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C’è un film americano che si intitola “Il lato positivo”. I due protagonisti che sono ovviamente bellissimi, hanno un groviglio di problemi dentro la testa. Lui è bipolare, un giorno vede la moglie con un tipo sotto la doccia e il dolore e la malattia lo portano dritto dritto dentro una clinica psichiatrica. Lei, l’altra protagonista, è una “vedova dinamica”, come scrive Netflix, che è un modo discreto di chi cura le trame, per dire che dopo la morte del marito, la poverina, per il troppo dolore, ha avuto una quantità oltremodo considerevole di amplessi occasionali (“data alla promiscuità” secondo Wikipedia). Quando lui esce dalla clinica conosce lei. Tra i loro mondi disconnessi con il reale, si crea un collegamento empatico, al punto che i due bellissimi fanno un patto. Lei aiuterà lui a riconquistare la moglie ormai ex e lui parteciperà con lei a una gara di ballo. I due, nel ballo, come nella vita, sono un disastro. Fuori ritmo, scoordinati come calzini spaiati, capricciosi, a volte furenti, arresi, poi gasati, poi di nuovo arresi. I movimenti non sono fluidi, rovinano a terra, stanno sull’orlo dell’abisso. Eppure continuano, studiano il ritmo in sincronia con la musica, coordinando i loro passi dislessici dominati da fragilità e perdite. Perché ci si muove per come è capitata la vita, come se lo scheletro e i muscoli, avessero una memoria inconsapevole che non cancella i fatti accaduti e il dolore che li ha sostenuti. Dei due ci si innamora, così come della loro fatica di stare tra le cose. E in questo sperdimento che la vita offre come una tavola apparecchiata, nel groviglio di mancanze e sottrazioni, c’è un’attesa vigile e disperata di chi aspetta che la notte passi, che la paura si slabbri perdendo la sua identità mostruosa, che si riuniscano i lembi dell’umanità scucita, imparando a danzare su un bordo stretto e ferito, non da soli, riconoscendosi, accogliendosi, con amore, se possibile.
