio della rotta, ne portiamo il messaggio e il segreto e tu lo sai. Ciao solitaria, ciao silenziosa, ciao bella, ciao groviglio, disordine, labirinto, gatta, coraggio, respiro. Ciao che sai sparire in una stanza, nei tuoi altrove che sfioro, dalla distanza dei cercatori di soglie, in un osare di abbraccio per sentirti a me e a me ancora un attimo e poi lasciarti nel tuo affaccio di sole, nel tuo sfidare le nuvole mentre con le dita tocchi senza sosta i capelli che hai voluto rossi, nuovo battesimo di nome. Continua a esplorati, continua a esplorare, il balzo e il sussulto, i codici che ci portano all’essenza, il movimento tellurico del cuore che ci fa vedere gli altri e proteggere l’innocenza del mondo. Ciao mio incanto inaspettato di cellule, buon compleanno Agnese, auguri mia tutta bella.
(il compleanno è stato il 21, ma non sono riuscita a pubblicare quel giorno. Mi perdonerai Agnese, se un giorno leggerai, questo ritardato)
La città è chiara di luci nelle strade principali e nelle piazze. Da dietro le finestre si vedono le intermittenze luminose degli addobbi. Non mi ero accorta che il Natale stesse arrivando, mi sono distratta. A casa non montiamo più l’albero, da quando gatta Tàlia mangiandosi pezzi sintetici ci ha fatto prendere uno schianto al cuore. Ora avvolgiamo fili di luci attorno alle cose. Li piazziamo in alto, per evitare gatte folgorate o con in pancia addobbi luminosi. Non mi dispiace che ci siano loro al posto dell’albero sintetico da smontare con noia dopo l’epifania. Non mi dispiace che i figli siano cresciuti e che siano loro la mia natività rinnovata nella fatica dei giorni e ringrazio, anche se non so bene chi o cosa se non una sorte clemente, che siano dentro giorni sicuri e non esposti all’orrore, che vivano dentro una città chiara di luci a richiamare stupore e dietro le finestre osservino intermittenze luminose e innocue. Non so cosa sia accaduto questo Natale, quale dimenticanza del racconto di un bambino povero e in fuga dall’odio. Un profugo, protetto dal coraggio e dalla disperazione di due fuggitivi. O forse non c’è mai stata nessuna dimenticanza, perché questa storia è qui e ora ed è da sempre. La città è chiara di luci nelle strade principali e nelle piazze. Da dietro le finestre si vedono le intermittenze luminose dei missili. I bambini non nascono, i bambini sono uccisi dalle bombe. C’è da aver voglia di pregare davanti alla distruzione della speranza. Ma a quale dio rivolgersi? Penso a questo, mentre preparo la cena per la vigilia. Verranno i miei fratelli con le famiglie. Sono felice quando stiamo insieme, mi hanno protetto dalle mie bombe interiori quando ero ragazza. Anche i miei figli sono così tra di loro. Si guardano a vicenda. Posso riposarmi ora. Accendo le luci messe in alto per proteggere le gatte. Dietro le finestre delle altre case ci sono intermittenze luminose. Non fanno rumore, sono una moltitudine, sembrano una preghiera.
Ciao tu, ciao ragazzo che sono diciotto, e scorrere di sangue e ossa e muscoli dentro lo scricchiolio del crescere. Tu corpo appuntito a cui non mi abituo mai abbastanza e che guardo mentre, in silenzio, per non disturbare, il respiro fa capriole. Ciao che ogni tuo nuovo danzare è un passo più lontano dalla soglia. Non ti fermare. Ciao tu, ciao ragazzo, proteggi il bambino arancione dalla musica stonata, dai passi duri del banale. Porta con te il nucleo caldo di desiderio e passioni e gioco e non ti spaventare. Sorridi che il mondo si compone. Ciao che a tratti ti racconti, come una concessione del giorno e io sto lì ad ascoltare e mi dico ma quando è successo che sei tu, quando il linguaggio, quando il pensiero, cosa hai visto e sentito per essere questa moltiplicazione. Ciao non mancare la tua vita, cerca suoni e immagini e ritmo del cuore e frullare di note. Ciao che impari a poco a poco a essere più morbido, più indulgente con te stesso. Arriverà il momento che ti lascerai andare. Ciao che sono diciotto in un balzo di tempo che non so davvero quando.
Continua ad amare le ore e i giorni e le domande e il nucleo buono delle cose. Non smettere di cercare la tua andatura, è solo l’inizio. C’è ancora il bambino arancione da qualche parte, guarda e sorride, ha i capelli lunghi, continua a volare, perché gli alberi crescono da qualche parte, a contrastare di bellezza e luce le dissonanze e la banalità del male.
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