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Buon Inizio

Lui si è svegliato arruffato, con lo sguardo altrove, l’umore lamentoso. Si è seduto sconsolato attorno al tavolo della cucina per la prima colazione, chiudendosi nella dolcezza del suo silenzio contrariato. Ha mangiato biscotti e latte, poi si è vestito con le prime cose che l’armadio gli suggeriva, perché, come dice da sempre, è indifferente allo stile. Sua sorella lo ha criticato, sua madre avrebbe voluto che indossasse la camicia di jeans, che è proprio un bonazzo con quella, ma a lui non piace. Preferisce le magliette colorate e stropicciate. Avrebbe voluto starsene a casa, con i suoi interessi primari, in cui la scuola non è inclusa. Perché lui la scuola non la vive. La subisce, con i compiti, le relazioni con insegnanti e compagni, la sveglia, la disciplina che stoico si auto impone, come un monaco zen. Poi è andato via con lo zaino, i quasi dodici anni, i capelli corti, il corpo ossuto e ancora senza segni di pubertà, la follia ironica e altrove. Ancora si fa abbracciare e baciare, anche se non lungamente. Così sua madre, che nei momenti di distrazione ne approfitta, lo ha abbracciato e baciato, anche se non lungamente, augurandogli “buon inizio” e ricevendo come risposta un mugugno lamentoso.

Lei si è svegliata assorta e silenziosa ancora impastata di sonno. Fa parte di quella incomprensibile setta di umani che la mattina appena svegli non parlano e non vogliono sentire suono umano. Nei 90 mq tre quarti vi aderiscono. Tizianeda è la minoranza discriminata. Quando ha ritrovato il senno e la parola, ha iniziato a prepararsi con gesti sereni. Sapeva già come vestirsi, truccarsi, pettinarsi. Era contenta e curiosa di conoscere gli insegnanti del terzo Liceo Classico. Di iniziare a studiare la filosofia, che Tizianeda spera le servirà ad affinare la profondità di pensiero, a moltiplicare le categorie mentali, a sviluppare la capacità di guardare critica le cose del mondo. Spera anche che impari a non sopravvalutare il pensiero, e a non farsene imbrigliare. Spera che sviluppi il coraggio di mandarlo a quel paese quando diventa nemico della fluidità vita. Sulla porta Tizianeda l’ha abbracciata e baciata e le ha augurato “buon inizio”.
Lei ha sorriso ed è andata via.
Così Tizianeda è rimasta sola in casa con la gatta Tàlia, perplessa per le stanze improvvisamente svuotate dei sue due abitanti preferiti. Poi ha iniziato a fare ciò in cui un gatto eccelle: niente. Tizianeda mentre la guardava raggomitolata e sonnacchiosa sul suo letto, godendo del silenzio delle stanze vuote, ha pensato alle tristi carte che l’aspettavano nel suo studio di avvocata, un piano più giù dei 90 mq. Ha accarezzato la gatta Tàlia persa nel suo magico mondo gatto e ha iniziato la giornata, senza pensarci troppo.

Tizianeda

Gli occhi e lo specchio

E’ stato un attimo, un guizzo dentro i suoi occhi dal colore che non ha nome, quelli che sono verdi, azzurri, grigi, boh. Quelli che intorno si modificavano le geometrie. Un crescere di corpo, naso, bocca, guance, mani, spalle, braccia, seno, fianchi, gambe, attorno alla staticità di cellule visive. C’è da perdersi o ritrovarsi nella fedeltà tridimensionale degli occhi, nella loro coerenza di grandezza.
C’è da perdersi quando dentro l’immobilità degli occhi di una quindicenne, si affaccia un movimento nuovo di sguardo, di fronte allo specchio che la osserva e misura.
Ed è successo, nel giro di un attimo, che io guardavo lei, lei guardava lo specchio, lo specchio si riempiva di lei, e i suoi occhi per la prima volta sorridevano a se stessa. E’ successo che io, che rubavo l’intimità dei riflessi, continuavo a guardare la ragazzina, le sue iridi colorate di sorpresa, i due identici corpi giovani e pieni, fuori e dentro, che per la prima volta si riconoscevano.
Un regalo inaspettato delle ore, che lo sguardo ha assorbito, come uno specchio che attira la vita.
Gli occhi sanno la coerenza delle cellule immutabili. Lo sguardo no, comprende e cattura. E’ moltiplicazione, sottrazione, a volte divisione. Lo specchio senza menzogna dei nostri accadimenti. La misura mutevole del nostro stare alla vita, che ci scivola dentro, attraverso una finestra spalancata.
Lo sguardo di Agnese mi ha regalato la sua bellezza intima. La stessa che accade tutte le volte che ci specchiamo per guardarci negli occhi. E così ritrovarci nelle nostre dimensioni uniche e immutabili, per rassicurarci che la vita non ha incattivito il nostro vedere, rendendolo distante e d’acciaio. Lo facciamo per ritrovare la nostra presenza di visione, per dirci va tutto bene, ascolta, l’anima è ancora qui.

Tizianeda

Tipo Medjugorje dei 90 mq

Giacciono sopra il pavimento. Gli abitanti passano accanto più volte e pare che nessuno li veda. Ogni tanto vengono raccolti, per l’invito poco amichevole di una voce. O perché la donna da cui la voce proviene si arrende e li fa sparire, o perché lo sposo della donna, nel vedere l’imminente deriva dei 90 mq, raccoglie e mormora. Gli oggetti però misteriosamente si riproducono come i Gremlins con l’acqua. Così le apparizioni mistiche si ripetono, tipo Medjugorje dei 90 mq. Riappare il calzino spaiato, il foglio dell’altra volta, la maglietta che era nella cesta del bucato, una scarpa solitaria. Un libro, un quaderno, le penne. Una forchetta, un tovagliolo, pantaloni, la gatta che dorme. Pinzette, reggiseni, un pezzo di carta, un cerotto usato.
L’oggetto cade, viene abbandonato, dimenticato, lasciato in circostanze misteriose. Resta, come una installazione artistica voluta da un’amministrazione sciagurata, come la spada nella roccia, come la piccola vedetta lombarda.
E si dovrebbe studiare questa roba degli oggetti abbandonati e dimenticati sui pavimenti delle case abitate. Che nessuno raccoglie fino a che non si vedono più, tipo rimozione da trauma, anche se sono sempre lì nella loro materialità tangibile.
E non c’è verso di venirne fuori. E’ un rompicapo, oppure una importante metafora della vita, risolutiva di tutto l’incomprensibile natura umana. Per esempio, forse abbandoniamo le cose perché non sono importanti, oppure non le vediamo perché altrimenti dovremmo confrontarci con il nostro disordine interiore, come se dentro fossimo solo un groviglio di calzini e scarpe spaiate, di fogli stracciati, magliette sporche, cerotti con la crosta attaccata. Oppure perché ognuno spera nell’altro, nel suo estremo sacrificio da raccoglitore rassegnato.
Oppure no. Forse quasi niente ha un significato. E un calzino abbandonato sul pavimento di una casa abitata, è quello che è. Un piccolo pezzo di cotone che prima o poi qualcuno rimuoverà, da rimettere al suo posto, fino alla prossima inevitabile, identica apparizione.

Tizianeda

Il Grande Cocomero

“Quindi ricapitolando, amica tutta bella, sulla spiaggia vicino casa tua incontri sempre un signore sotto una specie di capanna”
“Sì, Tizianeda, quando passeggio in riva al mare”
“Questo signore è con la famiglia ”
“Proprio così”
“E quando ti vede, anche se non ti conosce ti offre sempre fette di cocomero”
“Non solo a me, ma a tutti”
“Poi per caso, parlando di questa storia con una tua amica, hai scoperto che è suo zio”
“Sì, pensa un po’ che coincidenza. Mi ha raccontato che ama offrire il cocomero, anche perché lo coltiva lui ed è molto orgoglioso”
“Ma che meraviglia. E stamattina cosa è successo?”
“Oh da non crederci. Proprio mentre stavo per acquistare un cocomero da portare oggi da Antonella per pranzo, è spuntato questo signore con la mia amica, la nipote. E sai cosa aveva tra le braccia?”
“Cosa?”
“Un cocomero enorme. Per me. Quello che poi ho portato qui al mare”
“Ma lo sai che questa è una bellissima storia. Come si chiama il signore?”
“Non lo so. Ero così stupita che ho dimenticato di chiederglielo”
“Il Grande Cocomero esiste ed è gentile, amica tutta bella”
“Sì è vero”
Poi il cocomero del signore senza nome, è stato mangiato in compagnia, nella casa al mare di Antonella. Era dolce e dissetante e aveva il sapore buono della gentilezza. Tizianeda ha pensato, mentre il succo rosso e spugnoso le allietava i sensi, che il mondo sarebbe davvero un affare fastidioso se non ci fossero uomini e donne come il signore senza nome. Quelli che arrivano con la semplicità dei gesti protesi, consolandoti di giornate fredde, o regalandoti semplicemente un po’ di tenerezza.
Il Grande Cocomero esiste, ha ancora pensato Tizianeda. Linus aveva ragione. Ma sbagliava ad aspettarlo soltanto di notte, una volta l’anno, nell’orto dei cocomeri. Forse per questo, lui, ha riflettuto Tizianeda, il Grande Cocomero, non lo ha mai visto.

Tizianeda

La tonsillite perfetta e le punture

“Eh, ma, stai messa proprio male. L’hai presa potente!”
Così ha sentenziato il dottore vecchio vecchio e bravo, dove Tizianeda si reca quando perde fiducia nella scienza medica. Cioè quando dopo l’assunzione di svariati prodotti chimici che solitamente lei aborrisce, non si riprende di una cippa. Così è successo con la sua tonsillite perfetta, che ha avuto l’oscuro potere di fermarla, chiuderla in casa, trasformarla in Gollum, con un incarnato paludoso, un talento oscuro per il delirio e con i peli superflui da corpo abbandonato al suo destino moribondo (che poi se sono superflui, perché questi maledetti crescono con così tanta ostinazione).
E il dottore vecchio vecchio, che si muove lento e ha il sorriso rassicurante di chi vive la vita con pacato distacco, dopo aver ammirato la gola di Tizianeda come si fa con una visione mistica, ha sentenziato: punture. Sorridendo però.
E lei le punture se le è fatte. Con la rassegnazione dei martiri. Come quando era bambina e non si sottraeva all’amaro destino. Non come sua sorella, solitamente molto più coraggiosa di lei in tutto. Ma la casa, alla visione dell’ago, si trasformava nel set di Kubrick, con suo padre e la siringa in mano a invitare poco amichevolmente la figlia maggiore, a uscire dal bagno. Ma niente, lei, non apriva, mentre il padre quella porta l’avrebbe sfondata anche a craniate.
Tizianeda invece usava un metodo infallibile per affrontare il martirio. Pregava. Se le diceva tutte le preghiere, anche il SalveoRegina e l’Attodidolore per sicurezza. Il l’Eternoriposo no, però, che le sembrava definitivo.
Oggi le preghiere non le dice più da un pezzo, anche se suo padre, con i suoi pericolosi 86 anni, continua a preparare le pozioni malefiche e dispensarle ai bisognosi.
Tizianeda pensa, che quindici giorni di permanenza nei 90 mq siano troppi per una tonsillite, per quanto perfetta sia. E dovrebbe uscire dal Triangolo delle Bermude poltrona/sedia/letto, prima di scomparire nel centro, anche se ha la forza di Superman con la kriptonite iniettata per endovena. Confida, tuttavia, prima o poi, nella sparizione dell’incarnato verde palude e del malumore. Intanto, visto che si diventa saggi ed essenziali, meditativi e profondi quando si sta come d’autunno sugli alberi le foglie, ha deciso di eliminare tutto ciò che è superfluo in lei. Quindi si recherà dalla sua maestra zen mettilaceratoglilacera, che è certa appena ispezionerà il suo corpo, avrà una visione mistica.

Tizianeda

La gatta Tàlia e i suoi insegnamenti

Cosa mi sta insegnando la gatta Tàlia, che da circa un mese abita i 90 mq:
1. che rilassati è meglio, distaccati anche, incazzati poco ché ci si stanca
2. che il parkour casalingo, dal comodino alla sedia, dal divano al tavolo e così via, è una figata pazzesca
3. che fissare i punti nel vuoto per minuti e minuti è un ottimo metodo per non essere disturbati
4. che le unghie affilate incutono terrore
5. che si possono richiedere coccole, attenzioni, cibo senza dare nulla in cambio
6. che si può fare a meno delle cose di cui al punto 5 (tranne il cibo), purché ci sia un posto dove sonnecchiare in santa pace
7. che la notte è bello dedicarsi al nomadismo sui letti.
8. che il silenzio è la vera forza
9. che scomparire è la vera forza
10. che scodinzolare non è necessario per essere amati
11. che l’obbedienza è un dettaglio
12. che l’indipendenza è un particolare
13. che non si hanno padroni tranne che se stessi
14. che l’amore può manifestarsi dentro la forza oscura delle fusa. Inquietanti, ipnotiche, figlie degli abissi
15. che se lo chiami non viene da te, sempre se non smuovi il pacco dei croccantini
16. che se lo sgridi ti obbedisce fino a che non ti distrai
17. che saper sorprendere è la vera forza
18. che se ti lecca forse ti ama oppure ti sta pulendo
19. che in una casa è presenza e consolazione misteriosa
20. che gli animali sono maestri, perché insegnano il rispetto e non sanno l’offesa

Gatta Tàlia con libro di Fabio Procopio in attesa che lo legga e lo ripeta alla famigliola

Tizianeda

Esercizi di lontananza

– Come? Parti, Tizianeda?
– Sì mamma vecchietta.
– E i bambini?
– Non sono bambini, e poi c’è lo sposo un tempo errante ma oggi ormai presente.
– E lui non dice niente?
– No, mamma vecchietta. E poi parto venerdì e domenica sera sono già a casa. E comunque non mi sto arruolando alla legione straniera. Vado dalla cugina tacco 12 che mi aspetta da un po’ e anche io.
– Mah!
Così Tizianeda, è partita. E’ salita in un pomeriggio caldo su un treno, di quelli del suo sud suddissimo, un po’ sbrindellato e sudaticcio e dopo due ore in compagnia di un ragazzo che ha occupato il tempo a recitare preghiere e torturare la bottiglia in plastica che teneva tra le mani, è giunta a destinazione. Lì c’era la cugina tacco 12 ad aspettarla, che c’avevano tutte due una voglia matta di vedersi e dirsi. La cugina tacco 12, la figlia della zia Sisa, la zia santa che non c’è più, che ha due sorelle meraviglia e guardarle, tutte e tre insieme, ti incanti, come in un film di Almodovar, colorato e pieno di vita. Che lì a Tizianeda la chiamano cuginetta, perché è la più piccola e in quella parola lei si accomoda e sistema come su una poltrona accogliente e morbida. Che ogni tanto ha bisogno di sentirsi così, cuginetta e basta. Che quando arriva, la cugina tacco 12 le apre una bottiglia di vino bianco che sa che le piace e lei lo può bere senza mal di testa postumo. E non c’ha neanche voglia di uscire quando è lì, se non la mattina per andare insieme a mare e stare dentro l’acqua a esercitare dimenticanze provvisorie. E ha riso e tanto con lei, come quando ha aperto l’armadio pieno di scarpe tacco 12 e ci ha giocato, come si faceva con i bauli pieni delle nonne.
Ora Tizianeda, è sul treno che è ritorno, e scrive. Ogni tanto guarda verso il mare dello jonio, quando l’offesa di certe case non le ruba lo sguardo.
Alla stazione, prima di partire, con la cugina si sono guardate negli occhi e abbracciate, si sono dette parole che solo loro sanno. “Torna” “torno, prometto”. Poi Tizianeda è salita sul treno, ma non si è seduta subito. E’ rimasta lì in piedi davanti alle porte chiuse a guardare la cugina. Mentre il treno partiva si è messa una mano sul cuore, come un’urgenza segreta. “Torno” le ha detto, allontanandosi dentro il movimento ferroso.

Tizianeda

La valigia perduta

In uno scambio distratto di valige quasi identiche, stipate nella pancia di un pullman che le stava portando all’aeroporto di Fiumicino, entrambe le ragazze avevano perduto la propria . Una era diretta al sud suddissimo, l’altra chissà dove. La prima si era accorta dello scambio all’arrivo. Piangendo, certa che la valigia con il suo contenuto non l’avrebbe mai più ritrovata, aveva consegnata l’estranea agli addetti della sicurezza. Quando davanti a lei l’avevano aperta per i dovuti controlli, la certezza, per la donna, si era trasformata in dogma. Poche cose, ai suoi occhi di pessimo gusto e inutili. La sua, invece, per i tre giorni a Roma, era stata riempita del suo colorato mondo di donna giovane. Cinque completi intimi, trucchi, vestiti, scarpe, orecchini e collane, una borsetta che le avevo portato da Parigi. Molto carina in effetti.
“Sì ma cinque completi intimi per tre giorni è proprio esagerato. Che ci devi fare con cinque completi intimi?”. Non è che le fossi stata di grande conforto, partendo con il mio pippone che non si deve piangere per gli oggetti perduti, anche se per la borsetta azzurra di Parigi che le avevo regalato, un po’ mi dispiacesse. Né quando eravamo giunte alla univoca conclusione che l’universo non sempre manda messaggi davanti agli avvenimenti della vita. Anzi a volte sembra proprio fottersene. Né quando, dinanzi alla comparazione tra i contenuti delle valigie, le avevo manifestato la certezza che la sua valigia si trovava comoda e svuotata in chissà quale paese straniero.
Poi però è stata ritrovata. E non come avevamo creduto, in un moto di entusiasmo da ragazze dei fiori , perché restituita onestamente dalla scambista di valige. C’eravamo già immaginate biglietti di ringraziamenti e prodigate in discorsi sulla bellezza dell’onestà e comprensione. La tipa, invece, accortasi dello scambio, in un moto di rabbia, l’aveva abbandonata all’aeroporto. Non si era preoccupata né dell’allarme che avrebbe potuto procurare, né della proprietaria e della sua ricerca disperata, chissà dove. La rabbia è piena di stupidità in fondo e conduce sempre verso strade interrotte. Forse era questo il messaggio cosmico che doveva arrivarci? Boh.
Ora la valigia, svuotata del suo contenuto è tornata. L’amica giovane è felice di avere recuperato ciò che credeva irrimediabilmente perso. Una storia a lieto fine, si può dire.
Vorrei trovare un significato in questo succedere. Credo che non lo cercherò, tuttavia. Le cose spesso accadono, tutto qui. A volte, ritengo, sia più saggio osservare i movimenti della vita, fluttuarci dentro, in silenzio, con leggerezza, in semplicità, in bellezza, assecondandoli. A mani nude.

Tizianeda

Wonder quindicenne

– Allora quindicenne, ti è piaciuto “Wonder Woman”?
– Sì mamma, bellissimo. Lei poi, è un modello femminile cui aspirare. Forte, indipendente, coraggiosa.
– Bene, sono contenta.
– Sì però poi è successo che si è innamorata e da quel momento il film si è un po’ rovinato, francamente.
– Vabbè. Lo sai che se non mettono l’amore va meno gente a vedere il film. E poi che male c’è se si è innamorata?
– C’è che gli sceneggiatori americani se lo potevano risparmiare. Era meravigliosa quando era sola. Ma loro le hanno dovuta per forza affiancare un uomo che l’aiutasse. Lei non aveva proprio bisogno di nessun aiuto.
– Sì però non ti alterare, quindicenne.
– Sì che mi altero, mamma. Perché quando è arrivato quello, lei pensava sempre a lui.
– Vabbè è normale. Succede quando sei innamorata. Succederà anche a te.
– Guarda spero di no. Che poi un uomo inutile. Non sapeva fare niente. Lei poteva benissimo cavarsela da sola. E invece no, per forza le hanno dovuto mettere un uomo accanto. Che messaggio arriva, mamma, alle ragazze?

Che messaggio arriva? Non lo so quindicenne. Però mi chiedo, mentre osservo divertita la tua visione estrema, se avrei dovuto, quando eri piccina, farti vedere ogni tanto le Winx, sfottere un po’ meno i Principi sempreazzurri in calzamaglia ammazza eros, usare parole più gentili con Biancaneve, Cenerentola e tutte le principesse sfigate pronte a farsi prendere dal primo sconosciuto, purché, giovane, bello, prestante e con un regno ereditato dal papà. Poi penso, mentre ti osservo, che no, è un gran bene che non ti abbia mai imbrogliata e penso che mi piace la tua severità senza indulgenza dei tuoi quindici anni, che tuttavia spero lascerà spazio alla morbidezza della maturità. Mi piace che il tuo modello di donna cui aspirare sia Wonder Woman, o quella nostra cugina che va in giro per il mondo per lavoro, con il sorriso di bambina e la forza di una leonessa. Mi piace la tua indipendenza di pensiero, che spero, tuttavia, non ti impedirà di accogliere e rispettare visioni altre dalle tue. E mi piace pensare che un giorno, quando ti innamorerai, perché succederà amore mio, non smetterai di saperti wonder e di vederti, almeno un po’, con gli stessi occhi con cui ti vedo io, ora. Allora non ci sarà sceneggiatura sbagliata che potrà rovinare il tuo film, quindicenne, e i draghi li affronterai da sola, oppure li addomesticherai con la forza del cuore in tumulto.

Tizianeda

I telefoni e le stanze

Quando lo sposo un tempo errante ma oggi ormai presente, ha detto con tristezza a Tizianeda, che dovrà disattivare il numero di telefono della casa di nonna santa Gina che non c’è più, lei, che ha avuto la sensazione di una luce che si spegne in una stanza, ha pensato.
Ha pensato ai numeri delle case di un tempo senza cellulari. Un solo numero, per tutti gli abitanti delle stanze. Ha pensato ai telefoni grigi con la rotella, regina della lentezza, poggiati nel mezzo del movimento familiare, nemici della privacy e delle confidenze. Che ci potevi stare una giornata, che tanto si pagava uguale. Poi però i genitori te la facevano pagare loro, per appropriazione abusiva a tempo indeterminato dell’oggetto comunitario.
Ha pensato che ogni numero importante si fissava in testa come una filastrocca musicale. Che era molto più di una sequenza aritmetica. Era una storia, un luogo, un’emozione, era sentimento. Ancora oggi a raccontare numeri antichi che non usi più – perché le case si sono svuotate, o perché semplicemente la vita ti ha condotto dentro altre stanze – insomma ancora oggi quei numeri hanno la magia della evocazione. Perché quei numeri allineati come un filo, riportano dentro stanze abitate, anche se ormai popolate da fantasmi. I numeri di telefono delle case erano una formula magica. Bastava pronunciarli per materializzare le vite cui appartenevano .
I numeri di telefono delle case ripetuti e familiari, erano Natale, Pasqua, compleanni degli zii e dei nonni. Erano la voce di tua madre, erano chiama e poi hai chiamato?, erano il mantra delle feste comandate. Erano i doveri mischiati all’affetto.
E pensa al numero delle amiche del cuore che si stava ore al telefono ché tanto la tariffa era sempre uguale. E si chiamava con la scusa dei compiti da dirsi e si finiva per raccontare tutta la storia dell’umanità. La propria umanità fresca che voleva tante parole.
E ricorda i numeri del tempo della stupideria giovane. Quelli che componevi tremando, solo per sentire la voce del ragazzetto che ti piaceva. Quello che riattaccavi subito, come un paracadute da aprire appena lanciati dall’aereo per paura di precipitare. E quel numero era adolescenza, risate isteriche e batticuore. Era una casa che non sapevi, ed era il volto del tipo ed era la sua mano che teneva la cornetta e le labbra che si muovevano per dire pronto. Ma eri tu a non essere mai pronta e non c’erano selfie e filtri a darti coraggio. C’era quel filo con cui ricamare l’immaginazione e l’amore acerbo e non vissuto.
Oggi Tizianeda porta con sé, come un arto, il suo cellulare, pieno di messaggi scritti, ma senza stanze evocative in cui entrare. E’ il suo tempo liquido, in fondo, con il privilegio di essere raggiungibile ovunque, di avere un numero tutto per sé e di non avere sforzi di memoria aritmetica. E’ il tempo senza fili. Di tutti i numeri di cellulari conservati nella memoria dell’oggetto magico, ne ricorda solo uno. Il telefono di casa lo usa perlopiù per sentire lo squillo del telefonino perso e così cercarlo per le stanze. Non si è mai soffermata a pensare in quale luogo quello squillo la conduca, quali emozioni e sensazioni.
La prossima volta che lo smarrisce e fa questo gioco casalingo, magari si risponde per capire il suo sentire. Anche se già sa che chi l’ha chiamata riattaccherà.

Tizianeda