Il senso buono

Volevo che al pediatra rimanesse una traccia di loro, un oggetto, bello, da toccare e vedere. Per salutarlo e ringraziarlo di essersi preso cura dei miei figli. Perché allo scoccare del sedicesimo compleanno, ti viene assegnato il nuovo medico, dei figli fatti grandi dal tempo caino che tutto cambia e che non si muove lineare, ma spariglia e disaccomoda. Ma tant’è. Ho scelto una teiera in ceramica e una ciotola con cui sorseggiare bevande lente. Sarà che a lui ho affidato per sedici anni due creazioni, nate dall’impasto di elementi, energia, calore, attesa, trasformazione della materia, corpo che si fa forno per accogliere speranze alchemiche. Un richiamo d’oriente, perché per noi è stato come un Buddha che esortava alla calma e al buon senso. “Buon senso signora”, ha risposto spesso, alle mie domande sul cosa fare, quando non avevo un bugiardino dell’agire, scritto con indicazioni e controindicazioni. Buon senso, ripetendolo due volte, come a ribadire un concetto che invece mi spiazzava. Sono solo un genitore, mi dicevo, destinato ad accudire due tra gli elementi più destabilizzanti dell’esistenza, con l’aggravante dei difetti di fabbricazioni della mia anima e della paura. Che senso è il buon senso? Aspettavo risposte e lui mi indicava una strada dentro cui potevo anche perdermi. Eppure il suo era un richiamo alla misura, all’equilibrio, allo stare, al sentire, al fare, o al non fare. L’invito a trovare qualcosa che non fosse necessariamente dentro il senso comune, spesso mala pianta di pensieri deformi se pur collettivi, ma che andasse oltre per rispondere a un’istanza antica, non solo dell’essere madre, ma che ora la maternità mi sollecitava con urgenza, perché richiamo alla cura, esortazione a riconoscere l’oggetto dello sguardo e ad agire come fanno i giusti. Anche se lo diceva a un ramo torto, come mi sentivo io. Non vale, ovvio, solo per la genitorialità. Il buon senso dovrebbe essere il mantra che ci attraversa di questi tempi qui. Come quello di Gennaro, il padre di “Napoli Milionaria”, che ho sentito l’urgenza di rileggere in questi giorni, Gennaro che tornato dalla guerra vede il suo mondo incattivito e le anime ridotte a macerie, a narrazione drammatica del tutto è perduto. Il padre che non grida, non giudica, non condanna, esercita la cura, accoglie e sa che la ricostruzione non dipende solo da lui che offre, attraverso se stesso, una strada e il dolore calmo dell’attesa, dentro la notte. E ora, come dal pediatra sia arrivata a Eduardo, non lo so. Sarà che siamo legati dall’umano fragile, sarà che le voci buone dicono tutte la stessa cosa, richiamano allo stare, sia che si debbano crescere figli da affidare al mondo, o a cui affidare il mondo con tutte le nostre responsabilità di predecessori, sia che si debba ricostruire una comunità smarrita, pezzo pezzo, con amore, tornando al buono, tornando al buon senso sepolto dalle macerie, scavando dentro questo tempo che non si muove lineare, come piace a noi, ma che arriva, spariglia e disaccomoda.

Tizianeda

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