Lo spazio interiore

La vita ha partorito un nuovo padre, ce lo ha consegnato tra le braccia. Lo abbiamo preso, io e i miei fratelli, come fanno le madri a cui le ostetriche consegnano un figlio. E con un figlio con il corpo vecchio e arreso, abbiamo imparato una nuova cura, la stessa da sempre, e come una figlia abbracciamo piano la madre fragile. Il tempo si sta chiudendo su se stesso, si è incurvato, sembra quasi un inchino. Il dolore contiene in sé il suo mistero. Lo attraversiamo, come una strada, come un bosco, come il mare. Si deve calibrare il tempo giusto, guardare a destra, poi a sinistra, essere guardinghi, mantenersi saldi, mantenersi saggi, sapere le gambe, le braccia, gli occhi, sapere annusare, sapere il battito del proprio cuore, stare al centro di se stessi, sapersi donare. Così, come quando sei al centro della traversata, per arrivare ancora interi sull’altro marciapiede, sull’orizzonte finito, sulla strada maestra. Perché la strada è maestra, come il bosco, come il mare, come questo sentire e questo accudire che non ci aspettavamo. Ci siamo ritrovati all’interno, senza bisogno di molte parole. La cura non è l’estetica di una canzone piena di poesia, non è romantica. La cura è corpo dolente che guardiamo con occhi arrossati, per vedere oltre, per stare qui e ora. Passare attraverso, non è altro che fermarsi dentro una stanza. Lo spazio interiore dell’attesa e della cura.

Tizianeda

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