Il coraggio del quasi

Quando da bambini, Agnese e Domenico, i miei figli, mangiavano le polpette al sugo di nonna Gina, sperticandosi in complimenti iperbolici per quel sovraffollamento di ingredienti e sapori,  credevo che entrambi un giorno, ritrovandoli o semplicemente ricordandoli,  sarebbero ritornati a un qui e ora felice, carburante necessario, nel tempo in cui, abbandonata l’infanzia, ci si deve districare nei labirinti della vita.

Mai avrei pensato tuttavia, che Agnese, oggi ventenne, avrebbe lei cucinato le polpette, il giorno di  Natale, per un solo commensale. Che lo avrebbe fatto in una geografia lontana i cui abitanti sono dediti alla sobrietà culinaria, cosa alquanto difficile da comprendere per chi viene da una Nazione basata prima ancora che sul lavoro, sul cibo. Se in Italia mangiare a Natale (e non solo) è un mantra, in Olanda, dove si trova in questi giorni Agnese, mangiare durante la vigilia di Natale è sì un rito esistente, ma sobrio e indolore, che inizia alle sei del pomeriggio, alle otto sono tutti a casa e lì ci restano anche il 25. Così Agnese – che pare abbia preso un po’ troppo sul serio l’invito genitoriale di sentirsi cittadina del mondo, fidanzandosi con un  ragazzo metà olandese e metà caraibico –  il 25 dicembre ha preparato una pietanza con dentro il desiderio di riportare dal passato, come in una seduta spiritica,  un ricordo felice, per poterlo condividere con chi in quella parte di vita non c’era, né nei giorni né nei pensieri. Lui dal par suo le cucina cibi speziati ed esotici, che gli ricordano l’infanzia delle isole che, sebbene lontane, sono intrecciate alla sua memoria.

Agnese ci ha scritto che le polpette erano quasi uguali a quelle della nonna ed era felice, lasciando a quel “quasi” ogni possibilità di miglioramento, ma anche identitaria e personale, mostrandoci in un video  il prequel di una pentola sul fuoco e macchie di pomodoro sparse per il fornelli, a rinforzare la gioia caotica e disordinata di un amore giovane.

Quanto a me che ho i pensieri iperattivi e il bisogno di collegare i punti dell’esistenza, per non lasciare che mancanze, lontananze, tempi perduti e improvvise malinconie mi sovrastino, osservo la continuità di una narrazione partita da lontano come una linea verticale, che da una cucina anni ‘60, minuscola Itaca familiare,  all’improvviso si espande, rivolgendosi a una vita da esplorare e assaggiare, da contaminare e da cui farsi contaminare. E pazienza se lì, in Olanda,  il cielo è  nuvoloso e grigio e qui l’azzurro è  antico e l’aria ha una  luce che ti avvinghia e se la vita, come le polpette, si muove in quel “quasi”, in quel raggiungimento che lascia spazio alla possibilità della trasformazione e del coraggio e si affida alla pazienza di più vite.

E mentre penso ad Agnese lontana e a cosa l’anno che verrà potrà raccontarci, preparo la carne alla Genovese, che non appartiene alla tradizione familiare, non arriva da ricette lontane, ma semplicemente mi piace e piace a tutti. Nel prepararla penso a un qui e ora sereno, che chissà, forse un giorno qualcuno proverà a riprodurre confrontandosi con il coraggio e la trasformazione del quasi.    

E che quest’anno sia buono o quasi per tutti e tutte noi 💫

(Nella foto Olanda 2016. La ragazza sul ponte è Agnese)

Tizianeda

La pianta

“Dove la poggio?”
“Vieni” dice mia madre, invitandomi a seguirla, mentre tengo tra le mani una piccola pianta fiorita che sembra un cespuglio, con tonalità rosa tramonto sullo Stretto di Messina. La seguo. Lei mi porta dal balcone, sul cui davanzale la pianta era riposta per la notte, in bagno, quello piccolo con la lavatrice. Sopra la lavatrice c’è una foto di Padre Pio.
“Non l’ho messo qui per declassarlo” mi dice “ma perché lui è un santo potente e il bagno è un luogo importante per tutti”.
Vorrei scherzare, ma per timore, sia di Padre Pio che di mia madre, creature mitologiche, taccio. Le rispondo: “Sì lo so”, e le faccio notare che in casa, Padre Pio è ovunque. Nel soggiorno, nel salotto, in camera da letto, nella stanza con il divano arancione e quella con la libreria anni ’70, in cucina e all’ingresso. Padre Pio in cielo, in terra e in tutte le stanze. Sembra di essere a Pietralcina. In realtà non c’è solo lui nella casa di mia madre, anche se è l’azionista di maggioranza, seguito, secondo una stima approssimativa, dalla Madonna. Ci sono anche Gesù, Sant’Antonio, Don Orione, Santa Maria Goretti, Sant’Agnese, San Giuseppe.
A casa di mia madre, comunque ti muova, il cattolicesimo ti osserva con immaginette, dipinti, calendari e cartoline.
Non ricordo se era così anche quando eravamo bambini io e i miei fratelli, se anche allora il Paradiso ci osservava da ogni angolo attraverso la sua iconografia casalinga. Era presente nei riti che si ripetevano, dalle preghiere serali e del mattino, alla messa, persino nell’acquisto delle paste domenicali, anche quello, sacro atto di devozione. Nel pacchetto si trovava Inferno e morte, se pur temperata quest’ultima dalla certezza della resurrezione.
Poi sono cresciuta ed è cambiato lo sguardo, non quello di mia madre ultima delle sentinelle tra i mondi, che riempie le stanze di immagini di assenti, con il loro diritto alla fioritura delle piante, come se vita e morte da sempre esercitassero la reciproca attrazione e potessero convivere nello stesso istante, sfiorandosi e chiedendoci il rinnovo del rito, come quello del Natale.
E in questo susseguirsi di generazioni, mentre assenti e santi ci osservano dalla distanza nostalgica di fotografie e cartoline, le piante fioriscono sulle lavatrici, in silenzio, imitando nei colori, il tramonto antico dello Stretto di Messina che ci guarda da una fissità surreale, rinnovando insieme un qualcosa, che non sappiamo dire.

Tizianeda

Diciassette

Il Progressive Rock, i Manga, gli Anime, l’attrazione per un mondo lontanissimo, la tavoletta grafica, i tutorial per imparare a disegnare, la tua ostinazione, la gabbia della perfezione, tu e le mani da riprodurre sul foglio, tu che ridi e ridi leggendo Aspettando Godot, tu che mi ascolti parlare di questi amori e domandi e non dici ma so che rifletti, io che penso la felicità è ora, tu e tua sorella Agnese che ha ceduto alla commozione di avere un fratello, voi che vi proteggete, io che so che hai un posto sicuro dove andare all’occorrenza, tu e le polpette al sugo di nonna Gina e i sapori che mi chiedi di riprodurre, io che ci provo, tu disordinato, io a rimproverare, tu e le guance che pungono sui miei baci che ti do come un agguato, tu che ti scansi con gentilezza, tu che sorridi, tu che sei serio e magro, io che ti guardo di nascosto perché l’amore non sia intralcio, ma, un giorno, restituzione in ogni altrove, tu che parli inglese meglio dell’italiano e fai crasi assurde e involontarie di parole, tu e i tuoi amici dentro un pc sparsi per il mondo, tu riservato e silenzioso, sempre misurato, io che ti faccio il circo attorno, tu e le tue stanze che a tratti riveli all’improvviso, io e tuo padre che ci chiediamo quando tutto questo, quando questo nuovo spazio arredato e fiorito, tu che non esibisci e fai, io che mi preoccupo per il mondo fuori così poco per bene, tu che sembri non accorgerti del male, tu che i pianeti dovevano essere allineati come si deve quando sei nato, sorridendo più che piangendo, che non hai perso per strada quel centro che ancora mi spaventa e mi stupisce, io e questo sentire che non so dove riporre e a chi dire, tu che oggi sono diciassette che è un numero ossuto proprio come te che ti fai intuire.
Io che sono qui a guardarti e a benedire.

Auguri Domenico, auguri tu che sei bello e non lo sai.

Tizianeda

Nodi

Non so sciogliere i nodi. Quelli stretti, intendo. Mia madre, quando ero ragazzina, diceva che una donna che non sapeva sciogliere i nodi non poteva sposarsi. A mio fratello non lo ripeteva. Allora rinunciavo subito, per tigna, perché non sopportavo il dolore alle dita e perché mi sembrava un imbroglio. Molti anni dopo mi sono sposata lo stesso. Se c’è un nodo stretto, ci pensa mio marito, o i miei figli che hanno le mani più abili e forse più pazienza. Quando ne vedo uno mi sale una certa inquietudine. Sarà per quella frase così perentoria di mia madre. Se non ho nessuno a cui chiedere, cerco metodi creativi: lascio perdere o faccio un buco o uso forbici. Come nella vita. Davanti a nodi insormontabili, mi affido alle forbici della parrucchiera. La mia parrucchiera è paziente. Come quando le ho chiesto di tagliare i capelli cortissimi e le ho mostrato una foto di Katy Perry bionda. “Però bionda non ti faccio” mi ha detto. “No bionda no”, le ho risposto. Quando mi sono vista la prima volta, ho pensato che ero figa, che un po’ a Katy Perry somigliavo ed era un buon modo per non pensare ai nodi e stare meglio. Il giorno dopo, però, ero già pentita, perché mi guardavo allo specchio e Katy Perry era sparita, non capivo chi fossi e mi sentivo troppo esposta, persino a me stessa. “I nodi mica li sciogli pensando di assomigliare a Katy Perry, bella mia”, mi sono detta. Poi i capelli sono cresciuti, anche perché, dopo pochi mesi, c’è stata la pandemia e non potevo andare da nessuna parte. Se tutto si era fermato in quel periodo, i capelli no, loro continuavano a muoversi e a fare nodi. A scioglierli ci pensava mia madre, che per passare il tempo prendeva una spazzola e mi pettinava. Poi mi infilava un ferrettino. Sembravo l’attrice di Misery non deve morire, ma quello era un momento di tregua e mia madre era felice.
Non so perché, a volte, noi donne, abbiamo questa fissazione dei capelli, perché loro devono subire i nostri umori. Come quelle statuette che vendono sui camioncini per strada, quelle tamarre che cambiano colore a seconda del tempo. Non mi sembra sia lo stesso per gli uomini. Sarà che sanno di poterli perdere e allora preferiscono non affezionarcisi troppo ed esercitano noncuranza, o forse perché a loro non dicono che devono essere pazienti per avere una compagna. Che poi, a pensarci, la vita è piena di nodi. Ne trovi di tutti i tipi e non sempre riesci a scioglierli o non sempre ti va di farlo. E te lo tieni questo groviglio, questa nebulosa compatta, questo callo sulla superficie liscia. Che a furia di assommarsi fanno una trama, come quella dei tappeti orientali che raccontano storie e sono pieni di simboli segreti e di centinaia di acari. E mentre stai lì a guardare e a farti domande su come aprire il sacchetto di formaggio annodato stretto e sul senso dell’esistenza, non riuscendo a trovare una soluzione per entrambi i quesiti, mandi alla tua parrucchiera la fotografia di un nuovo taglio di capelli che hai visto, in una rivista glamour, sulla testa di una tipa fighissima che non ti somiglia per niente e le chiedi di tenere affilate le forbici.

Qui è quando volevo essere Katy Perry. La foto è di Elvira Alfida Costarella

Tizianeda

Circle game

“Magari ci incrociamo” le ho scritto, quando il pullman si dirigeva verso Cosenza, mentre in macchina tornavo a casa, dopo essere stata tre giorni altrove. Ho iniziato a guardare la corsia che procedeva in senso opposto al nostro, con la concentrazione di quando, da bambini, fissavamo un oggetto, sperando che il pensiero lo facesse levitare fino a noi. Cosa che, credo, non è mai accaduta. Poi è successo un piccolo miracolo, come ne avvengono, a volte, nella vita, di cui non sempre ci avvediamo, presi come siamo a guardare altrove. La macchina e l’autobus si sono incrociati nel punto più vicino possibile, lungo una deviazione che costringeva al senso doppio di marcia. Ed è stato come la scena di Matrix in cui il mondo rallenta, dentro un paradosso spazio temporale numinoso e ti senti un rimestio in cui pensi che deve essere quella la felicità. È un attimo che riconosci e afferri, il granello che si perde nella vastità e ugualmente la contiene. Così l’autobus su cui viaggiava Agnese, la figlia ventenne, è passato accanto all’auto, e anche se non siamo riuscite a vederci osservare la strada per indovinarci, sapevo che era lì e mi bastava. Un istante, spezzato dalle corse in direzioni opposta, in cui ci siamo incastrate, come quando, neonata lei, minuscola io, dormivamo raggomitolate l’una all’altra. E so che in questo combaciare c’è già lo strappo e la separazione che ci commuove e confonde. Ché la vita è una roba assurda e senza senso, in cui a volte guardi la strada come un’adolescente innamorata, le stagioni continuano ad alternarsi e tutto gira e gira nel gioco del cerchio, come le cantavo mentre, nascendo, si separava per la prima volta dal mio corpo, rimanendomi dentro.

Tizianeda

Us

“Priscilla, se io sono io e tu sei tu, chi è scema io o tu?”. Mentre rivolgo alla gatta questa domanda da bimba minchia che mi riporta alle scuole elementari, lei fa una smorfia che immortalo in una foto. È la sua inconsapevole risposta. La scema sono io, lei è una gatta anche se non lo sa, presa com’è a mangiare, bere, dormire, giocare, farsi amare, dare un senso alla lettiera, svegliarmi alle 5 del mattino, senza l’ingombro della definizione. Lei non ha un nome per le cose. Lei è e basta. Eppure gira per le mie sinapsi martoriate, il gioco di quando eravamo bambini, che ci sembrava contenesse un trabocchetto da qualche parte e spesso ci induceva a rispondere: nessuno dei due. Non lo sapevamo, ma, in fondo, intuivamo che io e tu sono ruoli ribaltabili. Bastava cambiare prospettiva, oppure ammettere che entrambi eravamo scemi. E così tu sono io e io sono tu, in una danza degli specchi dentro una rete di interazioni, legami, movimenti, cambiamenti.
Ripenso alla domanda del mio mondo in bianco e nero, anche mentre guardo una serie TV, costruita da sceneggiatori attivatori del pianto sul divano. Per quella parola “us”, noi, già dentro il titolo, che ci fa capire quanto io e tu, siamo noi, perché l’esistenza si srotola a più strati. E ci ripenso mentre leggo su un libro la parola “entangled”, allacciati, dove Carlo Rovelli cerca di approcciare, anche le sceme come me, alla fisica quantistica, che continuo a non capire, ma che in qualche modo trasferisco al senso dell’incontro e dei suoi effetti. Priscilla mi guarda, miagola, si strofina alle caviglie, si sdraia sul pavimento. Vuole essere accarezzata. È uno scambio di cellule il nostro, che crea un microscopico legame, dentro un universo in cui ogni cosa è allacciata all’altra e parla con il linguaggio della relazione. Siamo piccoli nodi impermanenti di una rete infinita, dove, forse, l’unico senso, sta proprio in questo starci accanto e guardarci. C’è da diventare scemi, a pensarci.

Tizianeda

Coccinelle

Ottobre sembra già finito e il tempo, in questo giro di autunno ancora estivo, sta correndo altrove. Forse annusa l’aria, sente lo spavento dell’umano. C’è un che di smarrito nelle foglie e negli alberi, persino il mare assorbe la gran cassa dell’incerto. Nelle macerie ci si aggrappa al piccolo, al suono infinitesimale, alle coccinelle che si posano sul dorso della mano e ti senti appena felice per quell’attimo in cui credi alla fortuna. Una dottoressa, oggi, indossava scarpe insolite. Le persone le puoi capire dalle scarpe, specie se non obbediscono al contesto. Lei scruta gli organi con un ecografo, per scongiurare tracce di disumano. Le sue scarpe resistono ai passaggi di dolore, sono il suo dettaglio narrativo. Ha sorriso a mia madre, mentre osservava sorpresa sullo schermo, la giovinezza del suo interno. Ha gli occhi grandi ed è gentile, è lei la coccinella sulle mie dita, in questa mattina di ottobre che fugge. La incalzo di domande. Nei suoi racconti mi immergo nell’umano, finito e dolorante, mentre fuori il mondo gioca a scacchi con la follia. La salutiamo, lei resta sola nella stanza, in attesa della processione dei corpi, nella sua cellula di resistenza. C’è il cielo del sud ingannatore ad aspettarci, lui sembra non smarrirsi mai, così lontano dal nostro chiasso, dal tempo delle nostre scontentezze ricoperte di glassa. E così ogni accadere, mentre in una stanza una donna sola, con le sue scarpe carioca, gli occhi grandi e un sorriso gentile, accoglie il cuore degli altri contenendoli tutti, con grazia, con bellezza, senza fare rumore, come una coccinella.

Tizianeda

La gente sta male

La gente sta male. Per comprendere il tasso di disagio esistenziale e di civiltà di un popolo, non occorre scomodare analisti, filosofi, esperti di economia, politologi, raffinati letterati, teologi, lettori dei fondi di caffè, sensitivi e guru di ultima generazione, guaritori di anime a favore del proprio conto corrente. È sufficiente salire sulla propria autovettura e guidare in città. La guida smette di essere un gesto meccanico di pedali pigiati e marce da cambiare a leva leva: prima seconda terza quarta quinta. A Reggio Calabria, per esempio, guidare è un’esperienza di sopravvivenza, è una prova di resistenza del proprio sistema nervoso, di controllo del turpiloquio, della propria devozione al divino. È repressione del desiderio di scendere dalla macchina con una mazza pesante da baseball. Anche perché se arrivi a malapena al metro e cinquanta, la mazza è più pesante di te e poi chi si tiene nel cofano una mazza da baseball. Se volete diventare maestri zen ed evolvervi in questa vita , non richiudetevi in conventi né sottoponetevi a estenuanti esercizi metafisici. Non è necessario. Venite a guidare a Reggio Calabria. Se poi non amate guidare, o siete affetti da quella sindrome genetica di cui non avete alcuna colpa, quella che vi ha costretti appena maggiorenni a fare lezioni aggiuntive, tutte inutili, di scuola guida, avrete una maggiore percezione della realtà veicolare che vi sta attorno. Per il semplice fatto che il guidatoredimerdacronico consapevole, per compensare i propri deficit, è rispettoso di tutte le regole. Va piano, aziona le frecce, non parcheggia mai in doppia fila, non suona il clacson per sfogare le varie impotenze fisiche ed esistenziali, rispetta semafori, stop, precedenze, glorifica le strisce pedonali, quando accede a una rotatoria usa la prudenza di un artificiere e si affida alla madonna, sa che motorini e pedoni sono il male. Ma il guidatore rispettoso si muove in città come un povero Marcovaldo circondato da malessere, frustrazioni e indifferenza nei confronti degli altri, assunti a entità ectoplasmica e quindi inesistenti. E nell’accorgerti che ognuno preso dai propri disagi, dal male di vivere, dalla fatica, dalla rabbia, dalla mancanza di strumenti cognitivi e culturali, dalla perdita di attenzione e di senso della collettività, sei presa da uno sconforto profondo, sentendoti prigioniera dentro una bolla, in cui l’inferno dei vivi sembra aver avuto il sopravvento. E ti verrebbe voglia di raggiungere distanze siderali per non assistere allo spettacolo brutto che ti si mostra davanti, scappare in Aspromonte dove tutto è silenzio e natura. Poi però pensi che questo fine settimana si vota e tu andrai al seggio perché non riesci davvero a essere indifferente, anche se assisti ogni giorno alla morte della ragione e del sacro e, a ben vedere, anche tu non ti senti molto bene.

La foto è di Marco Costantino

Tizianeda

E uscimmo a riveder le ovaie

Le amiche, gli algoritmi e la ginecologa, sono le grandi compagne dei cambiamenti interiori di una donna. A vent’anni la dottoressa ti consiglia anticoncezionali e ti parla di malattie veneree. In sostanza di sesso. Le amiche, quelle “avanti”, raccontano fantasmagoriche avventure, con il tatto di un lanciatore di martello, nell’intento di iniziarti, ovviamente, al sesso. Gli algoritmi invece non dicono niente perché i ventenni facebook lo schifano. A trenta ci sono le amiche sposate e con figli che vedi solo se ti invitano a cena, quelle single che vedi solo se sei single anche tu, mentre la ginecologa esplora la tua pancia per vedere se sei pronta per la grande avventura della maternità a cui magari non pensi, perché non hai un euro neanche per piangere, o semplicemente non ti va. A quaranta si esce con le amiche e l’alcol, su fb, messanger pullula di messaggi di playboy-emoticonaddicted: cuore, tulipano, bacio, mentre le ginecologhe ti fanno i complimenti per una vagina che può darti ancora tante soddisfazioni. A cinquanta le amiche si scambiano le vitamine da pre-menopausa o da menopausa conclamata, facendo a gara su quale sia la più risolutiva dell’umore torvo e della pancia gonfia, facebook ti invita a comprare oggetti falloidali e prodotti all’aloe vera che ti prospettano più miracoli della ayahuasca.
Intanto la ginecologa esplora la tua vagina come fosse l’occhio di Sauron, mentre agguanta l’aggeggio per l’ecografia interna, che in altri contesti potrebbe incuriosirti, ma lì messa sul lettino come una peccatrice sottoposta alla Santa Inquisizione, ti fa venire una crisi vagale e svieni. Anzi non svieni, perché tanto le gambe le hai già messe in alto, quindi ti senti solo morire. La dottoressa in questione mentre gioca a pac-man dentro il tuo utero, ti avverte che “attenzione, attenzione!”, hai un’ovaia rincoglionita, mentre l’altra sembra rivivere una seconda adolescenza. E in questo delirio schizofrenico, te ne torni a casa nervosa, chiedendoti se è colpa del joystick esplorativo, della sindrome premestruale, della pre-menopausa confusa, di un’esistenza attraversata da continui cambiamenti a cui pare ci si debba adattare sorridenti e baldanzose, o semplicemente perché sei nata donna e hai secoli e secoli di rottura di ovaie addosso. E allora cerchi le tue amiche, chiudi i social, la tua ginecologa vivadio la rivedrai tra un anno e pensi che in fondo il mondo in cui vivi non ti piace granché, preso com’è a importi una felicità artificiale, in cui devi essere performativa e brillante come un cocainomane di mezza età su un panfilo pieno di ragazze. E allora ti aggrappi alla legge morale dentro di te e al cielo stellato sopra di te, che a ben vedere tutti quei puntini, ti sembrano milioni di ovaie che pulsano, ricordandoti le leggi primordiali dell’esistenza e sorridi davanti a tanta inspiegabile bellezza e in qualche modo del tutto misterioso, sei felice di farne parte, insieme alle tue sorelle.

la foto è di sister Mikhaela Cannizzaro

Tizianeda

Il bambino del terzo piano

Il bambino del terzo piano, tutti i giorni versa acqua in un bicchiere e la lancia dal balcone giù nel cortile. Riempie, si affaccia, lancia, poi ricomincia, anche per ore. Lo capiamo dal modo ritmico in cui l’acqua rovina, con il rumore che si sparpaglia sul pavimento. Lui osserva il precipizio, soddisfatto e serio e sembra non saziarsene mai. Il proprietario del cortile una sola volta si è arrabbiato, gli ha gridato, da sotto, di smettere, ma poi ha capito e ora lo lascia fare. Il bambino del piano di sotto, non si chiama Sisifo, però a me fa pensare a lui. Anche se Sisifo spinge un masso da portare in cima alla montagna, che puntualmente precipita giù, nella litania incessante e solitaria dell’inutilità della fatica. Il destino di un condannato alla ripetizione dello sforzo verso la vetta, che ci costringe a interrogarci sull’assurdità dell’esistenza. Il bambino del terzo piano, non spinge massi. Ha un bicchiere, l’acqua e un cortile che non si riempirà mai, che non diventerà una piscina, un lago, il mare, il cielo riflesso. Ho pensato come quella rovina incessante mi rimandasse alla voce di un universo indifferente al richiamo degli umani, fatti d’acqua e di macigni nel petto. Poi è successo che un giorno, il bambino del terzo piano, tra i lanci, si è concesso una pausa da quel rito, voltandosi verso di me che stavo sul balcone accanto e in una sospensione degli accadimenti, mi ha sorriso e io a lui. Pochi secondi di armistizio per entrambi in cui due mondi lontanissimi, in quell’incrocio di occhi, hanno condiviso solitudini e senza saperlo i propri nascosti dolori. E ho pensato che se c’è un cielo sopra di noi indifferente agli sforzi degli umani, in questa esistenza orizzontale, tuttavia, bastano due occhi che si incrociano per un frammento di vita, dentro un alfabeto di silenzio, che ci fa rivolgere proprio a quel cielo, che ha più bisogno di noi umani, così fragili, segnati dai nostri fallimenti e da un incessante bisogno d’amore, di quanto noi di lui.

Tizianeda