Hanno suonato e cantato al Cartoline Club per quasi due ore, mentre noi presenti ascoltavamo ammaliati per la bravura e i virtuosismi. Sono carini, garbati, sembrano due ragazzi anche se non lo sono, forse per il sorriso, la magrezza e i tanti capelli, hanno bevuto tutta la sera solo acqua, vengono dall’America, da un posto situato in culonia tipo la Calabria, dove i laghi si ghiacciano, ci si diverte pescando, si guarda in tv il football, si beve tanta birra, si mangia poco e leggero e nei giorni scorsi hanno subito gli effetti, destabilizzanti per stomaci poco avvezzi, dei nostri cibi. Però sono sopravvissuti e l’olio di oliva extra vergine, che qui abbonda in cielo in terra e ogni dove, non ha compromesso la loro performance. Dopo il concerto e il discorso divertente e caloroso del musicista calabro tirrenico Vincenzo, che li avevi proposti al Cartoline, si sono educatamente seduti in un tavolino senza disturbare. Poi la più coraggiosa della nostra tavolata e l’unica che parlava inglese senza dover incorrere a mirabolanti acrobazie linguistico-creative, si è avvicinata ai musicisti e li ha invitati a unirsi a quel microcosmo curioso dell’Italia del sud. E così ci siamo ritrovati a chiacchierare tutte e tutti miracolosamente in americano o in qualcosa di simile, per quel meccanismo alchemico creato dall’atmosfera del luogo e da una certa attitudine all’umano. E dopo esserci preoccupati che si sfamassero a sufficienza, perché non si nasce in Calabria per caso, abbiamo scoperto con chi interagivano con i loro cellulari, dopo il concerto. Perché Hayward e Brooks, avevano un motivo antico e molto rock di nostalgia, i figli, tre il primo (benedica), due il secondo, che non vedono da più di dieci giorni. E il consesso potenzialmente alcolico, si è trasformato in una riunione di genitori. Mentre loro mostravano a noi le foto dei loro bambini conservate nei cellulari, noi , per l’impulso irrazionale dell’appartenenza e della comunanza, cercavamo quelle dei nostri figli ormai grandi. Dai figli siamo passati ai cani e ai gatti,ché dopo l’ostensione delle prole, si era creata una certa confidenza. E poi si è parlato di altro, essendo saggio porre un limite anche al romanticismo. E così la serata è trascorsa, veloce, leggera, dentro un luogo accogliente, dimentichi per un po’ del mondo fuori, con la musica che girava intorno e dentro di noi, accorciando le distanze tra micro-cosmi apparentemente lontanissimi, e nonostante le differenti latitudini, concordi nel sentirci inconsapevolmente accomunati dalla ricerca di senso e bellezza e di istanti di tregua.
Alla nonna Ines, a volte, apparivano i santi, quelli importanti. Lo facevano quando aveva molta paura per qualcosa o qualcuno e tutto sembrava perduto. A volte i santi la rassicuravano, altre volte invece le spiegavano che per quella cosa lì, non potevano farci niente. Come a confessare un’impotenza loro davanti alla vita. La nonna Ines toglieva il malocchio, con una formula magica, un piatto pieno d’acqua e l’olio. E faceva come i santi. A volte ci riusciva e a volte no. Come se il disegno che si formava sull’acqua avesse a che fare con il caso e l’incontrollabile, una metafora acquatica e perimetrata della vita, insomma. La nonna Ines cucinava torte e aveva il diabete, le piaceva vivere e sentirsi felice, ma quando è arrivato il momento di andare lo ha capito, e senza troppe storie ha benedetto i figli, il marito e i nipoti e ha chiuso gli occhi. Così ha iniziato ad abitare i sogni dei vivi, perché se sei maga devi saperle fare queste cose. Dopo la sua sparizione dalla terra, è venuta a trovarmi, avevo nove anni. Mi fece uno strano segno sul petto e mi disse che mi avrebbe protetta sempre. Io le ho creduto, perché i sogni mi piacevano anche allora e mi raccontavano le cose non ancora accadute. A un certo punto, però, ho pensato che mi avesse imbrogliato e sono stata, per molti anni, arrabbiata con lei. Poi un giorno, ho pensato che i morti non possono parlare come i vivi e non mentono e non ingannano, ma dicono il vero, secondo lo sguardo diverso che la morte offre. E allora ho capito che come i santi in cui lei credeva, non poteva impedire inciampi e dolori, precipizi e ferite, attimi di sperdimento e di incomprensibile, di quelli che fanno sentire il rumore delle ossa. Mi ha detto altro, il nostro segreto futuro, e quando, molti anni dopo, l’ho capito, mi sono sentita forte come i sopravvissuti. Poco prima della pandemia, sono andata in visita da zia Maria, che ora abita i miei sogni insieme agli altri, con un’agenda e una penna in borsa. Le ho chiesto se mi dettava la formula magica di sua madre, la nonna Ines. Non era Natale, come si conviene per queste tradizioni tramandate, ma un giorno qualsiasi. Non mi importava. Mi interessava avere le parole di mia nonna e delle sue e mie antenate, perché dei morti quello che ci resta sono le parole e io non avevo abbastanza anni per accumularne tante quando è andata via. La zia Maria mi ha dettato il rito magico, che custodisco nella mia agenda rossa, come se la nonna Ines lo avesse lasciato proprio a me, al mio amore per la vita e anche ai miei disastri interiori. Ovunque proteggi, nonna, le dico, quando mi sembra di osservare un cielo senza rotta. Oppure leggo la sua formula, immaginando la sua voce che amava la vita, di cui ha accolto l’incontrollabile, proprio come ha chiesto a me di fare, quando avevo nove anni e ancora non sapevo le cose accadute.
Qualsiasi cosa la donna faccia, come diceva Gaber, sbaglia. Sbaglia se e come prova dolore, sbaglia se e come gode, sbaglia quando partorisce, o peggio quando si lamenta poco, troppo, su, giù e bla bla bla. Eppure l’esistenza e chi la attraversa sono multistrato, multiforme, complessi. I dolori mestruali, per esempio. Il mondo femminino si muove dentro le tumultuose diversità tra i due estremi di chi ne soffre al massimo dei decibel e chi no. Tra chi, anche in quei giorni lì, può gettarsi da un aereo con un paracadute, fare bungee-jumping, triathlon, la traversata dello Stretto, il discorso della vita, la gara di braccio di ferro, la spaccata, tuffarsi nei mari ghiacciati del nord e chi con le budella attorcigliate, vorrebbe attingere a tutto il repertorio delle imprecazioni, ma non gli esce il fiato, perché dentro l’utero ha l’occhio di Sauron infuocato che balla la Macarena. Io morivo una volta al mese, mia sorella no, perché nella distribuzione della dismenorrea, parola inopportuna per quanto è brutta, il padreterno fa un po’ come gli pare. Però a scuola ci andavo uguale, a meno che non entravo in uno stato di pre-morte e, tra una interrogazione di greco e una lezione di filosofia, l’estrema unzione non è cosa buona e giusta. Non ci si poteva lamentare più di tanto, e si cresceva con l’idea che la donna essendo progettata per il dolore, non poteva stare lì a menarsela troppo e se lo faceva era una rompicoglioni. Anche sul fronte del piacere non stavamo messe benissimo. Per gli uomini il climax sembrava un fatto così lineare, ordinario, uni-narrativo. Noi nei secoli ce lo siamo dovuto conquistare e una volta conquistato abbiamo iniziato a ragionare e una volta iniziato a ragionare ci hanno ossessionate con la ricerca del Grande Punto, come fosse la raccolta per le tazze del Mulino Bianco. L’apoteosi giunge con il parto, il tempo dei consigli non richiesti e della irraggiungibile figura mitologica di cui si parla negli ospedali, Miss Puerpera dell’Anno, quella che dopo aver sgravato, si alza, torna in stanza sorridendo, salutando e benedicendo e senza neanche un accenno di emorroidi. E anche qui il padreterno… Dei miei due parti non ho ricordi memorabili o originali. Le solite cose: dolore, sangue, le troppe visite e tanta stanchezza. Affrontato emotivamente male il primo, buona invece la seconda, perché ero ormai pronta e sgamata e la stanchezza si era cronicizzata da più di tre anni. Oggi se vedo donne partorire in tv piango senza ritegno, mi sale un’emozione di chi quella roba l’ha vissuta e le si è sedimentata dentro. Sarà che allora non c’era il tempo per fermarsi ed elaborare, o sarà che come la morte, la testa che sbuca tra cosce insanguinate è il grande mistero dell’esistenza, o sarà stato l’amore nel frattempo. Anche se si nasce e si muore dalle origini, o forse proprio per questo. In fondo, continuiamo a essere i viandanti che cercano le costellazioni per orientarsi e in certi momenti ci sentiamo soli e tutto ciò di cui abbiamo bisogno è di essere ascoltati e visti, come in un cambio di prospettiva celeste. Come quando succede il dolore e il piacere e tutto il resto.
Quando da bambini, Agnese e Domenico, i miei figli, mangiavano le polpette al sugo di nonna Gina, sperticandosi in complimenti iperbolici per quel sovraffollamento di ingredienti e sapori, credevo che entrambi un giorno, ritrovandoli o semplicemente ricordandoli, sarebbero ritornati a un qui e ora felice, carburante necessario, nel tempo in cui, abbandonata l’infanzia, ci si deve districare nei labirinti della vita.
Mai avrei pensato tuttavia, che Agnese, oggi ventenne, avrebbe lei cucinato le polpette, il giorno di Natale, per un solo commensale. Che lo avrebbe fatto in una geografia lontana i cui abitanti sono dediti alla sobrietà culinaria, cosa alquanto difficile da comprendere per chi viene da una Nazione basata prima ancora che sul lavoro, sul cibo. Se in Italia mangiare a Natale (e non solo) è un mantra, in Olanda, dove si trova in questi giorni Agnese, mangiare durante la vigilia di Natale è sì un rito esistente, ma sobrio e indolore, che inizia alle sei del pomeriggio, alle otto sono tutti a casa e lì ci restano anche il 25. Così Agnese – che pare abbia preso un po’ troppo sul serio l’invito genitoriale di sentirsi cittadina del mondo, fidanzandosi con un ragazzo metà olandese e metà caraibico – il 25 dicembre ha preparato una pietanza con dentro il desiderio di riportare dal passato, come in una seduta spiritica, un ricordo felice, per poterlo condividere con chi in quella parte di vita non c’era, né nei giorni né nei pensieri. Lui dal par suo le cucina cibi speziati ed esotici, che gli ricordano l’infanzia delle isole che, sebbene lontane, sono intrecciate alla sua memoria.
Agnese ci ha scritto che le polpette erano quasi uguali a quelle della nonna ed era felice, lasciando a quel “quasi” ogni possibilità di miglioramento, ma anche identitaria e personale, mostrandoci in un video il prequel di una pentola sul fuoco e macchie di pomodoro sparse per il fornelli, a rinforzare la gioia caotica e disordinata di un amore giovane.
Quanto a me che ho i pensieri iperattivi e il bisogno di collegare i punti dell’esistenza, per non lasciare che mancanze, lontananze, tempi perduti e improvvise malinconie mi sovrastino, osservo la continuità di una narrazione partita da lontano come una linea verticale, che da una cucina anni ‘60, minuscola Itaca familiare, all’improvviso si espande, rivolgendosi a una vita da esplorare e assaggiare, da contaminare e da cui farsi contaminare. E pazienza se lì, in Olanda, il cielo è nuvoloso e grigio e qui l’azzurro è antico e l’aria ha una luce che ti avvinghia e se la vita, come le polpette, si muove in quel “quasi”, in quel raggiungimento che lascia spazio alla possibilità della trasformazione e del coraggio e si affida alla pazienza di più vite.
E mentre penso ad Agnese lontana e a cosa l’anno che verrà potrà raccontarci, preparo la carne alla Genovese, che non appartiene alla tradizione familiare, non arriva da ricette lontane, ma semplicemente mi piace e piace a tutti. Nel prepararla penso a un qui e ora sereno, che chissà, forse un giorno qualcuno proverà a riprodurre confrontandosi con il coraggio e la trasformazione del quasi.
E che quest’anno sia buono o quasi per tutti e tutte noi 💫
(Nella foto Olanda 2016. La ragazza sul ponte è Agnese)
“Dove la poggio?” “Vieni” dice mia madre, invitandomi a seguirla, mentre tengo tra le mani una piccola pianta fiorita che sembra un cespuglio, con tonalità rosa tramonto sullo Stretto di Messina. La seguo. Lei mi porta dal balcone, sul cui davanzale la pianta era riposta per la notte, in bagno, quello piccolo con la lavatrice. Sopra la lavatrice c’è una foto di Padre Pio. “Non l’ho messo qui per declassarlo” mi dice “ma perché lui è un santo potente e il bagno è un luogo importante per tutti”. Vorrei scherzare, ma per timore, sia di Padre Pio che di mia madre, creature mitologiche, taccio. Le rispondo: “Sì lo so”, e le faccio notare che in casa, Padre Pio è ovunque. Nel soggiorno, nel salotto, in camera da letto, nella stanza con il divano arancione e quella con la libreria anni ’70, in cucina e all’ingresso. Padre Pio in cielo, in terra e in tutte le stanze. Sembra di essere a Pietralcina. In realtà non c’è solo lui nella casa di mia madre, anche se è l’azionista di maggioranza, seguito, secondo una stima approssimativa, dalla Madonna. Ci sono anche Gesù, Sant’Antonio, Don Orione, Santa Maria Goretti, Sant’Agnese, San Giuseppe. A casa di mia madre, comunque ti muova, il cattolicesimo ti osserva con immaginette, dipinti, calendari e cartoline. Non ricordo se era così anche quando eravamo bambini io e i miei fratelli, se anche allora il Paradiso ci osservava da ogni angolo attraverso la sua iconografia casalinga. Era presente nei riti che si ripetevano, dalle preghiere serali e del mattino, alla messa, persino nell’acquisto delle paste domenicali, anche quello, sacro atto di devozione. Nel pacchetto si trovava Inferno e morte, se pur temperata quest’ultima dalla certezza della resurrezione. Poi sono cresciuta ed è cambiato lo sguardo, non quello di mia madre ultima delle sentinelle tra i mondi, che riempie le stanze di immagini di assenti, con il loro diritto alla fioritura delle piante, come se vita e morte da sempre esercitassero la reciproca attrazione e potessero convivere nello stesso istante, sfiorandosi e chiedendoci il rinnovo del rito, come quello del Natale. E in questo susseguirsi di generazioni, mentre assenti e santi ci osservano dalla distanza nostalgica di fotografie e cartoline, le piante fioriscono sulle lavatrici, in silenzio, imitando nei colori, il tramonto antico dello Stretto di Messina che ci guarda da una fissità surreale, rinnovando insieme un qualcosa, che non sappiamo dire.
Il Progressive Rock, i Manga, gli Anime, l’attrazione per un mondo lontanissimo, la tavoletta grafica, i tutorial per imparare a disegnare, la tua ostinazione, la gabbia della perfezione, tu e le mani da riprodurre sul foglio, tu che ridi e ridi leggendo Aspettando Godot, tu che mi ascolti parlare di questi amori e domandi e non dici ma so che rifletti, io che penso la felicità è ora, tu e tua sorella Agnese che ha ceduto alla commozione di avere un fratello, voi che vi proteggete, io che so che hai un posto sicuro dove andare all’occorrenza, tu e le polpette al sugo di nonna Gina e i sapori che mi chiedi di riprodurre, io che ci provo, tu disordinato, io a rimproverare, tu e le guance che pungono sui miei baci che ti do come un agguato, tu che ti scansi con gentilezza, tu che sorridi, tu che sei serio e magro, io che ti guardo di nascosto perché l’amore non sia intralcio, ma, un giorno, restituzione in ogni altrove, tu che parli inglese meglio dell’italiano e fai crasi assurde e involontarie di parole, tu e i tuoi amici dentro un pc sparsi per il mondo, tu riservato e silenzioso, sempre misurato, io che ti faccio il circo attorno, tu e le tue stanze che a tratti riveli all’improvviso, io e tuo padre che ci chiediamo quando tutto questo, quando questo nuovo spazio arredato e fiorito, tu che non esibisci e fai, io che mi preoccupo per il mondo fuori così poco per bene, tu che sembri non accorgerti del male, tu che i pianeti dovevano essere allineati come si deve quando sei nato, sorridendo più che piangendo, che non hai perso per strada quel centro che ancora mi spaventa e mi stupisce, io e questo sentire che non so dove riporre e a chi dire, tu che oggi sono diciassette che è un numero ossuto proprio come te che ti fai intuire. Io che sono qui a guardarti e a benedire.
Auguri Domenico, auguri tu che sei bello e non lo sai.
Non so sciogliere i nodi. Quelli stretti, intendo. Mia madre, quando ero ragazzina, diceva che una donna che non sapeva sciogliere i nodi non poteva sposarsi. A mio fratello non lo ripeteva. Allora rinunciavo subito, per tigna, perché non sopportavo il dolore alle dita e perché mi sembrava un imbroglio. Molti anni dopo mi sono sposata lo stesso. Se c’è un nodo stretto, ci pensa mio marito, o i miei figli che hanno le mani più abili e forse più pazienza. Quando ne vedo uno mi sale una certa inquietudine. Sarà per quella frase così perentoria di mia madre. Se non ho nessuno a cui chiedere, cerco metodi creativi: lascio perdere o faccio un buco o uso forbici. Come nella vita. Davanti a nodi insormontabili, mi affido alle forbici della parrucchiera. La mia parrucchiera è paziente. Come quando le ho chiesto di tagliare i capelli cortissimi e le ho mostrato una foto di Katy Perry bionda. “Però bionda non ti faccio” mi ha detto. “No bionda no”, le ho risposto. Quando mi sono vista la prima volta, ho pensato che ero figa, che un po’ a Katy Perry somigliavo ed era un buon modo per non pensare ai nodi e stare meglio. Il giorno dopo, però, ero già pentita, perché mi guardavo allo specchio e Katy Perry era sparita, non capivo chi fossi e mi sentivo troppo esposta, persino a me stessa. “I nodi mica li sciogli pensando di assomigliare a Katy Perry, bella mia”, mi sono detta. Poi i capelli sono cresciuti, anche perché, dopo pochi mesi, c’è stata la pandemia e non potevo andare da nessuna parte. Se tutto si era fermato in quel periodo, i capelli no, loro continuavano a muoversi e a fare nodi. A scioglierli ci pensava mia madre, che per passare il tempo prendeva una spazzola e mi pettinava. Poi mi infilava un ferrettino. Sembravo l’attrice di Misery non deve morire, ma quello era un momento di tregua e mia madre era felice. Non so perché, a volte, noi donne, abbiamo questa fissazione dei capelli, perché loro devono subire i nostri umori. Come quelle statuette che vendono sui camioncini per strada, quelle tamarre che cambiano colore a seconda del tempo. Non mi sembra sia lo stesso per gli uomini. Sarà che sanno di poterli perdere e allora preferiscono non affezionarcisi troppo ed esercitano noncuranza, o forse perché a loro non dicono che devono essere pazienti per avere una compagna. Che poi, a pensarci, la vita è piena di nodi. Ne trovi di tutti i tipi e non sempre riesci a scioglierli o non sempre ti va di farlo. E te lo tieni questo groviglio, questa nebulosa compatta, questo callo sulla superficie liscia. Che a furia di assommarsi fanno una trama, come quella dei tappeti orientali che raccontano storie e sono pieni di simboli segreti e di centinaia di acari. E mentre stai lì a guardare e a farti domande su come aprire il sacchetto di formaggio annodato stretto e sul senso dell’esistenza, non riuscendo a trovare una soluzione per entrambi i quesiti, mandi alla tua parrucchiera la fotografia di un nuovo taglio di capelli che hai visto, in una rivista glamour, sulla testa di una tipa fighissima che non ti somiglia per niente e le chiedi di tenere affilate le forbici.
Qui è quando volevo essere Katy Perry. La foto è di Elvira Alfida Costarella
“Magari ci incrociamo” le ho scritto, quando il pullman si dirigeva verso Cosenza, mentre in macchina tornavo a casa, dopo essere stata tre giorni altrove. Ho iniziato a guardare la corsia che procedeva in senso opposto al nostro, con la concentrazione di quando, da bambini, fissavamo un oggetto, sperando che il pensiero lo facesse levitare fino a noi. Cosa che, credo, non è mai accaduta. Poi è successo un piccolo miracolo, come ne avvengono, a volte, nella vita, di cui non sempre ci avvediamo, presi come siamo a guardare altrove. La macchina e l’autobus si sono incrociati nel punto più vicino possibile, lungo una deviazione che costringeva al senso doppio di marcia. Ed è stato come la scena di Matrix in cui il mondo rallenta, dentro un paradosso spazio temporale numinoso e ti senti un rimestio in cui pensi che deve essere quella la felicità. È un attimo che riconosci e afferri, il granello che si perde nella vastità e ugualmente la contiene. Così l’autobus su cui viaggiava Agnese, la figlia ventenne, è passato accanto all’auto, e anche se non siamo riuscite a vederci osservare la strada per indovinarci, sapevo che era lì e mi bastava. Un istante, spezzato dalle corse in direzioni opposta, in cui ci siamo incastrate, come quando, neonata lei, minuscola io, dormivamo raggomitolate l’una all’altra. E so che in questo combaciare c’è già lo strappo e la separazione che ci commuove e confonde. Ché la vita è una roba assurda e senza senso, in cui a volte guardi la strada come un’adolescente innamorata, le stagioni continuano ad alternarsi e tutto gira e gira nel gioco del cerchio, come le cantavo mentre, nascendo, si separava per la prima volta dal mio corpo, rimanendomi dentro.
“Priscilla, se io sono io e tu sei tu, chi è scema io o tu?”. Mentre rivolgo alla gatta questa domanda da bimba minchia che mi riporta alle scuole elementari, lei fa una smorfia che immortalo in una foto. È la sua inconsapevole risposta. La scema sono io, lei è una gatta anche se non lo sa, presa com’è a mangiare, bere, dormire, giocare, farsi amare, dare un senso alla lettiera, svegliarmi alle 5 del mattino, senza l’ingombro della definizione. Lei non ha un nome per le cose. Lei è e basta. Eppure gira per le mie sinapsi martoriate, il gioco di quando eravamo bambini, che ci sembrava contenesse un trabocchetto da qualche parte e spesso ci induceva a rispondere: nessuno dei due. Non lo sapevamo, ma, in fondo, intuivamo che io e tu sono ruoli ribaltabili. Bastava cambiare prospettiva, oppure ammettere che entrambi eravamo scemi. E così tu sono io e io sono tu, in una danza degli specchi dentro una rete di interazioni, legami, movimenti, cambiamenti. Ripenso alla domanda del mio mondo in bianco e nero, anche mentre guardo una serie TV, costruita da sceneggiatori attivatori del pianto sul divano. Per quella parola “us”, noi, già dentro il titolo, che ci fa capire quanto io e tu, siamo noi, perché l’esistenza si srotola a più strati. E ci ripenso mentre leggo su un libro la parola “entangled”, allacciati, dove Carlo Rovelli cerca di approcciare, anche le sceme come me, alla fisica quantistica, che continuo a non capire, ma che in qualche modo trasferisco al senso dell’incontro e dei suoi effetti. Priscilla mi guarda, miagola, si strofina alle caviglie, si sdraia sul pavimento. Vuole essere accarezzata. È uno scambio di cellule il nostro, che crea un microscopico legame, dentro un universo in cui ogni cosa è allacciata all’altra e parla con il linguaggio della relazione. Siamo piccoli nodi impermanenti di una rete infinita, dove, forse, l’unico senso, sta proprio in questo starci accanto e guardarci. C’è da diventare scemi, a pensarci.
Ottobre sembra già finito e il tempo, in questo giro di autunno ancora estivo, sta correndo altrove. Forse annusa l’aria, sente lo spavento dell’umano. C’è un che di smarrito nelle foglie e negli alberi, persino il mare assorbe la gran cassa dell’incerto. Nelle macerie ci si aggrappa al piccolo, al suono infinitesimale, alle coccinelle che si posano sul dorso della mano e ti senti appena felice per quell’attimo in cui credi alla fortuna. Una dottoressa, oggi, indossava scarpe insolite. Le persone le puoi capire dalle scarpe, specie se non obbediscono al contesto. Lei scruta gli organi con un ecografo, per scongiurare tracce di disumano. Le sue scarpe resistono ai passaggi di dolore, sono il suo dettaglio narrativo. Ha sorriso a mia madre, mentre osservava sorpresa sullo schermo, la giovinezza del suo interno. Ha gli occhi grandi ed è gentile, è lei la coccinella sulle mie dita, in questa mattina di ottobre che fugge. La incalzo di domande. Nei suoi racconti mi immergo nell’umano, finito e dolorante, mentre fuori il mondo gioca a scacchi con la follia. La salutiamo, lei resta sola nella stanza, in attesa della processione dei corpi, nella sua cellula di resistenza. C’è il cielo del sud ingannatore ad aspettarci, lui sembra non smarrirsi mai, così lontano dal nostro chiasso, dal tempo delle nostre scontentezze ricoperte di glassa. E così ogni accadere, mentre in una stanza una donna sola, con le sue scarpe carioca, gli occhi grandi e un sorriso gentile, accoglie il cuore degli altri contenendoli tutti, con grazia, con bellezza, senza fare rumore, come una coccinella.
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