Mag
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Il giorno di Pasqua si partiva, genitori e fratelli, con la Fiat 127 verde, per attraversare quella roba esistenziale che è l’autostrada Salerno – Reggio Calabria. Un’estensione atemporale della geografia calabra, per intenderci. Se c’era nebbia, cosa che accadeva spesso, esploravi tutta la tua religiosità, raccomandandoti a santi, madonne, Dio, Gesù e a quant’altro immaginavi in cielo, anche se con la nebbia il cielo non lo vedevi. Poi si arrivava a Melicuccà, per un miracolo del destino. Si arrivava nel paese delle prozie Lena e Lulù, le sorelle della nonna Bianca, il paese appoggiato sull’acqua, che la senti scorrere, ma non la vedi, ché la malinconia non è solo roba degli uomini, ma anche dei paesi. Melicuccà che ha la voce degli oliveti ripiegati, che l’assediano. Il paese di Lorenzo Calogero, bloccato e senza tempo tra le anse degli alberi, anche se l’olivo non è un albero, ma un essere trascendente, proprio come lo sono i poeti. Appena arrivati, scendevamo per le scale di pietra, attraversavamo il giardino e entravamo nella casa voluta, un tempo, dall’ ostinazione del bisnonno, con le chiavi nella toppa ad aspettarci, la tavola apparecchiata nella sala da pranzo, il braciere rimestato, il profumo di carne e strutto, gli occhi dei morti a vegliare in tutte le stanze, gli affacci sul campanile, l’umidità spappola ossa, Bettina e le zie governanti della cucina, delle stanze e delle storie che scricchiolavano sotto i piedi e si nascondevano nei cigolii delle porte, nei materassi di lana, nel palmento, nelle volte esagonali, nei panni appesi alle canne di bambù, nella soffitta che non ci potevi salire perché era pericoloso. Poi le storie apparivano, attorno al braciere, dopo il pranzo pasquale, con la coperta e il tepore condivisi. Nella stanza, uno alla volta, arrivavano i morti. Ritornavano, con la resurrezione orale della memoria, di cui le zie erano custodi. Noi stavamo lì al caldo, e le ascoltavamo, come al cinematografo, con gli avi che riempivano uno a uno la stanza, sfuggiti ancora una volta alla dimenticanza. Tutti in silenzio, vivi e morti, nella preghiera dell’ascolto.
Oggi la casa è ancora lì. Sembra solo più stanca e una stanza ha la porta chiusa a chiave, ché il pavimento è sfinito ormai e non regge i pesi. L’acqua scorre e lava ché si muore e si rinasce, sempre. Le zie non ci sono più da un po’. Ci hanno lasciato i morti in attesa, che ci guardano da ogni angolo. Guardano noi, che rispetto al passato siamo la storia presente, la seconda storia, a guardare quello che loro non hanno visto, a fare quello che loro non hanno potuto, soprattutto le donne. Ci ammoniscono, chiedendoci di credere nelle possibilità di rinascita, nella memoria e nel tempo presente. Per i morti e per i vivi.