2016 archive
Anna ha il corpo snello che muove con grazia e forza. Quando parla ti guarda in fondo agli occhi, mentre i suoi sorridono sempre, anche quando diventano fermi e severi. Un giorno di una vita fa, quando ancora il blog non era nato e neanche il decenne, ma nella famigliola era apparsa come una magia una piccola bambina, l’ho incontrata per strada. Eravamo due giovani donne con cammini diversi, due storie diverse, due corpi molto molto differenti, due modi di vestire con lontani latitudini. Io ammiravo i suoi jeans che le avvolgevano le gambe lunghe e la maglietta corta, indossata con la naturalezza di chi non sta a pensarci su. Mi chiedevo se avesse notato le mie collant bianco suorapaolina, le mie scarpe da martire ammazza erotismo e una gonna e una camicetta che non ricordo più, probabilmente per sana auto censura mentale. Abbiamo chiacchierato con l’affetto di chi ha condiviso gli stessi anni del liceo, quando eravamo adolescenti, confuse, arrabbiate e potenzialmente fuori dalle linee che altri avrebbero voluto tracciare per noi. Ci siamo riviste di sfuggita lungo gli anni da quell’incontro, che ha rivelato, forse per la prima volta, quanto mi sentissi fuori sincrono con essenze ancora senza un nome. Ci siamo riviste in questa estate fresca. Sono andata a trovarla nella sua casa. Le ho regalato il mio libro, lei mi ha offerto una tisana allo zenzero e i suoi sorrisi. Abbiamo parlato dei nostri percorsi, dei cambiamenti, dell’incontro con noi stesse, di buddhismo, di femminilità, di coraggio, forza interiore, empatia e di yoga. Perché Anna è una maestra yoga con un curriculum che molti potranno avere soltanto dopo tante reincarnazioni. Poi, in questo autunno caldo ho iniziato con lei il corso, con i tappetini yoga, le luci yoga, l’incenso yoga e la gatta yoga, che si aggira tra noi allievi con il distacco strafottente di un maestro zen. In quella stanza sospesa, Anna guida i movimenti, facendoci scoprire la dolcezza e le bellezza dei corpi, insegnandoci a respirare e a riconciliarci con giornate non sempre come le vorremmo noi. Sondiamo la potenza dei nostri muscoli e la capacità di rilassarli e di cullarli come dei bambini da addormentare. Io dal par mio cerco di seguire le linee del mio corpo, anche se spesso converto le figure in quadri cubisti incomprensibili. Poi quando la lezione finisce lei viene e ci abbraccia e questo gesto antico si dovrebbe istituire ovunque. Lo dovrebbero fare nelle palestre, in piscina, a box, a pallacanestro, scherma, pallavolo, surf, vela, calcio, calcetto, rugby, equitazione, bocce o tiro al piattello. Ogni attività dovrebbe terminare con un abbraccio. Come quello di Anna, che ci ricorda attraverso la percezione lenta del corpo, attraverso il silenzio e la pazienza, che siamo esseri speciali, di cui prenderci cura.
Tizianeda
“Si vis amari ama, è latino gioia, se vuoi essere amato ama”
“C’è una storia dietro questo tatuaggio, vero?”
“Sì bella, anche se non la dico a nessuno. La conoscono solo i miei genitori, ma a te tesoro, la voglio raccontare”.
Lui è il mio fruttivendolo Gioiatesorobella preferito, mi ha raccontato la storia d’amore che gli ha fatto incidere sulla pelle la frase di Seneca, come atto d’amore e gratitudine, come voto di non dimenticanza. Una storia il cui incipit ha quattro parole antiche scritte con il gesso e presto cancellate, ma preservate per sempre nel cuore di questo ragazzo gigante e morbido, con la voce da bambino. Si vis amari ama. Mi ha raccontato la storia contenuta e sorretta da questa frase. Mi ha raccontato questa storia segreta, come lo sono i sentimenti perfetti e caldi come una coperta, da custodire nella memoria. Me l’ha raccontata in presenza di un decenne incantato, appoggiato immobile al bancone, silenzioso e trasparente, per paura di spezzare la magia di quegli attimi avvolti dalla grazia. Me l’ha raccontata tra i colori invadenti della frutta e delle verdure, tra il giallo, l’arancio, il rosso il verde e il viola, tra le sfumature cromatiche di un pittore felice di esistere. Una storia senza struggimenti, batticuori o spargimento di sangue. Una storia piena di devozione che non può essere raccontata per la commozione che porta dentro di sé, ma solo incisa nel segreto di quattro parole di una lingua sospesa e antica, da preservare dalla dimenticanza, da raccontare raramente a pochi fortunati.
“Grazie per avermi fatto questo regalo”
“Grazie a te gioia, mi raccomando però, è un nostro segreto”
“Sì, la custodirò nel silenzio”
Poi siamo usciti dal negozio, io e il decenne, con la frutta acquistata.
“Mamma…”
“Dimmi amore”
“Ma si è accorto che c’ero anche io?”
“Certo, si è fidato anche di te. Ma hai ascoltato?”
“Mamma, tutto e con attenzione. Tranquilla non la racconterò a nessuno, però pure tu, non la scrivere”
“No decenne, sarà il nostro segreto. Se vuoi essere amato ama. Questa frase però la racconto e tu non te la dimenticare”
Poi abbiamo proseguito in silenzio, il decenne e io. Ho appoggiato il braccio sulle sue spalle, lui ha allungato il suo dietro la mia schiena e abbiamo camminato dondolando nel nostro incedere diverso, abbracciati e silenziosi, uniti dall nostra storia segreta e indimenticabile.

Tizianeda
In Questura. Dialogo tra un Poliziotto serio e Tizianeda, derubata sulla propria autovettura della sua borsa rossa.
– Buon giorno signor Poliziotto serio, ero venuta ieri sera ma mi hanno detto di ritornare per la denuncia, perché dovevo portare le foto della patente che era nel portafoglio che era nella borsa che il ladro si rubò sulla mia autovettura, ecco le prenda…
– Signora, per favore procediamo per ordine, le foto dopo, mi servono delle informazioni prima …
– Va bene signor Poliziotto serio (se però avesse guardato le foto le avrei detto che qui sono uguale a mio figlio quando fa le smorfie … nessuna considerazione che sono stata derubata e c’ho lo shock).
– Ho bisogno di sapere ora e via in cui il fatto è accaduto, se la macchina è la sua e che modello è.
– Ecco l’ora la ricordo, la via gliela spiego, ha presente quella strada vicino al ponte Calopinace, quella sotto un po’ buia, come si chiama?
– Signora io non ero con lei in macchina, non posso saperlo.
– (Magari! Così almeno la borsa non me la fregavano), erano le 19,15 circa e la macchina è una K. Bianca.
– Il modello?
– Non lo so, ha la forma di parallelepipedo ed è piuttosto bruttina, almeno secondo me … ok, signor Poliziotto serio chiamo e mi informo (santo cielo!).
– Bene. Cosa c’era dentro la borsa?
– Allora un telo giallo limone …
– Signora mi interessano i documenti …
– (Il telo era importante, ci facevo yoga con quel telo e non solo. C’erano anche due foto tessera dei miei figli piccini e una dello sposo alla loro stessa età e tanti bigliettini da visita. E poi c’era un rossetto rosso fuoco e un’agendina che mi aveva regalato l’amica scrittrice con dedica. Una quantità immonda di cartacce anche e scontrini appallottolati e quattro penne ma una sola funzionante. Per fortuna il libro che sto leggendo lo avevo tolto dalla borsa e rimesso sul comodino, le chiavi di casa non c’erano e neanche la carta di identità. C’era la patente, che odiavo tuttavia, perché quando guardavo la mia foto mi spaventavo da sola e invece in questa sembro mio figlio che fa le facce e poi c’era la borsa che era rossa e mi piaceva e l’avevo pagata pochissimo. Anche la voce ho perso se lo vuole sapere e le parole escono rauche) C’erano patente, bancomat e carta di credito, li ho bloccati.
– Numero del suo conto?
– Non lo so.
– Numero dalla carta?
– Mah.
– Numero Bancomat?
– Non ne ho idea.
– …
– Ok, chiamo e mi informo.
(…)
– Bene, rilegga gentilmente e firmi.
– Ora le posso dare le foto?
– Sì grazie.
– Eccole … sa, assomiglio a mio figlio in queste foto.
– …
– Dove devo firmare?
Tizianeda
Avete in mente quando guidate tranquilli dentro la vostra automobile, magari parlate al telefono con un’amica o un amico e si cazzeggia, o semplicemente ci si dice? Avete presente quando siete così, tranquilli su una strada non molto illuminata ma familiare, perché l’hai percorsa un mucchio di volte con la tua autovettura. E chiacchieri anche un po’ distratto. E mentre sei lì, ti fermi per un motivo che non ricordi. Una vettura davanti, un motorino, un passante lento, un pensiero pesante. E in quel preciso istante, forse architettato, ben studiato da meccanismi esterni a te, senti un rumore alla tua destra. Ed è il rumore della portiera che si apre all’improvviso e fa rumore in quella calma dentro la tua macchina. E ti giri e pensi ma che cazz… e non fai in tempo e ti ritrovi una sagoma, un volto, un corpo e forse delle braccia, sì per forza delle braccia che entrano dentro la pace della tua autovettura. Ed è veloce quel corpo senza gambe e con le braccia che non ricordi, è velocissimo questo busto con la faccia che è solo un’ombra. E la tua borsa rossa sguscia fuori veloce come il busto che se la prende. E scompaiono la borsa rossa e il busto e poi realizzi e gridi perché ti viene da fare così, perché ti spaventi accidenti. E avresti dovuto chiamare il 113 subito, come ti dice poi l’ispettore in Questura e tu non hai il coraggio di dirgli che eri troppo occupata a gridare e ad avere paura. E invece parcheggi e torni a casa a piedi e non ti escono le parole e il respiro è strano come un singhiozzo. E c’hai rabbia e c’hai paura. Che hai bisogno di tempo per smettere di balbettare, davanti ai tuoi figli che non ti hanno mai vista così. E poi ti passa, perché in fondo è solo una borsa rossa, una patente da rifare, un telo lì dentro giallo limone che aveva un senso per te , ma anche lui è solo un telo. E poi ti ricordi che c’era il tuo rossetto rosso fuoco che ti piaceva che forse sarà stato gettato con la borsa in qualche cassonetto. E ti chiedi cosa è veramente che spaventa quando un tizio all’improvviso ti apre la portiera e ti ruba la borsa e poi sguscia come un serpente che morde e scappa. Cosa ti rimane del gesto. E capisci, capisci cosa provi. E’ un senso di niente, di incertezza. E’ il gesto improvviso, che è uno strappo. E può essere una borsa, o in fondo a te, altro, come la fiducia per esempio, quando te la strappano dal petto. Il meccanismo è lo stesso, è un’apertura violenta di porte, senza grazie , prego, per favore. Senza chiedere il permesso. E poi la scrivi questa cosa qui e speri di non sognare questa notte la sagoma, che sembrava un serpente.
Tizianeda
“E ora come faccio Sposo Errante?”
“Non lo so, Tizianeda”
“Cioè ti rendi conto? Tu sei da quattro anni lo Sposo Errante e non lo sarai più. Come faccio? Come gestisco questo cambiamento?”
“Troverai un modo…sei brava tu con le parole”
“MMM. Comunque a proposito di scrittura. Per il tatuaggio che hai deciso di farti sul braccio per suggellare i nuovi eventi, ho delle proposte alternative alla tua …
“Dici…”
“T&N dentro un cuore. Un classico da galeotto”
“No”
“Il mio volto sorridente”
“No”
“Il mio nome tutto intero enorme. Lo fai partire dal polso e finire sui bicipiti che ti farai appena riprendi la palestra la settimana prossima … ma è vero che ti rifarai la tartaruga come quando ci siamo conosciuti e c’avevi il super fisico?”
“Sì per la tartaruga, no per il nome”
“Una stellina? Un gattino? Una frase figa? Un delfino, un simbolo Maori, una corona, le farfalle, un teschio, la scritta “mamma”, “La medaglia del rovescio”?”
“No Tizianeda, mi tatuerò la firma di Joni Mitchell”
“Ma lo sai che tutti ti chiederanno machiègionimiccel…”
“Lo so io”
“Anche io e Gionimiccel ovviamente”
“Ma non ti piace?”
“Ma sì che mi piace se piace a te … ma veramente ti rifai gli addominali ora che ritorni stanziale, che non starai fuori casa tutto il giorno in quell’altra città per poi ritornare la sera nei 90 mq?”
“Sì Tizianeda, riprenderò a fare sport come una volta, vedrai…”
“Mi aggrada molto ciò. Ora però dimmi come ti devo chiamare sul blog …”
Tizianeda
Ci incontriamo nel gazebo di una gelateria. Da lì il mare è una possibilità vicina. Nella città sbilenca quell’ammasso acquoso è presenza viva e odorosa. Da lì il mondo ti regala l’illusione di essere clemente e lo respiri in profondità e senza fretta. Questo è il bello del sud. Si offre in angoli fermi, come ferma è la sua luce abbagliante di settembre. Quando arrivo, lei è davanti al gazebo che mi aspetta. Ci abbracciamo con la confidenza di chi si conosce da tanto. Anche se noi ci siamo viste solo due volte. Valeria ha trentadue anni, è una giovane donna. Indossa una collana con le pietre colorate, come il vestito. La sua voce è calma e calmo è il suo sorriso. Più di ogni altra cosa, di lei ti attirano gli occhi. Sono grandi e luccicano, come costellazioni fitte di stelle. E’ una scrittrice di quelle vere, due libri, “Stelle binarie” e “ La convergenza artica”, che le hanno donato due premi importanti.
Ci sediamo attorno al tavolino. Da quell’angolo privilegiato, le montagne alla fine del mare sono una presenza prepotente. Sono lì con noi. Valeria mi regala una piccola agenda dentro cui poter fermare i pensieri che fuggono, come fanno i sogni. Parliamo, parliamo tanto e ci raccontiamo. Siamo due generazioni diverse penso. La guardo e faccio un balzo nei miei trentadue anni. Ha un fondo di innocenza intatta lo sguardo di Valeria, che non rinuncia alla curiosità per i movimenti incessanti della vita. Parliamo di donne, desideri e sogni, di maternità e progetti, di dogmi e religioni, di libertà e della nostra passione comune: la scrittura che è la ruota che fa girare le storie. La guardo, non senza tenerezza. I quattordici anni che ci separano mi concedono questo lusso. Mi rivedo alla sua età. Vedo in lei parti di me che la vita ha elaborato o che si è presa e parti di me che resistono nonostante l’incedere dei passi. E’ bella Valeria nel suo stupore generoso di cui è piena la sua scrittura. Ha la freschezza di chi crede nelle possibilità e la forza di chi sa la fatica della conquista e possiede la percezione viva dei moti dell’anima.
All’improvviso il nostro tempo finisce. Troppo presto. Succede quando si chiacchiera con felicità. Lasciamo il gazebo e il parlare intorno agli altri tavoli. Facciamo un tratto di strada insieme, poi ci salutiamo ancora in un abbraccio, che profuma di complicità.
Torno alla giornata da mettere in ordine. Penso ai miei trentadue anni e a tutti i cambiamenti avvenuti, fuori e dentro di me. Poi il presente mi distrae.
Tizianeda
Adolescenza. Che parola. Spigolosa e ondivaga, contraddittoria anche nel suono. Indefinito, come il tempo che la percorre. Parola consegnata dai progenitori di un tempo ancor giovane. Adolescere, crescere. Tempo di mezzo e transitorio. L’infanzia si trasforma e si dissolve, manipolata dagli ormoni. L’età dei peli, della puzza di ascelle, della voce che piano sprofonda. Il magico si fa inghiottire dall’assoluto: no, sì, bianco, nero, ti amo, ti odio, bello, brutto. Si scopre l’altro, si sente a spese del corpo l’attrazione e si inizia a scontrarsi con le sfumature della vita. L’età in cui non si è sempre allo stesso modo. L’età in cui sei figlio a casa, amico fuori e a volte diverso con ogni amico diverso. L’età in cui ti confronti con i tanti modi di essere di una sola personalità. In cui prendi distanze dai genitori, per trovare una identità originale. Una terra con una sua fragilità, come tutto ciò che è estremo, come i corpi rigidi che possono spezzarsi. Li osservo gli adolescenti, nella loro forza, nelle loro incertezza di pensieri non ancora strutturati, di corpi in divenire, di ricerca di visione solida della vita. Li osservo attraverso la quattordicenne e i suoi amici. Sono belli. Mi chiedo quanto siano sereni, quanto siano arrabbiati, quanto ci sentano distanti e incapaci di comprenderli. Noi, che abbiamo lasciato la memoria della nostra adolescenza in qualche ripostiglio. Che dobbiamo imparare ad annusarli, come gli animali sanno fare. Sono belli gli adolescenti nel loro bisogno di consenso, sono difficili nel loro linguaggio da decifrare. Perché per la prima volta le due generazioni si fanno distanza e devi imparare un nuovo vocabolario interiore. Perché per la prima volta non è solo insegnare grazie, prego, per favore. Le parole si fanno tante. Come i silenzi. E’ capire cosa hanno raccolto, cosa è stato piantato dentro di loro. Per la prima volta bisogna imparare ad ascoltarli sperando che le composizioni di parole si facciano pazienti e reciprocamente clementi. C’è il suono del dolore nella parola adolescenza. L’anima si trasforma e allunga, come le ossa e con loro i muscoli e la pelle. È una terra che conquista i suoi spazi in un silenzio soltanto apparente. Li osservo gli adolescenti e loro osservano noi e osservano la vita, per trovare una coerenza di dire e di fare, i loro puntini saldi da congiungere. Per trovare dentro di loro l’ordine dei numeri, che in un’unione di linee componga gli enigmi. O semplicemente per non sentirsi troppo sperduti davanti alle costellazioni disordinate di punti, messe lì da movimenti misteriosi e continui.
Tizianeda
Il decenne ha superato il varco delle scuole primarie, e si è teletrasportato nel triennio della scuola media. Non sarà più “ciao maestra come stai?” ma “buongiorno professoressa” e c’è una bella differenza. Ha affrontato il primo giorno di scuola con stoica partecipazione emotiva/corporea e dopo essersi rassicurato che i nuovi compagni non sono dei mostri e le prof hanno le stesse sembianze umane delle maestre, ha inforcato come nuovi occhiali il cambiamento. Il più grande per lui, la conquista della solitudine di strada. Va a scuola lasciando che la sorella esca due minuti prima e torna a casa senza accompagnatori adulti. Solo una volta Tizianeda lo ha aspettato sul balcone, la prima volta, per non perdersi la bellezza del suo passo orgoglioso, di chi ha aggiunto qualcosa di indispensabile al suo procedere.
La ragazza quattordicenne sembra vivere i tumulti mutevoli della sua età, con una certa pigrizia distaccata. Ha un suo mondo consolidato, di cui Tizianeda vorrebbe sapere di più, superando gli ostacoli della estrema sintesi verbale della figlia. Per questo quando le apre il suo universo mutevole, lo accoglie come una rivelazione mistica. Il più delle volte osserva lei e la sua quotidianità, fatta di youtuber, fumetti manga, gruppi nerd whatsapp, piante da curare, disegni, qualche lettura, tutorial che le insegnino a truccarsi (perché sua madre …), versioni di greco e latino e altra roba scolastica che sembra vivere seraficamente, scrittura a più mani con uno dei suoi gruppi social. Tizianeda dal par suo cerca di stare in silenzio accanto a questa ragazzina – tendenzialmente solitaria e che le sembra solida – e sempre che le circostanze e l’urgenza di rapidi interventi vocali, non la trasformino in una matrigna malvagia, come con il decenne, del resto.
Lo Sposo Errante, ha ripreso il suo vagare mattutino sui treni sbrindellati e strade malferme, che lo conducono nel suo altrove lavorativo. Anche per lui stanno per arrivare importanti cambiamenti che già partono da dentro, che un po’ muteranno gli assetti familiari. Dentro una famigliola si sperimenta per la prima volta la percezione della connessione tra persone. Il cambiamento di uno inevitabilmente incide sull’altro, come nella dinamica delle placche terrestri. Ma su di lui non vi dico altro. Arriverà il momento e ve ne accorgerete. Vi accenno solo che Tizianeda è molto contenta “sarà un po’ come tornare giovani” ha detto allo sposo.
Lei i cambiamenti cerca di guardarli nel volto. La resilienza forse fa parte del codice genetico delle donne. Chissà. O forse è la vita che ti educa oppure ci nasci con la resilienza incorporata, come un accessorio di una macchina.
La verità è che tutto cambia in continuazione, anche quando ci sembra che non accada. Cambiano i rapporti tra le persone, cambiano le situazioni, cambiamo noi, cambia il colore dei capelli, il modo di vedere le stesse identiche cose, cambiano le parole, le dinamiche affettuose, il sentire e l’amare, cambia il corpo, cambia l’arredamento di una casa e il colore delle pareti. Cambiano i vestiti dentro l’armadio e il disordine di una stanza. A volte succede lentamente, a volte è un franare improvviso, a volte l’improvviso è solo apparente, perché prima c’è un percorso lento e impercettibile. Capita di spaventarsi, a volte, capita di doversi fermare per riprendere fiato, di starsene in silenzio, o di piangere perché no. Capitano un mucchio di eventi nella vita che moltiplicano i paesaggi interiori ed esteriori e a volte li sostituiscono. Intanto si spera – a furia di stare sulla strada e di camminarci sopra – di non farsi intimorire o fermare dal mutevole e incontrollabile passaggio del cielo e che le gambe diventino forti, il tronco si raddrizzi e lo sguardo rimanga innocente.
Tizianeda
I figli si guardano. Impari da subito, è un inizio di battiti dentro un monitor. Il primo sguardo sui figli è sentirli dentro, nel loro nucleo veloce di presenza pulsante.
I figli si guardano quando il ventre li appoggia tra le braccia. Quando sono esistenza rumorosa di carne. Quando dormono nel loro primitivo respiro fragile.
Dei figli si guardano i primi passi vittoriosi e la paura del loro franare a terra. Dei figli si guardano i cambiamenti e le fotografie di quando erano bambini per lasciare andare un tempo finito. I figli si guardano quando non sanno di essere guardati. E’ uno scrutare di occhi per ritrovare il primo sguardo concesso, per svelare racconti non detti. I figli si guardano quando sono felici e di più, quando scoprono gli inciampi dell’anima. Si guardano dalla distanza di un balcone o di una finestra, nella loro prima solitudine di strada. E ancora nel sonno quando il respiro ha una decisione adulta. Si guardano quando svoltano gli angoli senza paura, perché è così che gli hai insegnato. Si guardano quando sono lontani dagli occhi. C’è una memoria pulsante di cuore nella lontananza, il legame di quella prima volta, della visione del nucleo attorno al quale si è costruita la galassia del corpo. I figli si guardano perché non ci appartengono, per tracciare un senso di parole e di sentire che viene da lontano.
Tizianeda
Erano bellissimi. Lui era accanto a lei, con il braccio appoggiato al suo fianco. A un passo della battigia, entrambi fermi rivolti verso il mare. Quando è arrivata sulla spiaggia nel suo giro mattutino di passi veloci, Tizianeda li ha visti così, come due innamorati che non hanno bisogno di parlare per dirsi. Li ha visti avvolti da una lontana malinconia che li rendeva distanti e magici. Un’immagine lieve dentro la luce del giorno e i colori di questo sud azzurro, bianco e rosso delle reti della pesca.
Lui è l’amico pescatore di Tizianeda e lei la sua compagna di viaggio e di raccolto, la barca. La mattina lo incontra quando arriva sulla spiaggia. Si salutano, si sorridono, poi lei prosegue. A volte si ferma un po’ di più, quando capisce che il vecchio pescatore ha desiderio di parole. “Non l’ho vista in questi giorni” “Ero a pescare in Sicilia. Un giorno di questi la porto con me”. E a Tizianeda piacerebbe davvero un giorno di questi partecipare al raccolto del mare con il suo amico pescatore, partire per le onde della Sicilia e sentire lo stupore di un mare ancora pieno.
Ora si porta questa immagine, come un amuleto scaccia tristezza. Si porta l’intimo gesto d’amore del pescatore e della sua barca. Si porta la loro maestosa immobilità. E anche il mare si sarà inchinato davanti alla devozione di chi sa il richiamo delle onde, di chi ne riconosce il linguaggio e i mutamenti, di chi si rivolge alla sua onestà, volgendo le spalle alla terra e alle sue vicende caotiche e incomprensibili.
Tizianeda