Us

“Priscilla, se io sono io e tu sei tu, chi è scema io o tu?”. Mentre rivolgo alla gatta questa domanda da bimba minchia che mi riporta alle scuole elementari, lei fa una smorfia che immortalo in una foto. È la sua inconsapevole risposta. La scema sono io, lei è una gatta anche se non lo sa, presa com’è a mangiare, bere, dormire, giocare, farsi amare, dare un senso alla lettiera, svegliarmi alle 5 del mattino, senza l’ingombro della definizione. Lei non ha un nome per le cose. Lei è e basta. Eppure gira per le mie sinapsi martoriate, il gioco di quando eravamo bambini, che ci sembrava contenesse un trabocchetto da qualche parte e spesso ci induceva a rispondere: nessuno dei due. Non lo sapevamo, ma, in fondo, intuivamo che io e tu sono ruoli ribaltabili. Bastava cambiare prospettiva, oppure ammettere che entrambi eravamo scemi. E così tu sono io e io sono tu, in una danza degli specchi dentro una rete di interazioni, legami, movimenti, cambiamenti.
Ripenso alla domanda del mio mondo in bianco e nero, anche mentre guardo una serie TV, costruita da sceneggiatori attivatori del pianto sul divano. Per quella parola “us”, noi, già dentro il titolo, che ci fa capire quanto io e tu, siamo noi, perché l’esistenza si srotola a più strati. E ci ripenso mentre leggo su un libro la parola “entangled”, allacciati, dove Carlo Rovelli cerca di approcciare, anche le sceme come me, alla fisica quantistica, che continuo a non capire, ma che in qualche modo trasferisco al senso dell’incontro e dei suoi effetti. Priscilla mi guarda, miagola, si strofina alle caviglie, si sdraia sul pavimento. Vuole essere accarezzata. È uno scambio di cellule il nostro, che crea un microscopico legame, dentro un universo in cui ogni cosa è allacciata all’altra e parla con il linguaggio della relazione. Siamo piccoli nodi impermanenti di una rete infinita, dove, forse, l’unico senso, sta proprio in questo starci accanto e guardarci. C’è da diventare scemi, a pensarci.

Tizianeda

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